Nel 1994 mi ritrovai a Roma a lavorare come attaché alla presidenza di Montecitorio, incarico del tutto incongruo per uno che era cresciuto in una periferia tossica a sud di Milano, con gli amici morti per overdose o sieropositivi. Organizzavo eventi culturali e studiavo per il Presidente il who’s who delle commissioni su stragi, terrorismo e P2. Nel giro di un anno mi venne interrotta da un giorno con l’altro la collaborazione con la Camera dei Deputati. Avevo in tasca 1.200 lire, il conto in banca risultava in rosso, ero disperato. Non avevo nemmeno i soldi per tornare in treno a Milano. Allora arrivò letteralmente a salvarmi uno scrittore e grande intellettuale, che intervenne dopo avermi conosciuto a Videosapere, una struttura Rai tanto meritoria da avere prodotto un’enciclopedia multimediale della filosofia. Questo uomo pacato, calmo e taglientissimo, questo umanista prestato alla tv di Stato, questo coltissimo cattolico che osservava al contempo con passione e scetticismo la realtà in cui si trovava a navigare – si chiamava Franco Scaglia ed è morto quasi tre anni fa. Ieri ne parlavo con un mio amico, sono stato preso da commozione. Devo ringraziare molte persone che nella mia miserrima esistenza sono state tanto buone con me, applicandosi a trovarmi da lavorare o a offrirmi opportunità quando ero sconfortato e privo di prospettive, ma tra queste Franco Scaglia non smette di stupirmi, il suo ricordo mi conforta sempre, la sua generosità e il suo rigore mi hanno sempre fatto pensare che con simili persone in ruoli influenti questo Paese sarebbe una landa migliore. Esperto fino a raggiungere vertici di filologia in teatro, opera e teologia, mente curiosissima e dispiegata in qualunque sapere, Franco Scaglia è stato uno scrittore importante negli anni in cui ha pubblicato romanzi e saggi, al punto di vincere il Campiello, nel primo conato di indifferenza da parte di critici e mediatori, che lo ritenevano un autore secondario o troppo mainstream, quando in realtà Scaglia si mangiava a colazione l’interezza del nostro comparto letterario ed editoriale. Era del resto un grande editore egli stesso, guidando la Rai in acque sperimentali assai raffinate, selezionando teste pensanti e facendole lavorare nel servizio pubblico con una rara dirittura etica e una altrettanto rara attenzione alla collettività e alla pedagogia diffusa. Il suo sguardo pulito e profondo metteva a nudo l’egoità dell’interlocutore, che soccorreva con la sua blanda idiolessi che ibridava il genovese al romano. Parlare con lui significava essere visti e ascoltati, sporgersi in una dialettica continua, in cui si ritrovava antagonismo e comprensione, opposizione e sintesi. A me era capitata un’esperienza equivalente solo ai tempi della frequentazione di Antonio Porta e della compagnia fantastica della coperativa Intrapresa di Gianni Sassi. Non a caso Scaglia aveva fondato una rivista leggendaria, “Achab”, tanto quanto quellidell’Intrapresa avevano fondato una rivista leggendaria, “Alfabeta”. Il libro più sorprendente, sconcertante, incendiario, poetico e oltranzista di Franco Scaglia, “Non vestitemi di bianco” (uscì nell’84 per Spirali/Vel), è un lavoro in cui l’avanguardismo storico prende una piega esoterica sconvolgente e a oggi mi pare insuperato nell’avanzare un’ipotesi che compie il postmoderno italiano e si indentra un territorio ulteriore. Sarebbe da leggere e rileggere, Scaglia, e sarebbe anche da prendere il testimone da lui e condurlo tra le genti che desiderano anche oggi fare cultura ad altezza dei tempi – il che, sia chiaro, intendo fare e faccio, con i miei poverissimi mezzi, da sempre: aprire possibilità, lavorare per l’alterità, discutere, condividere i saperi, essere spalancati da un dialogo ininterrotto, tentare di mettersi a disposizione dei giovani e delle brillantezze – servire, finché non si risulta servi inutili. Giunga ovunque sia Franco Scaglia il mio abbraccio, aria nell’aria, sottilissima energia e profondo ringraziamento, testimonianza di cuore e di testa, interezza della mente e puro amore per esserci stato, per essere stato.
Ricordando Giovanni Raboni
Mancano due mesi al decennale della morte di Giovanni Raboni, uno dei massimi artisti e intellettuali nella Milano del secondo Novecento. Mi sono formato al fuoco lento delle sue poesie, del suo antimontalismo, del suo coraggio ben più coraggioso dell’avanguardismo d’antan con cui questa mia città dall’alto dialettizzava, se non altro. Per me, cresciuto nelle lettere, sono Antonio Porta e Giovanni Raboni i poli costitutivi di una formazione vivente, qui dove sono cresciuto. Penso che, se a questi due meravigliosi poeti e uomini di cultura profonda la vita avesse concesso più anni, qui dove vivo avrei vissuto e starei vivendo meglio. Penso anche all’altro polo di formazione, Milo De Angelis: senza Raboni io ci sarei arrivato? La quarta di copertina di “Somiglianze” è a tutt’oggi forse l’atto critico più nitido sulla poesia di De Angelis e la scrisse Raboni, un’immensità in poche righe, compresse ed essudate da un’intelligenza così vibratile e organica… Per non dire dell’incredibile gesto di ritrasformare in un poema unico, a lacerti, come una Stonehange in versi, l’intera propria opera in “A tanto caro sangue”… E dunque, sorridendo alla gentilezza e alla generosità con cui sempre certi maestri segnano l’aria del tempo, ringraziando, ecco una poesia di Raboni da “Le case della Vetra”, per chi desideri affacciarsi alla sua cifra di bellezza, anche qui, ché, come nei “Coniugi Arnolfini”, avvenga in questo luogo che “in una stanza mai tanti Giovanni”….
