Nadia Campana è nata a Cesena nel 1954. Traduttrice di Emily Dickinson, è autrice di poesie e di prose, pubblicate nella raccolta postuma uscita nel 1990, Verso la mente, per le cure di Milo de Angelis e di Giovanni Turci, presso l’editore Crocetti. È morta suicida a Milano nel 1985.
Inizialmente relegata in un ruolo storicamente secondario, per via anche della vicenda biografica e della brevità dell’opera medesima, in realtà incide una voce fondamentale nella poesia italiana degli Ottanta, sintetizzando magnificamente influenze formative potenti, dallo stesso Milo De Angelis alla polisemia e alla piegatura lessicale e alla poetica della violenza di Antonio Porta – entrambi i poeti, forse, costituendone la matrice fondamentale, da cui parte e a cui torna il suo dettato. Nel corso degli anni, e tanto più a un quarantennio preciso dalla sua tragica scomparsa, la scrittura di Nadia Campana è un punto di riferimento imprescindibile per la nostra poesia di fine secolo.

Noi, la lunga pianura immaginaria
ci inghiotte come sacramenti della notte
Sei stato una quantità esatta
nella pioggia che afferra i visi
Ma adesso in ogni angolo della stanza
aspetteremo fuori dall’esplosione
un legno che io, qui,
ho costruito (lasciami fare)
prodigi scelti dal caso, pioppeti da percorrere!
Il tenero è nel mezzo e nell’interno
umiltà di una porta
ascoltando treni, a un passo, come
una febbre nel ricordo esattamente
Guarda il campo
è così calmo, smisurato, stamattina.
***
Guardiamo dalla cima del monte
il filo di calma che è nato
del mio petto tu conti ogni grano
e ogni cuore si prende di colpo
il suo tempo: un amore
è tornato e si è accorto
il suo disco ci copre.
Adesso tu devi guardarmi
per quella collana di sì
nella mia pelle che apre
la piana la strada
e i fondi della notte
i centesimi della sete.
***
New York
assomigliava al mio cuore alternativamente separato
e unito come le labbra tra cui si mischia l’immagine
del vuoto, mia letizia, mia rosa d’inverno, destato
anno che verrà –
trafittura e ragione che perfora la testa ma non lascia
mai al buio. Con i capelli scogliera mobile che non si
possono dividere in due masse divergenti correre, attaccare
il pane con il coltello diritto o di scancio ma senza mangiarlo
e fendere con il frutto nord e sud
tassì nell’alba arancione piangendo
i palazzi uniche dighe alle nubi – e tutti –
tutti voltavano visi da apache perché era il parco
centrale, per cinque minuti attraversa la notte
come cento giorni di viaggio –
o una mano che puntava
una sicurezza e un dubbio insieme appoggiati a un sorriso
tocca la penombra pendio dove sono
e non sono, si china
per cogliere semplicemente per cogliere semplicemente
delle cose e quando si rialza non ha nulla in mano.
Dolce bianco e scuro vino buono come i corvi –
il tempo
è il mio agonizzare quando mi allontano e vado
a raggiungere la siepe di tutti i giorni
dove resta impigliata la maglia si strappa e non
è che brandelli. Si è fermato. Mormorava tra sé alcune
parole che non saprò mai completamente.
Non è amaro, è di ossa e di carne, avorio, corno,
acqua, intelligenza, amore, cuscino.
***
Le gioie del declassato
Che mi lasci guidare prematura
farmi portare impadronita
non reggono al confronto delle braccia
valigie piene di esempi
folate indicano il cappello soltanto
mutandosi in fili spazzati
e semi non custoditi in direzione
barca abbandonata lungo il fiume
guardo il ponte, un vero confine,
strappo le tasche e dal biglietto la sua fede:
si scioglie sulla guancia
la gioia del declassato.
Avendo già avuto a che fare
con la resa, scelgo
le processioni del riposo.
Io e la luna sorgente
in un punto remoto assonnate come cani
compressa da fatiche piagata
spostando di qualche strada i passi, spiccano
una dopo l’altra tenaci uguaglianze di tempo.
