
[l’immagine sopra è un quadro di Tommaso Pincio del 2011, “Ritratto di Franz Kafka con immane insetto”]
di Maurice Blanchot [in “Da Kafka a Kafka”, Feltrinelli, 1983]
Sembra che la letteratura consista nel provare a parlare nell’istante in cui la confusione esclude ogni linguaggio e di conseguenza rende necessario il ricorso al linguaggio più preciso, più cosciente, più lontano dal vago e dal confuso, al linguaggio letterario. In questo caso, lo scrittore può credere di creare “la propria possibilità spirituale di vivere”; sente la propria creazione legata, parola per parola, alla propria vita, ricrea se stesso e si ricostruisce.
E’ allora che la letteratura diviene un “assalto portato alle frontiere”, una caccia che, con le forze opposte della solitudine e del linguaggio, ci conduce all’estremo limite di questo mondo, “ai limiti di ciò che è generalmente umano”. Si potrebbe anche sognare di vedere la letteratura tradursi in una nuova Kabbala, in una nuova dottrina segreta che, venuta dai secoli passati, rinascerebbe oggi e inizierebbe a esistere, a cominciare e al di là di se stessa.
Compito che non può essere realizzato, senza dubbio, ma è già sorprendente che possa essere considerato possibile. L’abbiamo detto: nell’impossibilità generale, la fede che ha Kafka nella letteratura rimane eccezionale. Raramente si ferma all’insufficienza dell’arte. Se scrive: “L’arte vola attorno alla verità, ma con la precisa intenzione di non farsi bruciare. La sua abilità è nel trovare, nel vuoto, uno spazio in cui il raggio della luce possa essere ricevuto con forza, ma prima di cogliere la luce“, dà egli stesso una risposta con quest’altra riflessione, più triste: “La nostra arte è di essere ciechi di verità: la luce sul viso che indietreggia con una smorfia, solo questo è vero e null’altro”. E anche questa definizione non è senza speranza: è bene perdere la vista, ancor di più vedere da ciechi; se la nostra arte non è luce, è l’oscurità, la possibilità di cogliere il lampo nell’oscurità.
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