
Usiamo questa antica parola, finita chissà dove, sfinita chissà dove. Sembrerebbe non esistere oggi un titolo meno brillante o più respingente di questa parola che è stata abusata in ogni modo, compreso quello erotico. “Politica” significa allontanare le persone?
Sì. Quali? Coloro che sono per il sisma e l’indifferenza, stremate dalla massa di informazioni e dalla caotica alternanza tra principio di realtà e di irrealtà (i soldi che mancano, nella società più ricca della storia umana – un esempio qualificante e squalificante di crollo del principio di non contraddizione potrebbe essere questo, il bilancio famigliare di ciò che furono la ex classe proletaria e la ex piccolissima borghesia).
Il potere di acquisto è un potere? E acquisisce cosa? Quale proprietà, definitivamente, in un mondo sharing, dove ci si può ritenere proprietari e invece si sta affittando?
Chi oggi, firmando un contratto, che so?, con una telecom o una banca per aprire un conto, legge davvero il contratto e quindi veracemente lo firma con piena vertenza e deliberato consenso? E, se nessuno firma il contratto che firma, quella Carta che è il nostro contratto sociale e civile, ovvero la Costituzione, continua a essere un contratto?
La sfinitezza della politica genera un’immagine.
Le organizzazioni politiche sembrano oggi automobili prive di ruote. Il carico è stato terminato, nell’abitacolo sono saliti i passeggeri, che dovrebbero trasportarsi autonomamente guidando la macchina – ma l’auto non si muove: non ha le ruote. Uno strumento di movimento, potenzialmente il più attivo e veloce e tradizionalmente moderno, rimane inerte. Non si muove più nella realtà. E infatti le persone stanno incominciando a superare quest’attrezzo farraginoso e inquinante, che rischia di andare fuoriuso se non si riforma radicalmente e divenendo leggero e a guida autonoma con algoritmi. Anche questo attrezzo, l’automobile, è stato abusato e ha guidato per un intero secolo, il Novecento. Le persone che iniziano ad abbandonare l’uso dell’auto camminano, vanno in bicicletta, il quale è esso stesso un attrezzo che da fuoriuso torna di attualità, perché manifesta doti profetiche: per esempio, la sua vocazione a non inquinare e a fornire di salute chi lo usasse. Piantato a terra e immobile, il veicolo a quattro ruote, senza le quattro ruote, non è più un veicolo. Per i filosofi si potrebbe forse dire che quel veicolo forse è davvero tale per la prima volta: veicola puramente se stesso, la propria inerzia, la propria pesantezza, la propria tossicità, la propria incapacità a muoversi armonicamente nel mondo.
Sarebbe una buona metafora per immaginare cosa è finita per essere oggi la politica, l’impegno politico e la visione politica. Se non fosse significativo anche l’elemento mancante nell’immagine dell’auto. Perché oggi le organizzazioni politiche sembrano sì quell’automobile, ma anche ciò che le manca: ovvero le ruote. I partiti, i mediatori politici, danno l’impressione di essere oggi quattro ruote, prive di auto, che procedono ciascuna in ordine sparso, trasportando il nulla. Basterà ragionare sui singoli dirigenti politici, chiamati ai ruoli apicali della vita di Stato, per comprendere la casualità, anche barbara, con cui si muovono in maniera inadeguata al ruolo di governo delle nazioni, nel momento in cui peraltro non è la guida della nazione il problema, poiché la questione è il governo del mondo. E, in scala minore ma più essenziale, la questione è anche la guida del continente europeo, che si definisce Vecchio perché di volta in volta è sempre nuovo e all’avanguardia e che di fatto costituisce l’ecosistema in cui stiamo prosperando ed estinguendoci.
