Una foto insieme a Milo De Angelis

Questa è una delle fotografie per me più commoventi che mi siano state scattate negli ultimi anni. Sono alla Triennale, il 23 giugno 2016, e sto parlando con Milo De Angelis, per me il massimo poeta vivente insieme a Yves Bonnefoy. L’immagine è cliccabile, per una versione più ampia.
Sotto la foto, scattata a un evento organizzato da il Saggiatore, alcune poesie dello stesso Milo De Angelis.

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Alcune poesie di Milo De Angelis: Continua a leggere “Una foto insieme a Milo De Angelis”

“Composizione composta”: una poesia

COMPOSIZIONE COMPOSTA

Ecco appare l’aurora che la terra non sa.
E questo di lontano andava, andava a me,
come, desolato, era me a decidere la madre dell’aurora
di essere in una desolazione fonda
in un falasco di vita. Dove dirai:
“Sono stato una persona di storie, poche,
e pochi venti hanno eroso me in un pianeta, amato,
tra spoglie deserte e gigli e S.E.R.T.
dove pensavo di fremere bambino di metadone
in metadone ragionando gli altri, magri, lunghi,
con unghie nere di gromma, lontano dalle gralle,
tra i biglioni sulla sabbia all’Adriatico e i dolori
di, in ottavo, un Kafka, una cosina umana, e nemmeno,
un pallore piccolo e portabile
e disse: ‘Uccidesti il figlio dell’Aurora:
non rivedrai né la sua madre ancora!’…”…
E là?… E là…?
Là è la madre delle cose un punto
e chi è baratro al pari di me è bravo
a resistere dolcemente ondulando a pena
e poi, sapete?, fiotta, e urta le pareti
solide, e con cupo impeto rimbomba.
Si travolge infinito abisso dico.
Non intendo davvero di dare un’immagine e,
a pena, una mnemotecnica, una pena
e di finire dove finisco io e giunse
giunse a, immenso, l’azzurro oceano natale e sa
stare che non sapevo e vedevo lontano
le madri affaticate, le levatrici, antichi ardori…
… e tutti voi volare via dallo sguardo tutti…

Mario Benedetti: una poesia da “Tersa morte”

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Una poesia di Mario Benedetti da “Tersa morte” (Mondadori, 2013)

Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.

Una poesia autografa di Mario Benedetti


Una poesia autografa di Mario Benedetti: è la quarta di copertina di “Pitture nere su carta”, edito da Mondadori nella collana Lo Specchio, nel 2008. Il testo, che nel libro ha come esergo “physical dimensions”, è questo:

Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.

L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.

Qui.
Oh.

da Facebook http://on.fb.me/1qFHXZt

Derek Walcott: poesie

– Perché la memoria è meno del posto che vagheggia,
da nessun luogo deriva la sua forma
se non per dire che perfino con la merda e l’affanno
di quel che ci facciamo a vicenda con la beatitudine della corrente
contraddice la prosopopea della disperazione
con alcune scintillanti semplici cose, acqua, foglie, e aria,
che eccitano dissoluzione pronta ad andare oltre la felicità. –

Because memory is less
than the place which it cherishes, frames itself from nowhere
except to say that even with the shit and the stress
of what we do to each other, the running stream’s bliss
contradicts the self-importance of despair
by these glittering simplicities, water, leaves, and air,
that elate dissolution which goes beyond happiness.

(da Parang – The Bounty)

***

Lontano dall’Africa

Un vento scompiglia la fulva pelliccia
Dell’Africa. Kikuyu, veloci come mosche,
Si saziano ai fiumi di sangue del veld.
Cadaveri giacciono sparsi in un paradiso.
Solo il verme colonnello del carcame, grida:
«Non sprecate compassione su questi morti separati!».
Le statistiche giustificano e gli studiosi colgono
I fondamenti della politica coloniale.
Che senso ha questo per il bimbo bianco squartato
nel suo letto?
Per selvaggi sacrificabili come Ebrei?

Trebbiati da battitori, i lunghi giunchi erompono
In una bianca polvere di ibis le cui grida
Hanno vorticato fin dall’alba della civiltà
Dal fiume riarso o dalla pianura brulicante di animali.
La violenza della bestia sulla bestia è intensa
Come legge naturale, ma l’uomo eretto
Cerca la propria divinità infliggendo dolore.
Deliranti come queste bestie turbate, le sue guerre
Danzano al suolo della tesa carcassa di un tamburo,
Mentre egli chiama coraggio persino quel nativo terrore
Della bianca pace contratta dai morti.

Di nuovo la brutale necessità si terge le mani
Sul tovagliolo di una causa sporca, di nuovo
Uno spreco della nostra compassione, come per la Spagna,
Il gorilla lotta con il superuomo.
Io, che sono avvelenato dal sangue di entrambi,
Dove mi volgerò, diviso fin dentro le vene?
Io che ho maledetto
L’ufficiale ubriaco del governo britannico, come
sceglierò Tra quest’Africa e la lingua inglese che amo?
Tradirle entrambe, o restituire ciò che danno?
Come guardare a un simile massacro e rimanere freddo?
Come voltare le spalle all’Africa e vivere?