Città dall’alto
Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz’alberi, come un fiume che volta.
dei signori e dei cani.
Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù, nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino… e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e proseguendo
a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi – una spanna: continua a leggere
come in una mappa – imbocchi in pieno l’asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo
romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.
Spizzichi editoriali dai Novanta e dagli Zero
Stasera passeggiavo con Andrea Gentile per le vie umide e squallide della Neomilano, che altro non è se non Milano più i neon. Si parlava di Dioniso Zagreo e del tragico, di un viaggio nel nulla a Valencia e dell’anemotività del popolo danese, del servizio Enjoy di car sharing e di Advaita. In corso San Gottardo incrociamo l’editore Leonardo Pelo (http://www.noreply.it) e con lui si constata l’orizzonte attuale, si condividono notizie sofferte e aneddoti vivaci e leggeri, si ricorda l’editoria dei Novanta e degli anni Zero manco stessimo parlando dei mercoledì Einaudi, anzi proprio osserviamo che i mercoledì esistono ancora ma l’Einaudi non si sa. Rievochiamo i tempi bellissimi di “Biblioteca in giardino”, la manifestazione che Leonardo organizzava nelle biblio comunali di periferia a Milano: una volta, centinaia di persone in Tibaldi ad ascoltare Valeria Parrella, un’altra io con Sandrone Dazieri al Lorenteggio a parlare di Scerbanenco. Era un tempo orrendo e in qualche modo bello. E’ stato bello parlare così, casualmente, nell’affetto, ricordando cosa facevano in Mondadori Michele Monina ed Edoardo Brugnatelli, o il caro Marco Mondadori e le prime applicazioni del lingubot Eliza. Ecco: se Neomilano fosse un poco più Milano, con – non dico tanto – qualche momento di aggregazione realmente culturale, come c’erano a tutti gli effetti nel 2004, anche uno cresciuto a Intrapresa di Gianni Sassi e MilanoPoesia di Antonio Porta si sentirebbe meglio. Al momento non c’è nulla: nulla. Certo, c’è BookCity, vanno avanti da anni a cercare di farsi affidare la “Casa delle letterature” milanese, ci sono spazi autogestiti. Però qualcosa è subentrato. Uno sente che manca il collante. L’esperienza si fa meno bella e compatta. Il 2.0 esistenziale dei bocconiani che stanno dietro dove abito non mi segna esperienzialmente, con quei mohito 2.0 e quei negroni giusti, mai sbagliati, sempre troppo giusti. A volte mi pare di attraversare questa folla come un ultracorpo e di avvertire il diaccio vuoto in cui si estendono le regioni più remote dell’universo. Non ci vuole ambizione, semplicemente si chiede qualche risorsa, scarsissima, per organizzare, discutere, condividere ed entrare in una propria memorabilità intima in quanto un poco collettiva anche. Ciò non toglie nulla all’atto di scrittura e nemmeno aggiunge alcunché. A ben vedere, nemmeno all’esistenza toglie nulla. Però sarebbe ugualmente bello se ci fossero, le biblioteche fiorite di maggio a Milano.
I vent’anni dall’apparente scomparsa di Antonio Porta
Come già segnalato, è disponibile in tutte le librerie la raccolta di Tutte le poesie (1956-1989) di Antonio Porta, edito da Garzanti nella prestigiosa collana degli Elefanti Poesia [qui la cover].
Tale pubblicazione avviene a vent’anni dalla scomparsa del corpo fisico di Antonio Porta: il 12 aprile del 1989. Non si ingaggiano qui categorie religiose o superstiziose o da ghost story riguardo l’esistenza dell’anima e la sua eventuale persistenza in forma personale o meno. La scomparsa di Antonio Porta è apparente in un banale senso umanistico: egli, che è anche la sua opera, continua a persistere. Venti anni fanno da filtro storico e permettono di superare il pudore che dovrebbe cogliere chiunque nel momento in cui per la testa gli passa l’idea di valutare storicamente il presente in cui vive. L’impressione che ho io, a vent’anni dall’apparente scomparsa di Antonio Porta, è che questo poeta, non solo perché ne sono stato allievo e per il fatto che per me ha costituito una soglia formativa integrale, esprime a tutt’oggi una potenza dinamica che era ed è il cuore stesso del suo “progetto infinito”. Prescindo ovviamente dal numero di studi accademici, di eventi suppostamente ufficiali, coi quali il presente si illude di costruire un canone. Diciotto anni fa, leggendo Porta con le lenti della stilistica o dell’ermeneusi allora in voga, mi dicevo: questa poesia non resta, perché altri poeti sono superiori in termini formali, Porta cerca troppo di comunicare, va piatto. Col cavolo: sbagliavo, come è peraltro lecito sbagliare a vent’anni. Dopo due decenni mi pare palese che la capacità di traforare il tempo, di cui sono capaci tutti i libri di poesia di Porta, sia un dato certo e sconcertante, anzitutto perché poco italiano. La tradizione rientra nella poesia di Porta come il respiro rientra nel fatto di essere vivi – ma chi se ne frega? Se non fosse così, non si darebbe poesia. E’ sconcertante piuttosto l’innovazione e l’intercettazione di nuclei metatemporali che colpisce: sono zone di condensazione di una sostanza che è apertura, e quindi apertura al futuro, capace di incidere sull’immaginario, sulla lingua stessa, sulle strutture e le retoriche – in pratica, sulla vita stessa di chi entri in contatto con la poesia di Porta.
Non mi estendo in commenti, per celebrare il ventennale dell’apparente scomparsa di Antonio Porta. Da anni ho in mente di scrivere un saggio su certe prospettive che mi sembra di vedere nella sua opera e, molto probabilmente, lo scriverò, quel saggio: ma non ora, non qui – come si sa, non è questa la sede. Mi pare più vantaggioso e veritativo invece un gesto di altro genere, in questo momento: cioè fare parlare Porta stesso, o meglio: dargli un amplificatore, poiché i suoi linguaggi infiniti non hanno cessato un attimo di parlare.