***
Si siede apre la sua pelle svela il suo cuore si cosparge di
profumo e riempie la stanza. Così imbevuta di psiche
femminile non aspetta niente nessuno lentamente il
sonno vivo isterico e tenero preciso e leale si impossessa di
lei sottile e tenace. Immaginare è il suo lusso è
uno strumento ora una cassa di risonanza in cui tutti de-
stano i loro echi e trovano i loro accordi. È tenuta assai
per matta perché si chiude troppo in casa parla male di se
stessa ma non devi crederle. questi saluti quell’unico sor-
riso dà il benvenuto va e viene dal panico teme spesso di
precipitare nelle insidie del coraggio tirata ai quattro an-
goli pronta un cavallo senza briglie soddisfatto ai quattro
venti una vela dei minimi soffi di vento. Appena si sveglia
ride, vede le gemme rumorose sostituisce la forza ai con-
tagi tra il lago e il nulla cede passivamente nel silenzio fe-
dele marina imposizione gioca ritrova improvvisamente il
meccanico l’albergo che fabbrica giocondamente l’amore
chissà quale mondo puro nascerà fuori
***
Ho fatto un grande sogno ma non ne ricordo
niente babbo amiamo le teste bruciate
dell’amore ma non la misericordia e
i chiodi come coltelli di gelosia
tra poco cadrà la strada su di te
spergiuro sulla mia infanzia scrivo
lettere, se non mi dai da mangiare
i capelli mi diventeranno come crine
e come un fucile. Notte di lupi
sprangare l’angelo del vento
qui è la piega
dove non sarà nuovo morire
***
Uomo mattutino
mi avvicino alle dita di fresco
che picchiettano il volto rasato
senza toccarti vuoi essere adorato
guardare basti a me, a te lo specchio
cicala foglia non trema
al vento che non voglia questo profumo
come il tuo bambino ti osservo
eroe mattutino e chiaro
quel colore tirrenico porterei
a rovesci da pittore
tra le voci di fuori
dove deliberi ogni giorno ogni ora
perché sbiadiscano i tuoi cari:
troppo bianco troppo nero tutto in te
voglio affondarci ròsa dal tuo sangue
***
perché cresca la luce
perché cresca il buio
perché al chiuso – questo –
crollano umani
rivestono di pori le gocce
d’oscuro chiama la schiuma
accesa tondo rovescia
oscuro più oscuro
annaspandoti, e tu mia mente
***
Doppia giustizia
un cranio bestiale
lo chiudo con un braccio spostando
appena l’asse del corpo –
facendogli credere che era distrazione,
tira verso di sé liberamente
sopra di me lo sferragliare
degli artigli bagnati
devo persino scherzare
rapida con la punta nella schiena
già sospesa ripiego
oscuramente, perché sono tornata?
desideravo dormire. le mie mani
vogliono ordine qui
nel punto della mia sorgente e
la bocca spalancata guerriera
s’interessa a lì sotto, sotto la persona
nemica del pudore sonnambulo.
chiamo a me il tacco
gli occhi la borsa strappo
all’interno le cose esauste
ma in un attimo senza disegno
mira azzeccata secco
doppia giustizia perché
a capo chino i capelli gonfiano
manovre in tutto il corpo
fischia l’esaltazione lecita
per terra fratello
a scampare dalle foto fuggirò
attraverso i muri spinta dalle grida.
***
Il buio come bene
Tutte dolcezze sono alle dita
di rosa l’abito tinge
lungo l’azzurro pieno, come ti chiamavo
a cancellarmi, quaggiù, ti prego.
Per te, io ti, io te sono
che mi contiene nel tremante ricorso
del tuo silenzio vienimi incontro
orizzonte e allarga esso.
Come rami contro il cielo entrai in lui
una specie eletta dal suo cuore
come mondi sognati da miriadi di sogni
sradicati al centro quasi affondando
diciamo.
***
gli uccelli strappano il deserto
per vedere se stessi
scrivono nel cielo
– noi aspettiamo come mali idioti
che avanzano piano
le grida suonano
caricandosi nel cervello
fa giorno, come il cielo tutto rosso
***
dalla tua lingua soffia il vento
e riempi la stanza:
spirito di frutti, questa è
la fioritura del cervello
il mattino un blocco di futuro,
che mi hai dato in mano
come un cavo:
natura non esitare
ogni cosa è ancora fresca
la città emana il suo azzurro
infinito che dorme
dalla tua lingua mi soffi
in bocca il vento
***
Nel centro dell’uragano
la calma semplice, so che è meglio
aspettare, in piedi occhi socchiusi
abbacinati dal sole contemplando
il tramonto come gabbiani reali.
Le portate della domenica
sono frutto di pene, orologio
che rintocca nella pineta.
O feste di mussola, che cosa si
raduna con le serve cadute ubriache
sotto il peso di un mantello
che il mio amato incline
intiepidito al sonno – molto aspettami –
arrotoli le tasche tra gli spiragli ancora
mi tenti con i suoi aromatici mestieri,
domani perseverare, domani l’infinito:
ovunque sia rintracciato
ovunque illuminato di spine.
***
odore di
erbe
io vengo a farmi in te
vuoto fedele
a un tratto nel regno
le cose sono brezza
leggere senza pensiero
***
I gelsomini dell’azzurro
fioriscono per vendetta
sfigurando l’ombra spettrale
che risucchia gridando il giorno, le sue qualità in forme
spaurite e pure sotto il rombo dell’aereo
sotto il meridiano
chissadove in un’ampolla
moltitudine di elitre
si calcolano:
mi pensa la rosa che è chiusa
stretta mi attende tranquilla la tana
che scava rintocchi intorno
alla bocca del pozzo premendo le sponde
nel fosso chissà cosa ritrovo.
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