A wind is ruffling the tawny pelt
Of Africa. Kikuyu, quick as flies,
Batten upon the bloodstreams of the veldt.
Corposes are scattered through a paradise.
Only the worm, colonel of carrion, cries:
«Waste no conpassion on these separate dead!».
Statistics justify and scholars seize
The salients of colonial policy.
What is that to the white child hacked in bed?
To savages, expendable as Jews?

Threshed out by beaters, the long rushes break
In a white dust of ibises whose cries
Have wheeled since civilization’s dawn
From the parched river or beast-teeming plain.
The violence of best on beast is read
As natural law, but upright man
Seeks his divinity by inflicting pain.
Delirious as these worried beasts, his wars
Dance to the tightened carcass of a drum,
While he calls courage still that native dread
Of the white peace contracted by the dead.

Again brutish necessity wipes its hands
Upon the napkin of a dirty cause, again
A waste of our compassion, as with Spain,
The gorilla wrestles with the superman.
I who am poisoned with the blood of both,
Where shall I turn, divided to the vein?
I who have cursed
The drunken officer of British rule, how choose
Between this Africa and the English tongue I love?
Betray them both, or give back what they give?
How can I face such slaughter and be cool?
How can I turn from Africa and live?

[da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi]
A far cry from Africa

***

Il naufrago

L’occhio affamato divora la marina per un tozzo
di vela.

L’orizzonte la percorre all’infinito.

L’azione nutre la frenesia. Io giaccio,
veleggiando l’ombra nervata di una palma,
temendo il moltiplicarsi delle mie impronte.

Sabbia che vola, esile come fumo,
annoiata, sposta le sue dune.
La risacca si stanca dei suoi castelli come un bambino.

La verde vite salata con gialle bignonie,
una rete, attraversa lenta il nulla.
Nulla: la rabbia di cui è piena la testa del flebotomo.

Piaceri di un vecchio:
mattino: contemplativa evacuazione, rimirando
la foglia secca, progetto di natura.

Al sole, le feci del cane
s’incrostano, sbiancano come corallo.
Finiamo nella terra, dalla terra siamo cominciati.
Nelle nostre viscere, genesi.

Se ascolto posso udire il polipo al lavoro,
il silenzio infranto da due onde del mare.
Schiacciando un pidocchio marino, faccio schiantare il tuono.

Come un Dio, annullando la divinità, l’arte
e l’Io, abbandono
morte metafore: il cuore simile a foglia di mandorlo,

il cervello maturo che marcisce come una noce gialla
covando
la sua babele di pidocchi marini, flebotomi e bruchi,

quel vangelo della bottiglia verde, soffocato di sabbia,
con l’etichetta, una nave affondata,
serranti legni marini inchiodati e bianchi come la mano di un uomo.

The Castaway

The starved eye devours the seascape for the morsel
of a sail.

The horizon threads it infinitely.

Action breeds frenzy. I lie,
sailing the ribbed shadow of a palm,
afraid lest my own footprints multiply.

Blowing sand, thin as smoke,
bored, shifts its dunes.
The surf tires of its castles like a child.

The salt green vine with yellow trumpet-flower,
a net, inches across nothing.
Nothing: the rage with which the sandfly’s head is filled.

Pleasures of an old man:
morning: contemplative evacuation, considering
the dried leaf, nature’s plan.

In the sun, the dog’s feces
crusts, whitens like coral.
We end in earth, from earth began.
In our own entrails, genesis.

If I listen I can hear the polyp build,
the silence thwanged by two waves of the sea.
Cracking a sea-louse, I make thunder split.
Godlike, annihilating godhead, art
and self, I abandon
dead metaphors: the almond’s leaf-like heart,

the ripe brain rotting like a yellow nut
hatching
its babel of sea-lice, sandfly, and maggot,

that green wine bottle’s gospel choked with sand,
labelled, a wrecked ship,
clenched sea-wood nailed and white as a man’s hand.

[da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi]

***

Il negro rosso che ama il mare

Io sono solamente un negro rosso che ama il mare,
ho avuto una buona istruzione coloniale,
ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese,
sono nessuno, o sono una nazione.

I’m just a red nigger who love the sea,
I had a sound colonial education,
I have Dutch, nigger, and English in me,
and either I’m nobody, or I’m a nation

[da Mappa del nuovo mondo, Adelphi, Milano 1992; Traduzione di Barbara Bianchi]

***

Mappa del nuovo Mondo

Alla fine di questa frase, comincerà la pioggia.
All’orlo della pioggia, un vela.

Lenta la vela perderà di vista le isole;
in una foschia se ne andrà la fede nei porti
di un’intera razza.

La guerra dei dieci anni è finita.
La chioma di Elena, una nuvola grigia.
Troia, un bianco accumulo di cenere
vicino al gocciolar del mare.

Il gocciolio si tende come le corde di un’arpa.
Un uomo con occhi annuvolati raccoglie la pioggia
e pizzica il primo verso dell’Odissea.