La questione non è se Porta parli o meno: parla. La questione è se lo si ascolta o no.
Copiando i versi che seguono, invito all’ascolto – io stesso mi metto in ascolto.
Di cosa?
Di una presenza attiva.
Meditazione sulla natura materiale e radicale di tale presenza attiva.
di un suono ascolto solo suono
mille voci sbarcano
navigano in libertà von l’isola luccicante
agli angoli del reticolo s’incrociano e ridono
stridìo suona così netta la lacerazione
che i piedi cadono da soli dentro l’acqua
e il passaggio è segnato dalle mani tagliate
le raccolgo e le offro a me stesso
baciandomi la punta delle dita in silenzio5.4 – 7.4 – 17.4.1979
[da New York]
e
Cercano di dare un tempo alla morte
poiché non ha dimensioni, è il vero
nostro infinito; così dicono alle ore
10 e 11 minuti ma non è vero
si era visto invece come si preparava
rannicchiandosi nella posizione fetale.
Quando sedeva in macchina accanto
già prendeva quella posizione: l’auto
come il ventre della madre e via fino all’arrivo.Quella volta in attesa di una morte in anticamera
ho sentito dire che negli ultimi tre minuti
la sua vita è precipitata nel senza tempo
nell’ultimo eterno minuto i dolori
raggiungono il loro accume, se ne vanno con l’anima.
Ma è un bene essere privati del tempo,
è un furto che genera abbondanza e dona
una pace non sperabile, raggiunta senza speranza
da un istante all’altro la dimensione è solo spazio
mare bianco increspato nella mente spalancata.26.12.1988
da La posizione fetale
Umano ed ultraumano: Porta e Celan
Sebbene non sia questa la sede per un raffronto tra prospettive di sguardo e di immagine emergenti in Antonio Porta e in Paul Celan, poeti apparentemente molto distanti per lingua e temi e ritmi, mi permetto di commentare brevemente, in maniera volutamente sintetica e orientata, due loro poesie in parallelo: da Week End di Porta (1971/73) il quinto movimento di Lettere; e da Sprachgitter (1959) di Celan, la poesia Nacht.
Ciò che mi importa evidenziare è la compresenza di umano ed extraumano in diverse modalità convergenti tra i due testi. E’ all’immagine e alla parola in quanto forme, in quanto limitazioni “dure” del possibile che, per quanto avverto, si rivolge il canto, in entrambi i casi spezzato, che non è più canto dell'”io” e nemmeno elegia o stilema epico o tragico. Questo è per me il contemporaneo – sempre.
Continua a leggere “Umano ed ultraumano: Porta e Celan”
Antonio Porta: TUTTE LE POESIE
E’ qui acquistabile uno dei testi più importanti degli ultimi anni: Antonio Porta – Tutte le poesie (1956-1989), edito da Garzanti nella collana Elefanti Poesia, a cura di Niva Lorenzini (664 pagine, € 20.00):
Vengono qui raccolte per la prima volta tutte le opere poetiche di Antonio Porta: da quelle degli esordi negli anni Cinquanta, quando si firmava ancora con il nome anagrafico di Leo Paolazzi, fino alla morte, che lo colse all’improvviso il 12 aprile del 1989. Un percorso letterario che aiuta a riscoprire una delle voci più forti e incisive della poesia italiana. “Scrivere poesia, confidava Antonio Porta a Luigi Sasso, curatore nel 1980 di una monografia su di lui per II Castoro, ‘è un fatto quasi inevitabile in certi momenti della mia esistenza in cui agisco con il linguaggio e interagisco con quello che accade non solo a me, ma alla realtà del nostro tempo’. Si può muovere da qui per accostarsi a un’esperienza di scrittura protratta per oltre un quarantennio… Agire con il linguaggio, interagire con ciò che accade: è in sintesi il percorso di ogni poeta. Ma per Porta scrivere poesia significava qualcosa di più vincolante ed estremo di quanto lasciasse intendere quella spoglia dichiarazione: voleva dire stare dentro la radicalità della parola e della lingua, e da lì esplorare il confine tra vita e morte, perimetrare il dentro che reclude il corpo, lo espone alla lacerazione e all’asfissia, e fare spazio all’evento esterno che accade al di là della barriera, nel fuori di una realtà che si manifesta come urto, trauma, deformazione e violenza”. (Niva Lorenzini)
«Non mi sono mai appagato di una forma, ho sempre cercato di provocarne molte»
Antonio Porta: il progetto infinito
Convegno Internazionale
Bologna
Archiginnasio, Sala dello Stabat Mater
Librerie Coop Ambasciatori
14-15 maggio 2009
14 maggio 2009
Archiginnasio, Sala dello Stabat Mater – ore 15.30
Saluti inaugurali
Angelo Guglielmi – Assessore alla Cultura e Rapporti con l’Università – Comune di Bologna
Carla Giovannini – Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia
Niva Lorenzini – Direttore del Dipartimento di Italianistica
Apertura dei lavori
Presiede Niva Lorenzini
Edoardo Sanguineti, Aprire
Fausto Curi, Permanenza della poesia “novissima”? Antonio Porta dopo vent’anni
Stefano Agosti, Porta: come gestire la scena della crudeltà
Lucio Vetri, Nel fare poesia
Cesare Sughi, Antonio vs Leo
Andrea Cortellessa, Il progetto e l’avventura. Porta teorico e critico
Testimonianza di Andrea Zanzotto
14 maggio 2009
Librerie Coop Ambasciatori – ore 21.00
La scelta della voce
Incursioni di voci, coordinate da Claudio Longhi: Alessio Berré, Filippo Milani, Lara Piffari, Filippo Romanelli
Letture di Paolo Bessegato
15 maggio 2009
Archiginnasio, Sala dello Stabat Mater – ore 9.30
Presiede Fausto Curi
Renato Barilli, Il “farsi animale” come chiave d’accesso al mondo di Porta
Milli Graffi, Fino al sentimento prelinguistico
Stefano Colangelo, Aperta parentesi, “io”, chiusa parentesi
Cecilia Bello Minciacchi, “io sceglierò la voce”
Francesco Carbognin, “Rapporti” tra verso e prosa
Jean-Pierre Faye, Antonio Porta e “I rapporti”
Nanni Balestrini, La nascita di “Alfabeta”
Archiginnasio, Sala dello Stabat Mater – ore 15.30
Presiede Lucio Vetri
Martin Rueff, Antonio Porta, traduzione e fare poetico
Anthony Molino, Tradurre Antonio Porta: E se fosse tutto un tradimento?