La ridefinizione delle categorie politiche può essere approntata più chiaramente per tutti in questo modo: o si va avanti o si va indietro. Ciò coinvolge necessariamente chi, ponendosi a destra, in realtà rivendica la volontà di andare indietro, di rallentare o modulare la corsa in avanti: null’altro sono, nei fatti, gli eterni conservatori. Se i conservatori sono eterni, saranno capaci di essere anche nuovi. Scendendo sul piano dell’attualità spicciola, precisamente questo è il nodo politico fondamentale e l’opportunità storica che si trova in mano Giorgia Meloni. Se sarà in grado di convertire la destra a una formazione che ama ciò che sta indietro, la forza del passato che tempera e regola l’ingresso nel futuro che ci risucchia con sempre maggiore violenza e velocità, Giorgia Meloni avrà scritto una pagina fondamentale della storia nazionale. Non si tratta di diventare moderati, ma di comprendere che, al momento, ogni istanza rivoluzionaria è sussunta dalla realtà, dal mondo, e non dallo spasmo politico, in questo ambiente ad alto welfare e tecnologia avanzata. Lo spasmo rivoluzionario, che implica violenza fisica e versamento di sangue nell’azione stessa di chi porta avanti il verbo della rivoluzione, si rattrappisce, ed eventualmente si allarga, nelle rivolte nichiliste che via via assumono battaglie tematiche (dai vaccini a posizioni prorusse), spesso con forti connotazioni di destra (gli assedi a Capitol Hill e a Brasilia). Lo spasmo esprime una visione politica che di per se stessa guarda all’indietro: è un vecchio armamentario, adeguato a una visione retrograda in senso tecnico.
Le rivoluzioni si sono ripensate da sole, nell’ambiente e nell’epoca digitali. Le rivoluzioni stanno agendo in forme politiche che sfuggono a una definizione. Sono le cose a fare la rivoluzione, ben più che i soggetti umani. Facciamo qualche esempio.
Esempi: la lotta per salvare la specie nell’ambiente terrestre; la lotta per arrivare a una equalità dei generi. Il tipo di violenza impegnata in queste lotte rivoluzionarie appare molto meno spasmodica e meno spastica delle forme di rivoluzione precedenti, come è facile per chi abbia vissuto o studiato quelle dei Sessanta a quelle dei Settanta a quelle postmoderne ma letali dei Novanta in Italia. Avanza la pretesa al potere come dato implicito. Non sembrano, quelle attuali, rivoluzioni che intendono prendere il potere per esercitarlo, ma semplicemente per incarnarlo, come se fosse un dato naturale. “E’ normale che sia così e non vedo perché il potere non debba riconoscerlo” sembra constatare lo spirito rivoluzionario del nostro tempo.
La stessa minaccia al sistema economico vigente è più atmosferica che violenta. Però è anche più rivoluzionaria che mai. La minaccia contemporanea al sistema economico vigente mette in discussione l’idea stessa di debito, riforma la nozione e la pratica del denaro, abbandona il culto della produzione e la centralità della funzione lavoro. Sia chiaro: sono tendenze, non attuazioni. Tuttavia, alla velocità in cui il tempo tecnologico sta andando, la tendenza rischia di essere l’attuazione non fra un decennio, ma domani stesso.
Il principio che vertiginosamente governa questo tempo va definito anche a parole. Stiamo assistendo a un cambio di paradigma, questo sì davvero violento, perché violenta fisicamente ed elettricamente i sistemi nervosi, portando a forme nervose e non solo culturali di sconcerto coloro che hanno vissuto l’ordine storico precedente. Non si limitano a questa rivoluzione nervosa chi è nato negli ordini sociali precedenti. Tali rivoluzioni a ciclo continuo espongono infatti a nuove problematiche sociali e di valore chi è nato nel regime digitale e hi-tech (si prenda, per esempio, la formazione professionale: l’aggiornamento continuo logora i soggetti e muta il senso stesso della prospettiva e del futuro degli umani più recenti, almeno finché non funzioneranno algoritmi sintetici dentro i corpi organici).
E’ dunque possibile dire che finisce in questi anni la civiltà di massa, che ha informato i due secoli precedenti, e inizia la civiltà di supermassa. Cos’è la supermassa? E’ l’immane comunità che si rappresenta, a livello di informazione, con l’accumulo dei big data in tutto il pianeta raggiunto dal digitale e dal sintetico. In pratica si tratta di una massa planetaria, che non è più una massa misurabile con le “modiche quantità” del passato. E’ invece una massa suprema, che coinvolge chiunque sia umano sul pianeta.