[da Mappa del nuovo Mondo]

***

Nostalgia del mare

Qualcosa di rimosso rimbomba nelle orecchie
a questa casa,
fa pendere le tende senza vento, tramortisce
gli specchi
finchè i riflessi perdono sostanza.

Un certo suono pari al digrignare di mulini a vento
si è fermato di colpo;
un’assenza assordante, una mazzata.

Accerchia questa valle, pesa su questo monte,
estrania il gesto, spinge questo lapis
attraverso un fitto nulla, ora,

carica di silenzio le dispense, piega il bucato acido
come i panni dei morti, lasciati esattamente
dai congiunti come usavano i morti,

increduli, aspettando occupazione.

[da Mappa del nuovo Mondo]

***

Mezza estate, Tobago

Larghe spiagge lastricate dal sole.

Calore bianco.
Una fiumana verde.

Un ponte,
gialle palme bruciacchiate

giù dalla casa in letargo estivo
appisolata per tutto l’agosto.

Giorni che ho stretto,
giorni che ho perduto,
giorni che sono troppo grandi, ormai, come figlie,
per rifugiarsi nel porto delle mie braccia.

[da Mappa del nuovo Mondo]

***

Amore dopo amore

Tempo verrà
in cui, con esultanza,
saluterai stesso arrivato
alla tua porta, nel tuo proprio specchio,
e ognuno sorriderà al benvenuto dell’altro,

e dirà: Siedi qui. Mangia.
Amerai di nuovo lo straniero che era il tuo Io.
Offri vino. Offri pane. Rendi il cuore
a se stesso, allo straniero che ti ha amato

per tutta la tua vita, che hai ignorato
per un altro e che ti sa a memoria.
Dallo scaffale tira giù le lettere d’amore,

le fotografie, le note disperate,
sbuccia via dallo specchio la tua immagine.
Siediti. È festa: la tua vita è in tavola.

[da Mappa del nuovo Mondo]

***
Aria

Le inascoltate, onnivore
fauci di questa foresta pluviale
non solo divorano tutto
ma non ammettono nulla di vano;
non si placano mai,
macinando il loro ripudio
della sofferenza umana.

Molto, molto prima di noi
quelle torride fauci, come un forno
fumigante, erano aperte
al genocidio; divorarono
due piccole razze gialle
e metà di una nera;
nella Parola fatta carne di Dio
tutti entrarono in quell’immane stomaco che non
fa distinzioni;

la foresta non si è convertita
perché quel rumore di conchiglia
che romba come il silenzio, o come
i cori dell’oceano, vestiti di cotta,
che accendono alla sua navata, a un incensiere
che diffonde nebbia, non è
un fruscio di preghiera
ma nulla: aria mulinante,
una fede, infestata, cannibale,
che mangia gli dei, che divorò
il Caribe ostile a ogni Dio, un petalo
d’oro dopo l’altro, poi ha dimenticato,
e l’Aruaco
che del suo fossile non lascia
la traccia più lieve, una felce, da coltivare
nella roccia nera,

ma soli i gridi rugginosi
di un cuculo, simile a un rauco
guerriero che aduna la sua razza
dall’aria vaporante
tra questa dorsale di monti
e il vago mare
in cui l’esodo perso
delle canoe affondò senza traccia –

c’è troppo nulla qui.

***

La luna mattutina

Ancora stregato dal ciclo della luna
che corre a vele spiegate
oltre il dorso di balena acquattata, Morne Coco Mountain,
guardo attonito al suo sano chiarore.

È l’inizio di Dicembre,
la brezza rinfresca la pelle a questa terra,
la pelle d’oca dell’acqua,
e io osservo il tuffarsi azzurro
di ombre giù dal Morne Coco Mountain,
la meridiana di Dicembre,
felice che la terra cambi ancora,
che la luna piena possa accecarmi
con la sua fronte
in questo chiaro primo mattino,
e che sottili ramoscelli bianchi spuntino
dalla mia barba.

The morning moon

Still haunted by the cycle of the moon
racing full sail
past the crouched whale’s back of Morne Coco Mountain,
I gasp at her sane brightness.

It’s early December,
the breeze freschens the skin of this earth
the goose-skin of water,
and I notice the blue plunge

of shadows down Morne Coco Mountain,
Dicember’s sundial,
happy that the earth is still changing,
that the full moon can blind me

with her forehead
this bright foreday morning,
and that fine sprigs of white are springing
from my beard.

[da Sea Grapes – 1976]

Pubblicato su Web per la prima volta il 28 febbraio 2008

Milo De Angelis: QUELL’ANDARSENE NEL BUIO DEI CORTILI

I muri sono il luogo di un racconto minore
dove si parla di sangue e di anemoni, di sangue
inspiegabile che bagna la parola, qualcosa
che ci getta negli oceani e nel peso
nudo del lampo, ma poi ritorna qui, alla radice
di una stanza e di una donna,
quell’idea sovrana e incenerita
che ci ha tenuti per un verso.