Alessandro Terreni, Dall’occhio all’orecchio. La testualità oralizzante del secondo Porta
Gian Maria Annovi, Undoing Porta
Alessandro De Francesco, Porta all’esterno e al presente
Jolanda Insana, Un ricordo
Rosemary Ann Liedl
Conclusione dei lavori
Coordinamento scientifico
Stefano Colangelo, Niva Lorenzini
Audiovideo – Antonio Porta: LEI CHE TE LO CHIEDE, OCCHI CONTRO OCCHI
• Correlati: La Porta è ancora aperta: per il ventennale di Antonio Porta
“Quante volte ho provato una sensazione di profondo benessere nel condividere la preziosa formula heideggeriana del linguaggio come ‘casa dell’essere’. Il linguaggio della poesia poteva apparirmi in quei momenti come il più confortevole (non importa se faticoso nella preparazione) dei modi di abitare il linguaggio, dunque l’essere.
A volte mi sono provato a accorciare ancora di più le distanze e mi sono detto: l’essere è il linguaggio. Impraticabile scorciatoia… Ci ha pensato l’esperienza della vita a smentirmi clamorosamente, quando ho visto che l’essere sconvolgeva, furente, esseri umani, uomini o donne, forse più donne che uomini per le ragioni che sappiamo di emerginazione storica, senza che potessero trovare conforto nella parola (sussurri e grida, mugolii e lacrime, contorcimenti… ma non parole…).”
Antonio Porta da “Sentimento e forma, appunti” in Alfabeta n. 57, febbraio 1984, pag. 5
In omaggio ad Antonio Porta, nell’anno del ventennale della sua morte, verranno in questo sito riprodotti interventi, poesie, file audio e video. Quello che segue è mtuato dall’audio custodito sul sito di Lello Voce: Antonio Porta in “Bande sonore. Radio Music e Poesie” legge da L’aria della fine. Courtesy Ed. San Marco dei Giustiniani e Rosemary Liedl Porta. L’elaborazione ulteriore in audio e il video che utilizza materiali da Man Ray e filmati di Rete, è opera del sottoscritto.
La Porta è ancora aperta: per il ventennale di Antonio Porta
di GIUSEPPE GENNA
La sera del 12 aprile 1989, diciannovenne, io ero a una riunione della rivista poetica milanese Schema. Erano altri tempi, rispetto a questi. La poesia contava socialmente, sebbene il declino transitorio (ma drammatico, se visto con lo sguardo di chi fa del presente una verità oggettiva ed eternizzabile) fosse già avvertibile. C’erano riviste, iniziative, incontri. Esisteva MilanoPoesia. Milano pulsava. Giunto a quella riunione di Schema, un amico mi disse con aria frivola e svagata: “Lo sai?, è morto Porta”.
Antonio Porta era il mio appiglio edipico, l’unica persona che in quel momento potevo e in futuro non avrei smesso di chiamare “maestro”. All’annuncio effettuato con frivolezza vagamente morbosa, mi congelai. Avvertii un freddo interiore, un antartide viscerale.
La riunione si spostò a casa di uno dei due direttori di Schema, Franco Manzoni. Un consesso assurdo, in cui parlavano di ciclismo. Io non riuscivo a pronunciare parola. In quel consesso emerse uno dei tanti ignorabili poeti del sottobosco, peraltro più musicista che scrittore, appartenente alla fauna parassitaria che sfrigola la sua esistenza minimale e muschiva nel basso e nell’invisibile, senza che nessuno se ne accorga, nonostante l’unico desiderio del paramecio sia che qualcuno si accorga di esso. Tale ente, dotato di parola disumana, pronunciò una frase che mi si stampò nell’intimo e che innescò il primo conato di una nausea che mi sarei portato addietro per vent’anni, fino all’altro giorno – dicendo esso organismo: “Beh, possiamo dire che la Porta si è chiusa”. Continua a leggere “La Porta è ancora aperta: per il ventennale di Antonio Porta”
MilanoNera: Intervista al Miserabile Scrittore
• Il sito ufficiale
• ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
• Anticipazione sul blog Il Miserabile
• Ipertesto della Scena italiana come inferno
• I booktrailer: 1 – 2 – 3 – 4
• Videomeditazioni: La storia non siamo noi – Storia di fantasmi
• Acquista Italia De Profundis su iBS o su BOL.
Intervista a Giuseppe Genna
Su “Italia De Profundis” e oltre
di SERGIO PAOLI
[da MilanoNera Web Press]
Giuseppe Genna, milanese, classe ’69, scrittore e non solo. Come scrittore i libri che ha pubblicato sono riassunti (spero tutti) qua. Come “non solo”, è stato consulente della Presidenza della Camera dei Deputati, curatore del sito web di Mondadori, tra i fondatori dell’indimenticato portale Clarence, sceneggiatore per RaiTre, autore di teatro (Fabula Orphica, Museo Trascendentale), giurato alla Biennale di Venezia.
Oggi, in Rete, dà vita all’e-zine letterario Centraal Station, cura il sito (sotto la direzione di Valerio Evangelisti) Carmilla, entra nel pool esploso di contributori di Macchianera, il blog più letto del Web italiano, fondato – manco a dirlo – da Gianluca Neri.