Ogni azione impatta sul pianeta. Ogni decisione coinvolge la vita planetaria. Se ancora esiste un soggetto, vivente e pensante, tale soggetto raggiunge dimensioni e potenza mai prima verificate.
Tale soggetto è l’umanità.
Umanità e avanti. Sono due parole di antico gergo, che, esattamente come le biciclette nell’immagine sopra descritta, quella dell’auto senza ruote, riemergono da un secolo precedente, l’Ottocento, per assumere una diffusione e un’attualità sconcertanti. Sono il verbo del socialismo. “L’Umanità” fu in Italia il quotidiano politico del Partito Socialdemocratico e “Avanti!” quello del Partito Socialista.
Senza domanda, e dunque senza possibilità di risposta su cosa siano Umanità e Avanti, non è possibile nessun nuovo socialismo, nessun socialismo del XXI secolo. Mancherebbe almeno un terzo della politica, secondo la classificazione pregressa.
L’umanità come massa unica planetaria e avanti nel tempo in cui siamo immersi: è questo il soggetto ed è questo il luogo di generazione di un nuovo socialismo, ma diremmo di una nuova politica in generale.
Se nell’ordine precedente, durato duemilaquattrocento anni, la politica poteva esistere solo designando un avversario, qua non si disporrebbe di un nemico politico ortodosso. L’avversario, in questo tempo tanto veloce, è invece il collasso secco della prospettiva democratica. Se ci fu un’organizzazione politica del collasso democratico nel secolo scorso, come quello da Weimar a Hitler, questa volta ci si trova di fronte a un elemento dinamico e meccanico pressoché caotico, ma non meno vitale della pulsione a tenere in vita la prerogativa democratica e repubblicana. Che sia Trump o Le Pen, lo spegnimento del sistema, che chiama violenza fisica, è l’antagonista. Soggetto frastagliato, sfuggente, contraddittorio, appunto caotico.
Le domande stringono. La morsa non permette di respirare. Per tornare all’ossigeno, serve allentare la presa di quelle domande fatali, decisive. Esse ridefiniscono il campo di ciò che fu chiamato: politica.
Quali domande hanno un carattere così cruciale? Per esempio, questa stessa domanda.
Possiamo azzardare qualche interrogativo, che sembra ricollocare l’umanosfera in una dimensione nuova, continuamente rinnovata dalla velocità di calcolo che comporta una mutazione senza fine del tempo umano.
Cosa significa produrre? E come si produce?
In che senso esiste un debito? Chi lo riscatta? La proprietà si applica a cosa? E’ privata o pubblica? L’affitto, lo sharing, il leasing trasformano la proprietà?
La democrazia si sta esercitando in forma rappresentativa o diretta o in quale altra forma, ora che il popolo ha dimensioni mondiali?
Fare la guerra non significa oggi forse essere comunque sconfitti?
Guerra da dove a dove? Guerra per i confini? Che consistenza ha un confine?
In che modo possiamo respirare e permettere che respiri chi viene dopo su questo pianeta? Mutando i polmoni o detossificando l’ecosfera? E come detossificarla? Intervenendo chimicamente e tecnologicamente, oppure fermando le attività e abbandonando l’idea di sviluppo tecnico ed economico?
L’energia non è forse la proprietà del nuovo tempo, che si socializza?
L’intelligenza è soltanto umana? Quale differenza o discontinuità esiste tra naturale e artificiale?
La libertà risiede nell’andare avanti o nello stare attenti a procedere e nell’avere presente da dove si proviene e cosa c’è dietro?
L’eternità in vita di Max Headroom.
L’immortalità sintetica e incorporea, come vita priva di organi ma non di organizzazione.
La grande ossessione dello Spettacolo, finalmente compiuta storicamente.
Le e i responsabili di ciò che potrebbe definire una politica sempre contemporanea, cioè capace di guidare il tempo che continua ad anticiparsi per via tecnologica, hanno di fronte, esaltanti e tremende, queste possibilità di pensare il nuovo e l’antico. Di essere politiche e politici come mai accaduto prima sulla faccia del pianeta.
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