* * *

Via Selvanesco

Fu il rosa tenue del cielo, la salmodia
dei corpi vivi nella risaia, fu quel
presente di spighe
che la terra sprigionava
per noi, pattuglia di due anime:
come rintocca quell’ ostinato
silenzio dei crepuscoli,
tu ritorni da un refolo di vento
Con una sciarpa viola ti alzi
dalla risaia e mi raggiungi, drastica presa
che tiene congiunti: c’è ancora un grido
tra i chicchi incantati e consenzienti
e ogni cosa per noi sembra creata.

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Ted Hughes: da ‘Fiori e insetti’

hughespoesieTed Hughes è nato a Mytholmroyd, nello Yorkshire inglese, il 17 agosto 1930. Entrato a Cambridge nel 1951 per laurearsi in letteratura, abbandona la facoltà per darsi allo studio dell’archeologia. Laureatosi nel ’54, per mantenersi svolge le professioni più disparate: guardiano di zoo, giardiniere, portiere notturno, insegnante.
Nel 1956 si sposa con Sylvia Plath, che insieme a lui formerà la coppia letteraria più in vista d’Inghilterra, essendo, con tutta probabilità, Hughes tra i migliori poeti del dopoguerra e Plath la migliore in assoluto. E’ nel ’57 che avviene l’iniziazione editoriale di Hughes. Plath batte a macchina un manoscritto del marito, lo invia a un premio nella cui giuria figurano W.H. Auden, Stephen Spender e Marianne Moore. Hughes viene premiato e Harper pubblica immediatamente The Hawk in the Rain. La coppia Hughes-Plath si trasferisce nel Massachusetts, dove Ted insegna all’Università e Sylvia in un liceo. Presto la poetessa prende casa a Boston, decidendo di abbandonare la scuola per dedicarsi alla letteratura a tempo pieno.
1960: viene pubblicato Lupercal di Hughes, e nasce la prima figlia della coppia, che nel frattempo si è trasferita a Devon, in Inghilterra. L’anno successivo, i due hanno un nuovo figlio. Plath manifesta sintomi di una depressione fortissima. Il matrimonio, nonostante la nascita dei due bambini, è in crisi profonda, e i due poeti si separano presto. Nel 1963 Sylvia Plath si suicida. Tocca a Hughes crescere i due figli, chiudendosi in uno sdegnato silenzio, di fronte accuse che lo vogliono elemento scatenante del suicidio di sua moglie.Solitario custode della privacy propria e della sua famiglia, Hughes accumula titoli di poesia e premi. Tra i maggiori riconoscimenti assegnatigli, svetta la nomina a Poeta Nazionale inglese.Il silenzio fatto calare da Hughes sulla vicenda privata di Sylvia Plath è stato rotto dalle poesie di Birthday Letters, soltanto poco prima della morte del poeta inglese, avvenuta il 28 ottobre 1998. Ted Hughes è stato autore tra l’altro di libri per l’infanzia. Tra i suoi titoli usciti in Italia, ricordiamo: Lettere di compleanno, L’azzurra pelle del mare, Storie del mondo primitivo, Fiori e insetti.
 

Narcisi

I Narcisi scuotono le loro stelle
al vento verdedorato dell’ultimo bagliore.
La loro felicità non ha peso.
La loro letizia è spirito.

Anche stanotte avrà stelle precarie
sul monte della Luna
e brina d’Aprile.

I Narcisi sono intoccabili
nel fruscio di un film muto
che accelera un ballo
e risa di bambini
alla fine della Grande Guerra.

Le loro faccine sono schiacciate
sotto i grandi e molli fiocchi di un pallido nastro.

Ma questa è adesso la felicità
essere grandi –
magre ragazze alla moda,
i capelli all’indietro, le sottili labbra dischiuse, spinte
dentro un freddo sole, le guance splendenti,
delicate come ghiaccio acceso.

Non potranno soffrire.

(Anche nel solenne e gelido
strazio dell’altrui lutto,
saranno al sicuro –

bulbi nella terra
sotto le ciocche della ghirlanda).

Ghirlanda di stelle.

Luci-spiriti nell’orto.

 

Rovi

L’aria intera, il giorno intero
vortica dei richiami delle taccole. La stirpe neonata
delle taccole è iniziata
alla taccolità – quella complicata
corte di convenzioni

e precedenze, di sciovinismo e leggi.
Corte che è quasi una prigione – con sbarre
di gridi e di segnali. Carcerieri
sono tutte le altre taccole. Aprendomi una via
tra i grovigli dei rovi

ho pensato di nuovo: mi sentono?
I rovi sono un tale successo, le loro difese
così elaborate,
la loro estensione così intenzionale, sono svegli?
Certo un nimbo di dolore e di piacere

siede sulla loro nuda corona,
la loro offerta sessuale. Certo non sono solo insensibili,
un vano andare a tentoni. E poi perché no?
Non è lo stesso per le cellule del mio sangue?
Le mie cellule cerebrali forse temono o sentono

il bisturi o l’incidente?
Anch’esse incoronano una pianta
di straordinaria insensibilità. E le taccole
si danno segretamente da fare per essere taccole
come se fossero semi nella terra.