Oggi, ci regala anche un nuovo testo, Italia De Profundis (Minimum Fax), di cui parleremo tra pochissimo.
Ciao Giuseppe, grazie per questa intervista-conversazione. Comincio così: “la storia non siamo noi, noi siamo i sogni, che si avverino o meno”. Nessuno si senta offeso, mi verrebbe da dire, tantomeno De Gregori, o Maurizio Seymandi. Ci parli della videomeditazione che hai proposto, disponibile qua?
GG: Si tratta di un corollario a “Italia De Profundis”, una sorta di azione parallela riguardo a uno dei livelli testuali, e cioè quello che concerne la rappresentazione del “noi” e i suoi rapporti con l’”io”. Il tema è ambiguo e, dunque, la modalità di montaggio spinge verso l’ambiguità. Dal rapporto tra finzione (che per me non è inesperienziale) e realtà, al rapporto tra persona e personaggio, il video propone domande. Per questo il suo acme, almeno nelle intenzioni, è la scena fondamentale di “Benny’s Video” di Haneke – una violenza vera, rappresentata e quindi non vera, e però continuamente reale. Questa modalità rimbalza in meditazione su quanto e come rappresentare con la letteratura.
Quella scena di Haneke mi ha ricordato Kubrick. Ma la violenza vera, nel nostro tempo, quale è e come la si può rapresentare in letteratura?
GG: Qui si tratta di un’accezione molto particolare che io conferisco a quella potenza che si dice “violenza”. Perché mi interessa la scena di Haneke? Perché il video, la testimonianza della violenza, è inerte e privo di giudizio. E’ uguale a ciò che Spirit e Opportunity fanno su Marte: noi vediamo Marte come Haneke ci fa vedere quella stanza in cui si consuma un atto psichico indicibile, che è un omicidio chiesto da una suicida, per nichilismo e gioco e disperazione e, quindi, anche fede. Questo sguardo non è umano, anche se noi umani lo percepiamo. La violenza è tutto. Non esistesse la specie umana, lo scontro tra due galassie sarebbe violento senza che nessuno valutasse quella violenza. Sbalza, da ciò, il verso eschileo: “Agire è soffrire”, che si attaglia a qualunque cosa si muova in questo universo, animata o meno, compreso ma anche escluso l’umano. La violenza è uno stato delle cose che il giudizio morale riporta, da un’ambiguità essenziale e naturale, all’interno del cerchio morale. Il giudizio morale stesso, quindi, è un atto di violenza: necessario, spesso – ma deve esserci consapevolezza che è così.
Cosa è la Storia per te, e come entra nel tuo modo di narrare?
GG: E’ uno dei livelli testuali, che sono tutti embricati tra loro, divisibili l’uno dall’altro solo per indebita astrazione – almeno nelle intenzioni, poi altro è l’esito testuale, che può risultare fallimentare. La Storia è la vicenda del fantastico, il rimbalzo sulla domanda inerente la natura di se stessi e del rapporto col mondo. I fantasmi popolano la Storia, la vicenda umana è ambigua in quanto è assoluta finché c’è l’umano, ma non lo è affatto a fronte della certezza che la specie, prima o poi, finirà di esistere storicamente, mentre i suoi sogni no, la sua immaginazione no.
“Ah! come siamo vivi come tutto accade per tutt’altri motivi.” A me viene da pensare che raccontare la storia è una scelta. Ci sono tanti percorsi, tanti bivi e vicoli ciechi. C’è anche chi ce la racconta con sfondo di cieli azzurri e sorrisi finti, e adesso la pubblicità. Con Italia De Profundis tu come ce la racconti?
GG: Trai questo verso da una canzone di Lucio Battisti, con testo di Pasquale Panella, che ho usato in uno dei booktrailer. La domanda che poni è difficile, perché io affronto un conflitto interno, che è quello tra narrazione e racconto della Storia. La narrazione è aperta, disposta a sperimentare, nell’accezione che dò al termine; mentre il racconto è apparentemente concluso, in qualche modo leggibile anche linearmente, teso a piacere, a utilizzare qualunque dialettica che non pratichi il dissolvimento della dialettica stessa. Mi interessa la narrazione, che è fatta per salti, balzi, scarti, improvvise apparizioni di buchi neri, inesplicabilità, noia, stridìo, dolore, gioia esplosiva, sempre accadimenti che accadono per quali motivi? La realtà è viva, si vive – la pubblicità racconta, non narra. La vita vivente e nervosa della cosa che percepiamo e che denominiamo “realtà” è un flusso di storie di storie, indefinite, ramificantisi. Se io blocco un frame di questa realtà e lo rappresento, passo a ciò che io chiamo racconto – sono comunque destinato a fallire, perché la potenza di ciò che diviene mi farà incappare in uno scarto decisivo, prima o poi.
Viene da pensare che è impossibile raccontare il reale, perché qualcosa ti sfugge sempre, e se cerchi di incastonarlo, comunque fallisci.
GG: Prima proviamo a raccontare l’”io” e vediamo se è possibile, se sfugge qualcosa, se si fallisce. Senza “io”, per l’umano, dov’è il reale?
Perché DE PROFUNDIS? Non c’è più niente dopo? Neanche una speranza, una piccola fiammella? La verità, da qualche parte esiste?
GG: E’ un problema di questi giorni. Devo lavorare all’”In Excelsis” e non so come fare. Verranno altri libri, prima. Non è che non c’è speranza, è che proprio mi sembra assurda e culturale la polarità speranza/disperazione – è emotività. Il sogno trascende questa dialettica, spinge la storia verso l’orizzonte sempre in divenire dell’utopia.
I quattro booktrailer del libro IDP mi hanno lasciato un profondo senso di angoscia, e di disperazione. E una tra le tante, infinite possibili domande. Quante volte si può morire?
