
Forse il tempo del sangue ritornerà.
Uomini ci sono che debbono essere uccisi.
Padri che debbono essere derisi.
Luoghi da profanare bestemmie da proferire
incendi da fissare delitti da benedire.
Ma piú c’è da tornare ad un’altra pazienza
alla feroce scienza degli oggetti alla coerenza
nei dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare.
Al partito che bisogna prendere e fare.
Cercare i nostri eguali osare riconoscerli
lasciare che ci giudichino guidarli esser guidati
con loro volere il bene fare con loro il male
e il bene la realtà servire negare mutare.
[da “L’ospite ingrato”, 1958]
***
Traducendo Brecht
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano grida e piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più, voce. Gli oppressi
sono oppressi e tranquilli, gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
[da “Una volta per sempre”, 1963]
***
La posizione
Noi ci troviamo in questo momento in corsa
in una lunghissima curva della pista: che è la pianura
di nebbia fetida, chioschi, conigli sbranati, fari.
Precipita la notte e incanta la regione.
Le auto multicolori emettono appelli
Bruciano filamenti d’oro. Oh, essere vivi ci è caro.
E se altre notizie volete possiamo dirvi
che su nel cielo il freddo animale immaginario piange.
E se troverà taluno nel portabagagli una testa recisa
che apre e chiude sempre più lente le labbra
talaltro avrà i giornali o i mirtilli d’una volta.
Noi porteremo a termine comunque il compito vegliando
questo nel piccolo sonno ormai riunito popolo.
[da “Questo muro”, 1973]
***
Questo verso
– Tu conmigo, rapaz? – Contigo, viejo.
Notte ancora e la casa nel suo sonno.
Già sveglio, andavo alla finestra, aprivo
le imposte del terrazzo,
su quella ringhiera posavo la fronte.
Oltre gli orti ancora bui, le chiese e i culmini,
il cielo era chiaro in cima ai rami
dei platani, dei lecci e degli allori.
Il disegno era rigido e preciso,
contro i colli, dei cipressi e delle rondini.
Perché pietà per quell’ombra, perché
la scongiuro se scorgo
le orme di minuscole ferite
sui ginocchi dei ragazzi e, mi rammento,
gustavo fra i denti le croste brunite
raschiate alle mie cicatrici.
Atterrito dal mondo e da se stesso
Egli fermava contro il ferro la sua tempia.
Rispondo che è pietà per l’avvenire,
per il patire interminato che
entro tanto splendore uno spavento
come una bestia immane dall’azzurro
annunziava a quel misero tremante
nella felicità che il pianto libera.
Da qui lo assisto, da qui ora lo consolo…
Poi quando i rami al raggio si avvivavano
della meravigliosa alba serena
l’Apparita lontana era speranza
al primo vento già volando questo verso.
[da “Composita solvantur”, 1994]
***
Se volessi un’altra volta queste minime parole
sulla carta allineare (sulla carta che non duole)
il dolore che le ossa già comportano
si farebbe troppo acuto, troppo simile all’acuto
degli uccelli che al mattino tutto chiuso, tutto muto
sull’altissima magnolia si contendono.
Ecco scrivo, cari piccoli. Non ho tendine né osso
che non dica in nota acuta: «Più non posso».
Grande fosforo imperiale, fanne cenere.
[da “Composita solvantur”, 1994]
***
«E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente,
quelle giovani carni! Era il ‘domani’,
era dell”avvenire’ il disperato gesto…
Al mio custode immaginario ancora osavo
pochi anni fa, fatuo vecchio, pregare
di risvegliarmi nella santa viva selva.
Nessun vendicatore sorgerà,
l’ossa non parleranno e
non fiorirà il deserto.
Diritte le zampette in posa di pietà,
manto color focaccia i ghiri gentili dei boschi
lo implorano ancora levando alla luna
le griffe preumane. Sanno
che ogni notte s’abbatte la civetta
affaccendata e zitta.
Tutta la creazione…
Carcerate nei regni dei graniti, tradite
a gemere fra argille e marne sperano
in uno sgorgo le vene delle acque.
Tutta la creazione…
Ma voi che altro di più non volete
se non sparire
e disfarvi, fermatevi.
Di bene un attimo ci fu.
Una volta per sempre ci mosse.
Non per l’onore degli antichi dèi,
né per il nostro ma difendeteci.
Tutto ormai è un urlo solo.
Anche questo silenzio e il sonno prossimo.
Volokolàmskaja Chaussée, novembre 1941.
«Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci.
Abbiamo Mosca alle spalle». Si chiamava
Klockov.
Rivolgo col bastone le foglie dei viali.
Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia.
Proteggete le nostre verità
[da “Composita solvantur”, 1994]
Scopri di più da Giuseppe Genna
Abbonati per ricevere gli ultimi articoli inviati alla tua e-mail.