L’intera claque è un’ottenebrata religione
intorno alla sintassi e al vocabolario divini
di una muta cellula, che non sa chi siamo
e neppure che siamo qui,
inimminenti come un qualsiasi fiore di rovo.

 

Eclissi

Per mezz’ora, attraverso una lente d’ingrandimento,
ho guardato i ragni fare l’amore indisturbati,
ignari del voyeur, orribilmente felici.

Prima, nell’angolo inferiore della finestra, a sinistra,
ho visto un comune ragno muoversi. Là
in quel letamaio di carcasse, un macello
di insetti seccati nei loro colori,
una tana trofeo di uniformi, rossi, verdi,
scaglie d’ali rigate di giallo e staccate, gli avanzi
dell’anno scorso, riarsi dall’inverno, inodori – teste,
busti, corsetti, gusci di zampe, una briciola di frammenti
in un museo di polvere e di oblio, là
in quella crepa, nascosta da vecchi involucri di cadaveri,
un ragno è venuto a vivere. Ha filato
una bava disordinata e quasi invisibile
di trefoli, alcuni angoli a caso
camuffati da grigia lordura di pioggia
sui vetri. L’ho visto muoversi. Poi uno più piccolo,
ugualmente rossiccio, del tutto simile,
solo più piccolo. Il maschio, che all’improvviso appariva.

A testa in giù, lei stava facendo una danza
lenta e malvagia. Tutte le zampe aggrappate
tranne le due principali, che battevano sulla tela,
facendola vibrare, pensavo, come una mosca, per attirare
il maschio immobile, a testa in giù, vicino al telaio,
a due centimetri da lei. Lui si allontanò,
preparandosi a fuggire, pensai. Forse
impaurito dalle sue intenzioni e dai suoi appetiti:
dubbioso. Ma il potere di lei, concentratosi,
incapace di sbagliare dopo tutti i milioni d’anni
che ci sono voluti a perfezionare quest’arte, lo fece girare
a una distanza di cinque centimetri, e lo appese
all’ingiù, la testa sotto di lei, il ventre contro.
Bloccato completamente, se non per quel debole,
appena percettibile pulsare delle sue pelose estremità.
Lei si fece dappresso, capovolta, piano piano,
e intrappolò le zampe anteriori di lui tra le sue.

Ecco, immaginai, il fattaccio.
Mi avvicinai per guardare. Qualcosa
di assai difficile da capire e da osservare
correttamente stava accadendo.
Le mani di lei sembravano gonfie, minuscole chele.
Quelle due pinze che lei si ripiega sotto il naso
per portare le cose alle sue tenaglie si stavano muovendo,
luccicanti. Lui si scuoteva ogni tanto.
Il guscio di lei sobbalzava – brevi spasmi
di crudeli estasi. Lo stava facendo a pezzi?
Qualcosa di molto più delicato, un accordo
molto più delicato stava avvenendo.
Sotto l’addome lui aveva un beccuccio –
presumibilmente il suo cazzetto nodoso,
rossiccio come il resto di lui, una tettarella,
un infinitesimale capezzolo. Probabilmente
al microscopio risulta dotato e disegnato
come il microattrezzo di una qualche navicella spaziale.
A me apparve semplice e rozzo. Tutt’altro che semplici,
invece, erano i palpi, le pinze-cesti di lei –
erano come i bracci meccanici
che trattano materia radioattiva
dall’altra parte del vetro di protezione.
Ma oscenamente abili. Ne allungò una,
non riesco a immaginare come ci riuscì,
ed estrasse dita scimmiesche dalle sue pinze di granchio
e afferrò il cazzo-capezzolo. Non appena lo ebbe
una bolla di lucido collante
si formò sulla pinza, grande come la sua testa,
poi si ridusse e man mano che si riduceva
lei mollava la presa,
come se il cazzo si fosse inceppato, e raddoppiò la quantità
di liquido brillante alle ganasce
e con questo si strofinò il muso e il sottopelle,
sei, sette secche strofinate, mentre il suo addome sobbalzava,
la punta della sua coda si dimenava e lui pendeva inerte.
Poi si attaccò a lui una seconda volta, al gomito,
e afferrò il suo germoglio, e la viscosa bolla
si gonfiò al di sopra delle sue chele, un rosso sperone vi guizzò
dentro, e lui sussultò nel suo capestro.
Allora la bolla si ridusse e lei la staccò
e se ne riempì ancora la faccia,
qualunque cosa fosse. Del tutto acquietati,
a parte quei sobbalzi furtivi,
essi pendevano a testa in giù, faccia a faccia,
tenendosi le zampe anteriori. Ancora non era chiaro
che cosa stesse accadendo. Continuò.
Mezz’ora. Finalmente lei si ritrasse.
Lui pendeva come un ragno morto, proprio comel’avevo visto
pendere per tutto quel tempo sotto di lei.