GG: Continuamente. Dal punto di vista identitario: continuamente. Appena si muore, si nasce, però. Posizione del tutto personale, sia chiaro.
“Povera patria, schiacciata dagli abusi di potere”, dice Battiato. “Quale patria e quali abusi del potere? La patria non esiste e gli abusi del potere sono semplicemente il potere. E la classe dirigente fa la vita reale, la plasma, ce la presenta e dice: -Ecco, voi siete così e noi siamo così. Dunque, accontentatevi”, dice Loriano Macchiavelli, in una conversazione di qualche giorno fa.
GG: Concordo completamente con l’ammiratissimo Loriano. La patria è un’astrazione indebita, un’acculturazione della violenza implicita che l’umano desidera profondamente esplicitare. Sarebbe come dire che un sogno ha dei confini. Verrebbe da ridere. Il problema del potere è più complesso, però. Ogni atto che compio, e quindi anche la scrittura, sottintende che sto esercitando potere. La realizzazione del desiderio sembra abolitre il potere e lo invera. O si fa un lavoro su di sé e quindi non ci si sente estranei al potere, o tutto diventa separabile con atto di violenza.
Cosa è, cosa rappresenta per te l’opera di Pier Paolo Pasolini?
GG: Caino.
Il fratello cattivo? Perché?
GG: Perché mi è fraterno nel darmi alcune chiavi di volta narrative e pensative, ma anche non induce al fenomeno della coscienza da cui emerge il fenomeno “io” – per come leggo il Pasolini della “Divina Mimesis”, ma anche di “Petrolio”, c’è un movimento di contraddizione, di lacerazione, di distruzione dell’”io”, di definizione della morte che non mi appartiene. Del resto, io non sono Pasolini, non sto mica a quel livello letterario. Ma posso sottrarmi, nel momento in cui Pasolini – e non può farne a meno – è l’autorità che invade il futuro attraverso l’atto culturale, anche se la volontà è quella di distruggere l’atto culturale. Qui io rinvengo una sorta di “reazionariato” pasoliniano (che non è l’accusa di nostalgismo che gli si commina spesso) – è che sa cosa fare con l’ambiguità, ha un’idea piuttosto precisa di non risolverla, ma non è così che per me si lavora sull’ambiguità. La domanda deve essere posta dall’ambiguità, mentre in Pasolini io percepisco che Pasolini offre una domanda ambigua: è diverso, è implicitamente omicida sul piano culturale, come ogni padre oppure ogni fratello che non si centri nella posizione coscienziale.
De Cataldo una volta mi ha detto, a proposito del rapporto tra Storia e narrazione, e di Romanzo Criminale, di “un tentativo, non nuovo e non originale (penso a Balzac, Flaubert, Tolstoi, Dickens, sino a Ellroy), di de-costruire la propaganda e ri-costruirla in chiave metaforica. La Storia è una grande miniera di conoscenze: soprattutto, a studiarla bene, ti svela tanti “trucchi” utilissimi ai fini drammaturgici.” Che ne pensi?
GG: Sono assolutamente d’accordo con De Cataldo. La sua operazione è linguisticamente interessante perché lo è politicamente: agisce con la storia raccontata per ridurla a narrazione di storie, spostando ogni metafora, ricostituendola. La sua narrazione allora diventa allegorica, diventa la storia del Potere, cioè una storia universale che non vale più solo per la Roma dai Settanta all’inizio dei Novanta, e il “Vecchio” esonda, non è più nemmeno il “Grande Vecchio” della paranoia narrativa, bensì un concentrato di mitologie intorno a cui il fantastico secreto dall’umano continua ad aggregarsi. De Cataldo, in questa dichiarazione, sta accennando a una tensione shakesperiana che sarebbe cieco non ravvisare.
Vorrei parlare di NIE, e di un tema che mi sta a cuore: i rischi di elitarismo. Su Anobii ne abbiamo discusso con Kai Zen, Sarasso, Dimitri e altri che spiace non citare. Questo rischio, secondo te c’è, se prendiamo la parola “elitaria” non in senso ristretto, ma la riferiamo al milione di persone che segue Saviano, che è lo stesso che legge molti libri, che è lo stesso che guarda Report, che è lo stesso che si preoccupa dell’Ambiente ecc ecc ecc? Insomma i soliti, pallosi comunisti, in fondo (tra i quali, me medesimo). Tristi, uh come sono tristi, e in fondo pochi, no? E gli altri 49 e passa milioni? Esiste ancora una vera cultura pop o ormai è stata soppiantata dalla cultura dell’Isola dei famosi?
GG: “L’isola dei famosi” è letteratura – non comprenderlo significa, credo, non comprendere una componente molto importante del memorandum di Wu Ming 1. Tu hai una situazione shakesperiana, che la tv mutua dalla letteratura. Hai lo Stronzo, la Puttana, la Pettegola, l’Ambiziosa, il Volgare. L’”isola” è allegorica. L’allegoria si declina in una direzione sottoculturale, ma ciò che va fatto è ravvisare il nucleo allegorico e riportarlo al centro della rappresentazione. Rifiutare la sottocultura è assurdo: il pop non è mai né altoculturale né sottoculturale. Il pop esprime nuclei allegorici. Se poi essi non vengono intercettati, non è colpa se non di chi sarebbe preposto a intercettarli ed elaborarli: cioè gli artisti e gli intellettuali, in primis.
Questo porta a pensare ad una responsabilità degli artisti e degli intellettuali, nel sentirsi elitè e nello snobbare molte cose. Sarebbe utile riprendere in mano la lezione di Andy Warhol (ad es. “Credo che sia un artista chiunque sappia fare bene una cosa; cucinare, per esempio.”) o dei movimenti punk?