Pensai che fosse finito. Così adesso, pensai,
vedo il delitto. Ora potrei immaginare
che se lui si muovesse lei lo crederebbe una mosca
e si sentirebbe vorace. E finora
lei ha dimostrato scarso interesse per lui
concentrata com’era a tenerselo attaccato,
come se lui capovolto non fosse altro che il piatto
della prelibatezza. Ecco che si è spostata.
Per un po’ si è mossa intorno senza meta,
finché compresi che si stava concentrando
su una V di bianco polveroso, un delta
di filo che sembrava proprio lanugine. Poi vidi
che infilò il suo ventre ben dentro la V.
Vidi che con l’abilità dei suoi piedi, fini come baffi di gatto,
adattava bollicine di colla alle fibre e altre ne attaccava
per rendere più spessa e più profonda la V, e per
[chiuderne la punta.
Poi ci danzò sopra, a pancia in giù –
all’improvvisò si sollevò e si appese
sopra la V. Seduta nella coppa della V
stava una piccola bolla di nuovo biancore.
Un primo uovo? Di già? Allora con grande cura
lei maneggiò la bolla e spinse altre fibre lanose
nella V, su entrambi i lati,
riducendola via via. Capii
che stavo osservando la potente natura
in un momento di creazione, ma non sapevo di che cosa.
Presto l’informe puntolino di bianco
era un granello residuo, che lei abbandonò. Ritornò
verso il maschio, che pendeva ancora nella sua posizione.
Si fermò e si nettò accuratamente le mani,
serrandole nelle pinze. E all’improvviso
con rapida presa, miracolosamente precisa
si tolse qualcosa di bocca, che rovesciò
su un trefolo esterno della tela –
una particella di bianco – è lo scarto, pensai,
del loro accoppiamento. Così smisi di guardare.
Dieci minuti dopo ricominciavano.
Ora sono svaniti. Ho esaminato
tutta la discarica della carcasse
e le fessure della finestra al di sotto.
Sono nascosti. Lei lo sta divorando?
O c’è ancora qualche giorno di felicità
prima che lui entri nella sua collezione? Sono nascosti
probabilmente insieme nel buio muffito,
stringendosi gli avambracci, ascoltando la pioggia, godendo
mentre l’orlo del sole, dietro le nuvole,
si profila senza la nostra ombra.

Speciale Beppe Salvia

beppesalvia2Ci sono davvero, nella storia della letteratura italiana, alcuni grandi che meritano un riconoscimento assoluto, che attualmente è loro negato. Tra questi, Beppe Salvia: forse il migliore tra i poeti italiani cresciuti editorialmente negli anni Settanta e, con tutta probabilità, destinato a giganteggiare in questo povero presente. Il che non è, poiché Beppe Salvia morì sciaguratamente nell’85. Aveva animato la leggendaria rivista romana Braci, aveva pubblicato su Nuovi Argomenti e Prato Pagano. Non ebbe la fortuna di sfogliare Cuore (cieli celesti), il libro edito nell’88. Si attende che qualche grande editore superi i problemi di diritti che scellerati eredi pongono da anni a un’uscita degna della grandezza di Beppe Salvia, di cui il critico Arnaldo Colasanti ha scritto che “cerca con i suoi versi finestre accese in cielo; così non scrive un canto alla sua donna, ma una lettera votiva alla musa: a quella sconosciuta Serena, invocata appena in un soffio, quasi fosse il cuore stesso della poesia e di tutta l’esistenza dinanzi agli incanti delle cose”.

I begli occhi del ladro
di Gabriella Sica

Ci voleva un manipolo di poeti del Veneto (Munaro, Cecchinel, Casagrande e Di Palmo stesso) – che ha varato una sigla, Il Ponte del Sale, da un antico ponte di Rovigo dove operano – per pubblicare, con elegante e ineccepibile e celestina veste grafica, I begli occhi del ladro di Beppe Salvia. L’Italia culturale di oggi, troppo spesso misera e inadeguata, non ha ancora saputo ricambiare la generosità di un così magnifico frutto poetico maturato in pochi anni, dieci per la precisione, tra la seconda metà degli Anni Settanta e la prima metà degli Ottanta. Con le sue belle poesie, quasi un vademecum, Salvia ha magnificamente raccolto l’insegnamento che Petrarca ci ha lasciato sulla scienza del cuore e quella scienza lui ha rilanciato con freschezza e sapienza.
Ci volevano altri poeti per curare un altro, già grande poeta e riconosciuto autore cult delle nuove generazioni, scomparso ormai quasi venti anni fa, un sabato, il 6 aprile del 1985. Nel giorno della Passione, lui che compare in alcune foto, tra le sue rare, intento ad una memorabile lettura, una delle sue poche, tra le rovine del teatro di Tusculum, illuminato solo dalla luna e curvo, appoggiato ad una colonna di tortura, come Cristo nel giorno della Passione: «e io pallido e stanco come un mondo / intero dovessi sopportar tutto / su la mia schiena, faticavo tanto / m’immaginavo mondi tutti assai / più lievi e volatili di questo mio, / che tanto m’affliggeva e tormentava, e vaneggiavo di nascoste verità / e cieli quieti di pensieri chiari». In un giorno di primavera, «tra odori di mari lontani e queste vicine / piante di odori. La salvia la menta», dove il suo nome riprende scherzando, come era anche nella sua natura, l’umile natura di pianta officinale.
«Non ho pazienza più per niente, niente / più rimane della nostra fortuna». Non aveva avuto più pazienza Beppe per sopportare la vita dolorosa, accettarne l’ineluttabile dipanarsi, e in un giorno primaverile, lui che era un poeta che aveva riportato la lingua della poesia aduna nuova e splendida primavera, era volato via. Ma quando è morto, lui che aveva scritto «e non ho tempo e non ho vero verso», aveva già lasciato ai posteri la sua eredità: «Io ricordo, e d’ogni memoria niente mi è possibile mutare. Questo v’insegno: v’è arte e seppiatela usare».
Pasquale Di Palmo ha approntato una magnifica scelta antologica dai tre introvabili libri di Salvia, usciti tutti postumi. A cominciare dal primo, Elisa di Sansovino, che lui stesso aveva comunque preparato insieme a me per i «Quaderni di Prato pagano», Cuore (cieli celesti) ed Elemosine eleusine, entrambi curati da Arnaldo Colasanti. Ed ha aggiunto anche tre belle prose, tra le sue, tutte ancora inedite, che sanno dell’amato Landolfi anche visitato a Pico dov’è la sua tomba. Il veneto Pasquale Di Palmo sa, da lontano, finalmente vedere il Salvia romano ed anche rendere omaggio ad una stagione romana della poesia, insolitamente osservata con rispetto e cura nell’introduzione, Beppe Salvia o dell’«aerea vita». Chissà che non sia stato per Di Palmo anche un libro «scaramantico» e «un sentiero arioso» per tornare nell’Italia centrale, come aveva fatto nelle sue poesie di Ritorno a Sovana.
Sfoltendo comunque le tre raccolte, Di Palmo ha restituito una nuova chiarezza alla poesia di Salvia di cui emergono i temi centrali, quello della casa, dell’amicizia, della fedeltà, della vita. Beppe ha avuto molti amici, compagni di strada della poesia, ha inventato con loro riviste e libri, fogli e incontri, progettato idee e sogni, ha scritto e disegnato con loro, in quegli anni romani tanto creativi. In una delle sue più belle poesie, un magnifico ed emozionante sonetto, Beppe così scrive: «A scrivere ho imparato dagli amici, / ma senza di loro. Tu m’hai insegnato / a amare, ma senza di te. La vita / con il suo dolore m’insegna a vivere, / ma quasi senza vita…». Perché Beppe, che veniva dal Sud, dalla terra di Orazio e di Scotellaro, ma anche dalla Sicilia, era tornato al sonetto italiano, di Giacomo da Lentini, di Petrarca e Foscolo, da cui germogliava la limpidezza della sua poesia, un sonetto inaudito in quegli anni e prima di tanti neo-metricismi e con una meravigliosa solarità mediterranea e anche una gaia leggerezza che bisognerà pure una volta per tutte saper riconoscere. E questa edizione, competente e di bella umiltà, potrà dare i giusti frutti: far conoscere Salvia oltre la cerchia dei suoi già tanti ammiratori e consentirgli quell’edizione filologica dell’opera completa che comunque gli spetta.

Beppe Salvia – I begli occhi del ladro – Il Ponte del Sale – pp. 160 – €13

 
Beppe Salvia: poesie

LETTERA

 

Viene la sera, è vero, silenziosa
piove una luce d’ombra e come
fossero i nostri sensi inevitabili
improvvisi, noi lamentiamo
una più vasta scienza.

Aver di quella il frutto
appariscente, la bella brama,
e l’ombra perfino, di sussurri
e di giochi, come bimbi.

Ma io lo so Serena io non posso,
in questi tempi segnati dal segreto
di cui s’invade
la nostra intimità,
vivere adesso se non con tale affanno
e così lieve.

Di questo amaro stento già si fa più vero
un sentimento pago di letizia, al modo
che alla sera insieme
andando per le strade
chiare, l’ho visto, d’ombra
e di segreto,
noi siamo tra i perduti lumi
esseri più miti di chi
venuto prima di noi
ebbe solo a soffrire

salvi quasi per caso, e in questo prodighi.

I baci sono bellissimi doni.

***

PRIMAVERA

In strada come una greppia gli amori,
l’acero festoso salirlo averne
prova, maldestro rampicarsi e i cori
fanciulli che si dan briga, saperne
l’errore novissimo che speranza
rinnova, ed altro coro è allegra danza
nel cuore mio che ammira, l’amore, tra
questo ardire bello ch’è prossimo
ad ogni età fanciulla e là dentro
fanciullezza del corpo acerba e lieta,

unisono splendente l’arco, corda
d’un suono solo, tende ad origine
e scocca vertigine d’un raggio ov’è
fida malìa accorgere mestizia
splendente

***

ESTATE

Di morte m’ha destato il sordo vanto
quel traversar pallido e stanco
il seno d’un prato bruciato, rosse
le ferme corolle segnano i fossi
come volesser, stralunato manto,
il disegno astrale suggerir, ecco
or nel secco vento la curva stanca
della luna al vanire s’affanna,
bruciano le corolle un fuoco vcchio,
al sole ed alla luna opposti astri
fan specchio, immillano quell’altera
vicenda dei due lumi l’ale affannate
terse d’uno sfex ch’ora s’aggrava,
va, sullo stelo d’uno di quei pesti
fiori del prato che sembrano i sitri
sopiti dell’egro strumento dell’anno.