GG: Il problema dell’arte è per me legato a una retorica specifica e a una possibilità di allusione al trascendimento. Cucinare, no. Cucinare nel tempo mitico è culturale e simbolico, stabilisce rapporti col dio. Ma questo è già uno sguardo da antropologo. Un cuoco è un cuoco, uno scrittore è uno scrittore. Dipende da cosa ci fai col tuo artigianato. Sono cose distantissime, per me. L’affermazione di Warhol nasce da una possibilità che è l’estetica diffusa spettacolarmente: invera l’oggetto della sua critica.
“In Italia si legge poco perchè per generazioni e generazioni, intellettuali e presunti tali, gonfi palloni pieni d’aria marcia, hanno martellato il fatto che la letteratura è educazione, è cultura, è intelletto. E finchè continuiamo a pensare che noi scrittori/lettori/critici siamo elite (elite buona e gentile, per carità, che deve amorevolmente arrivare alle masse, ma sempre elite), non avremo colto il punto.”, dice Francesco Dimitri. Che ne pensi?
GG: E’ ciò che rispondevo sopra. Sono d’accordo fino a un certo punto, tuttavia. Nel senso che manca una domanda previa: perché gli intellettuali si sono comportati in questa maniera in un determinato periodo e in una determinata area geografica? A quale generazione anagrafica ci riferiamo? Che rapporto con l’auctoritas è stato interrotto? Che rapporto d’amore è stato interrotto? Quale magistero affettivo è stato negato?
Come lavori quando scrivi un romanzo?
GG: Dipende dai romanzi. Generalmente studio moltissimo. Non scaletto quasi mai, tranne che in casi eccezionali (in “Hitler” era impossibile fare a meno di una scaletta), però ho in mente dove andare. Finora, una scena o un’immagine trascinano: voglio arrivare là e non so come farlo. Lo faccio, con paura di non riuscire. Scrivo molte ore al giorno, concentro la scrittura in periodi compatti, mentre scrivo continua a studiare, spesso faccio entrare casualità dovute alla cronaca in ciò che sto scrivendo.
Sei uno scrittore molto attento alla multimedialità. Il web 2.0 può essere un’opportunità per l’oggetto”libro”? O sarò solo l’ennesimo canale promozionale che useranno tutti?
GG: Il Web 2.0 per me non esiste: è il Web che dispone di un accesso di banda maggiore rispetto a prima. Il problema del Web è individuare il suo specifico e fare arte con quello. Per quanto riguarda la comunicazione, è già avvenuta la rivoluzione. Se la specie non avrà problemi ben più seri nei prossimi anni (il che io credo), allora vedremo ulteriori rivoluzioni, prima delle quali, per quanto concerne l’editoria, la distribuzione dei libri, il ritorno potente del catalogo, uno stravolgimento verso il basso della prezzatura.
Una curiosità: ti occupi tu direttamente della realizzazione dei tuoi booktrailer?
GG: Sì, certo, in maniera estremamente dilettantesca. Li chiamo “booktrailer” per comodità, ma non lo sono affatto: sono corollari tematici.
Non conoscendoti per niente, mi dai l’impressione di essere, nei confronti di qualunque forma d’arte che apprezzi, una persona bulimica, che divora e si appropria, rielaborandola in modo personalissimo, di ogni cosa interessante che ti capiti a tiro. Sbaglio?
GG: Questo è l’ologramma “Giuseppe Genna”. O, anche, certo temperamento di “Giuseppe Genna”. In realtà c’è un soggetto che scrive in cerca di amore, tentando di dare amore. A volte sperimenta per sperimentarsi e incontrare l’altro. L’ologramma risulta contraddittorio, iperbolico, bulimico appunto – ma è ologramma, cioè fantasma. Io sono una narrazione, vale a dire che “io” è una narrazione.
Forse non sbaglio anche se dico sei un autore che vuole donarsi completamente, quasi appartenere al lettore. Vuoi essere questo?
GG: No. La mia posizione è: non sono l’autore e chi legge non è chi legge. Dunque: chi siamo? Una madre lascia, in tempi nemmeno tanto antichi, il suo neonato alla Ruota degli Abbandonati e poi sparisce per sempre. Ha partorito quel figlio, verrà allevato da altri, camminerà nel mondo. Che c’entra quella madre con la sua vita? Io desidero l’abbraccio con chi legge attraverso il testo, ma in questo senso: coincidiamo in qualche parte in cui non sappiamo più dire né “noi” né “io”? Lì si dà un amore privo di oggetto, che ha una forte ricaduta sui comportamenti concreti, mondani – cioè politici.
Loriano (Macchiavelli) dice: “All’aspirante giovane (e anche vecchio, perché no?) scrittore consiglio di svegliarsi dal sogno. Il mestiere dello scrivere, per come lo vedo io, prevede un contatto con la realtà. Altro che sogno!”. Che ne dici?
GG: Per me la realtà è un sogno apparentemente coerente. Non muta il rapporto fondamentale: soggetto che conosce | conoscenza | oggetto conosciuto. Quindi, non vedo differenze. Comprendo però cosa dice Macchiavelli, e concordo: il sogno della realtà, soprattutto in questo frangente, è molto importante.
Un autore che ami, e un suo libro. E perché. Uno solo, sopra tutti, però.
GG: Don DeLillo e il suo “Body Art”. Entra in ciò che non si sa, e dico che non si sa per ora. Lo fa indistintamente con stile di superficie, lingua profonda, sguardo, struttura. Enuncia letteralmente, è impossibile interpretare. Perturba. Toglie dall’attaccamento psicologico, senza strappare con violenza. Scrive divinamente in maniera del tutto naturale. Cultura, natura, soprannaturale sono messi in cortocircuito senza che si avverta il peso di un’intenzione. E’ la perfetta allegoria vuota. Specifico che ho scelto appositamente un testo contemporaneo. Altrimenti avrei detto “Amerika” di Kafka.
La musica che ascolti?
GG: Elettronica. E Glass e Part. Ora, soprattutto Murcof. Sentieri Selvaggi e il compositore Filippo Del Corno. Ma sono un profano.