***

AUTUNNO

La posa d’un abito spento e di quel
bianco vestito accanto della sposa
m’innamora; davanti la chiesetta
fanno festa, fan le fotografie,
fugge un bimbo quelle malinconie,
corre allo staccato e già s’affretta
a tornare spaventato dalla rossa
coda d’un galletto che grida or quel
suo strido molesto; è che s’è fatto
nero un nembo di tempesta, rotola
il lombo, la festa malinconicamente
sotto la fredda quercia un vento
ha spenta; piove, fa scuro,or cola
una lacrima lesta; quell’unica
festa il piovasco ha rubata alla sposa.

***

E non rapida foglia scende ove
è rapita la veglia, fiocco lento
bensì s’appresta al volo, lieve neve,
misterioso duttile bianco manto
che rende chiarità serena come
specchio ove posi l’abile libertà
d’un cavallino nero, e poche bave
di fronde su neri stecchi, novità
belle è quella bella gronda soffice
dove la taccola tace e gli occhi miei
fissano il lume che mescola luce
a quelle piume rapite d’un soffio
di freddo, come il disegno sprezzato
il volessi schizzar d’un sogno doppio
che sdegna luci ombre che riposa
in un pianto nevoso e senza voci.

***

Poesie inedite
La notte è lunga a chi non può dormire
E frutta il sonno di nessuno sotto le ciglia
Se posso pensarti mancina come vieni
E racconti non smetti mai di dirmi –

Non smetti mai di sciogliere le voci
Il bianco sonoro il rosso odoroso
Dell’autunno, la mia vita prima che sia l’alba
La tua bocca inzuccherata di sangue –

Allora non fa davvero così male, rapimento
Dei sensi smagriti, in confidenza al loro rossore
I turbinii dei nomi e dei cognomi

Rapimento puro come un occhio puro
Come il semplice ascolto quando cadono le immagini
Il nodo della rete che accalappia il cacciatore.

***

Io ti invito allo sguardo calmo, quello
Che non esclude albe e crepuscoli ma li contempla
Anche se povero di mezzi, pensa agli acquazzoni
Di primavera che illuminano il verde.
E alle radure che si dilatano le ore
Nelle vasche che il cervello ruba al sonno
E restituisce, in globi trasparenti di veleno –
La morte scalpita a cavallo in questo paese – come da sempre

Io ti ascolto rinascere per la china dei giorni
Giorni e giorni come un alacre contadino ed un
Archeologo paziente, in quanto sei sporgenza e insieme fiume

La nivea contrazione che mi assorbe, i nudi
Ricordi che mi assalgono, la casa che si squarcia, infine
Mi arricciolo in capriola mi addormento e faccio un sogno.

***

Di qui si vede finalmente il cielo
muto ed eterno e poi di luce chiuso
esso è l’intero aere che racchiuso
l’eremo austro del mistero
lo spande a lacrime e luce e luce
ancor piana ancor grande, anche felice
d’ombra inaccessibile, per tutte chiare
cose e qui nell’intimo cuor del glicine,
che verdeggiando su muri, tacito
e odoroso, chiude l’orto conosciuto
e quasi sol col suo nudo profumo
apre all’immensità d’un volto d’uomo
che di lontano da noi sorride, dio
dell’eterno, con occhi pii e ciglia
ridenti, astratto quasi futuro

***

Dilaga la tua fronte bianca e sento
Infrangersi e seguire il crollo
Di una diga i lunghi
Affanni, ed un colore acuto nelle vesti:
La fronte d’alito vento e chiome e fronde
Apparsa in sua natura chiara e tanto
Lindi gli occhi che il mio bene accoglie
E inganna, e la stanchezza di quei tenui drappi,
L’occhio piroscafo – in essa i nidi calici – e
Rimuove aurorali alte tempeste
E aurore boreali che esplodono in guazzi di
Dolore i cervi, e le anguille, il mondo intero
Posati – Rimani ancora assorta – Rimani ancora un’ora
Noi siamo i gusci vuoti e secchi
Rumori che non osiamo ascoltare

Allontana da me questo fuoco.

***

da Cuore
Adesso io ho una nuova casa, bella
anche adesso che non v’ho messo mano
ancora. Tutta grigia e malandata,
con tutte le finestre rotte, i vetri
infranti, il legno fradicio. Ma bella
per il sole che prende ed il terrazzo
ch’è ancora tutto ingombro di ferraglia,
e perché da qui si può vedere quasi
tutta la città. E la sera al tramonto
sembra una battaglia lontana la città.
io amo la mia casa perché è bella
e silenziosa e forte. Sembra d’aver
qui nella casa un’altra casa, d’ombra,
e nella vita un’altra vita, eterna.