Come ti sei avvicinato al mondo della scrittura? Quale è la prima cosa che hai scritto e hai fatto leggere a qualcuno con l’idea di “pubblicare” e cosa ti hanno detto? Quando hai capito che potevi fare lo scrittore in senso professionale?
GG: Non è accaduto così. Fin da piccolo bazzicavo l’ambiente della poesia contemporanea. La pubblicazione è stato un processo senza difficoltà. Scrivere professionalmente è un incubo cui vorrei sottrarmi. La prima cosa scritta e mostrata, ma senza l’idea di pubblicare, è stato un poemetto dato al poeta Antonio Porta, che mi prese e mi istruì. E’ tuttora la figura di riferimento, non edipica, che Valerio Evangelisti ha sostituito a distanza di anni. L’altro riferimento parallelo è per me inesplicabile ma effettivo, molto fraterno – cioè Tommaso Pincio. Il collettivo Wu Ming mi ha insegnato il rapporto, l’abolizione del lavoro in solitaria, l’artigianato di certe componenti fondamentali del narrare.
Hai dei sogni, e quali?
GG: Non ho nessun sogno in particolare: ho tutti i sogni. Soprattutto che regni l’amore, ovunque, continuamente. Non è possibile, l’uomo non si accorge che l’odio è una forma di amore. Io stesso non realizzo questo sogno, perché sono umano, troppo umano, a volte al di sotto dell’umano.
Grazie!
Antonio Porta: “Europa cavalca un toro nero”
di Antonio Porta
[da “I rapporti”]
1.
Attento abitante del pianeta,
guardati! dalle parole dei Grandi
frana di menzogne, lassù
balbettano, insegnano il vuoto.
La privata, unica, voce
metti in salvo: domani sottratta
ti sarà, come a molti, oramai,
e lamento risuona il giuoco dei bicchieri.
2.
Brucia cartucce in piazza, furente
l’auto del partito: sollevata la mano
dalla tasca videro forata.
Tra i giardini sterili si alza,
altissimo angelo, in pochi
l’afferrano e il resto è niente.
3.
In su la pancia del potente
la foresta prospera: chi mai
l’orizzonte oltre l’intrico scorgerà!
Fruscia la sottoveste sul pennone,
buone autorità, viaggiano in pallone,
strade e case osservano dall’alto.,
gli uomini sono utili formiche,
la folla ingarbugliata, buone
autorità, cervello di sapone,
sopra le case giuocando scivolate.
4.
Un incidente, dicono, ogni ora,
una giornata di detriti, crescono
sulla piazza gli aranci del mercante.
Il pneumatico pesantissimo (tale
un giorno l’insetto sfarinò)
orecchie livella occhi voce,
le scarpe penzolano dal ramo,
evapora la gomma nella frenata.
5.
Il treno, il lago, gli annegati,
i fili arruffati. Il ponte nella notte:
di là quella donna. Il viola
nasce dall’unghia e il figlio
adolescente nell’ora prevista dice:
“Usa il tuo sesso, è il comando.”
Dentro la ciminiera, gonfio di sonno
precipita il manovale, spezzata la catena.
6.
Cani azzannano i passanti, uomini
raccomandabili guidano l’assassino,
fuori, presto, scivoli.
Negri annusano il vento.
Ambigua è la sciagura,
le sentinelle, i poliziotti.
I due voltarono le spalle.
Rete, sacco: volati
in basso come pompieri.
Spari, vibra l’asfalto,
alla porta di una casa, il tonfo.
7.
Con le mani la sorella egli
spinge sotto il letto. Un piede
slogato dondola di fuori.
Dalla trama delle calze sale
l’azzurro dell’asfissìa. Guarda,
strofina un fiammifero, incendia
i capelli bagnati d’etere
luminoso. Le tende divampano
crepitando. Li scaglia nel fienile
il cuscino e la bottiglia di benzina.
Gli occhi crepano come uova.
Afferra la doppietta e spara
nella casa della madre. Gli occhi
sono funghi presi a pedate.
Mani affumicate e testa
grattuggiata corre alla polveriera,
inciampa, nel cielo lentamente
s’innalza l’esplosione e i vetri
bruciano infranti di un fuoco
giallo: abitanti immobili,
il capo basso, contano le formiche.
8.
Osserva l’orizzonte della notte,
inghiotte la finestra il gorgo del cortile,
l’esplosione soffiò dal deserto
sui capelli, veloce spinta al terrore:
tutto male in cucina, il gas
si espande, l’acqua scroscia,
la lampada spalanca il vuoto.
Richiude la porta dietro di sé,
e punge gli occhi il vento dell’incendio,
corre sugli asfalti, cosparso d’olio:
saltano i bottoni alla camicia estiva,
la ferita si colora, legume
che una lama rapida incide.
9.
Vide dal suo posto le case
roventi incenerirsi e in fondo alla città
i denti battono sotto le lenzuola
e guizzano i corvi dall’ombelico.
L’A è finestra e oltre
si agita la pianura di stracci.
L’O si apre e si chiama
lago ribollente fango.
“Galoppate a cammello nel deserto!”
Fa acqua l’animale sventrato
dal taxi furibondo: si ricordò
d’avere atteso tanto, la gola
trapassa il sapore dei papaveri:
cala veloce nelle acque dentro
l’auto impennata, volontario
palombaro, con un glù senza ricambio.
10.
Un coro ora sono, ondeggianti
nel prato colmo di sussulti.
“Lo zoccolo del cavallo tradisce,
frana la ragione dei secoli.”
Urla una donna, partorisce,
con un bambino percosso dalle cose.
Con un colpo di uncino mette a nudo
l’escavatrice venose tubature,
e radici cariche di schiuma
nel vento dell’albero antico,
spasimano, gigante abbattuto.
Quattromila metri di terriccio
premono le schiene, e un minatore
in salvo ha mormorato:
“Là è tutto pieno di gas.”
Un attimo prima di scivolare
nella fogna gridò: Sì.