Scandalosamente assente dai cataloghi editoriali italiani, il poeta turco Enís Batur è non soltanto uno dei pesi massimi letterari turchi, ma una voce riconosciuta in tutto il mondo, dove è stato ripetutamente e continuativamente tradotto, nonostante l’ipertrofia della sua produzione, solo saltuariamente altalenante per via della quantità di versificazione e saggistica che Batur ha immesso nel circuito letterario turco e internazionale. L’importante critico e antologista Mehmet Fuat ha collocato Batur tra i poeti più potenti della sua generazione, mentre, tra i suoi colleghi, Melih Cevdet Anday sottolinea nella poesia di Batur “una certa qualità profetica, una sorta di santità”. Nato nel 1952 a Eskişehir, ha frequentato la Middle East Technical University e ha completato i suoi studi a Parigi prima di stabilirsi a Istanbul, dove attualmente vive.

da Serbatoio
Papiro, inchiostro, piuma d’oca.
Dalla mia radice sorge un boato verso la vetta
verso il nucleo di un evo oscuro,
apro dinanzi a me un atlante: di scala infinita,
che copre la terra, i cieli e oltre i cieli,
un atlante per monte e vallata, mare interno, alto mare, mare morto,
un atlante per il mio volto derviscio vagante per monti e valli,
per la mia voce di vate, il mio sguardo di monaco errante.
Flâneur, wanderer, santo vagabondo
immerso in invincibili stupori: dov’è il mio nido,
dov’è il muto monumento di deserto eretto da me
al signore-padrone che ho ucciso, dove sono i bambini
che di notte partorisco senza fine: d’improvviso calo su di me
come un incubo, come fossi un acquazzone
non invocato:
seppure trabocco e faccio traboccare
trascorro dappertutto.
*
Mio sosia, mio simile, mio specchio: crolla
l’era e nel vento, che turbina le pagine
di tutti i calendari verso il vuoto, si frammischiano i giorni e le notti.
Si fermano gli orologi
e non riusciamo più a fissare
sulle facce delle lancette in reciproco contrasto
quel sottile equilibrio.
E una vite non combacia ormai
nel giro che la spana, un verbo
mi si aggira sulla punta della lingua e
un imponente uccello,
veloce, muto e acuto
dispone al volo le ali dentro me,
e dal limitare di un volo senza ritorno,
guarda in lontananza, con pena e certo orgoglio,
l’aritmetica infinita
degli orizzonti che seguono all’orizzonte,
e come saettando da un arco
senza aprire le ali
si allontana dalla gravità,
con l’invisibile forza della sua sorgente invisibile.
*
Ecco, leggo sul mio corpo le impronte
a poco a poco: il tatuaggio irato sulla spalla sinistra
è del secolo in cui erravo su una nave genovese,
mercante ambulante. Più giù, sulla coscia,
l’ombra del pugnale. Le macchie che a volte trascorrono
sul mio viso indecifrabile sono ricordo
di una malaria indiana. I miei occhi?
I miei occhi sono senza luce, sono senza storia:
pietrificati a Pompei dallo sgomento, cavati a Ninive
da una statua di gatto in oro massiccio,
forse caduti da un affresco,
sono due valori vani,
volati via forse con le loro espressioni complesse
da un’icona il cui volto
il tempo in fretta rode.
*
da Fumo
Sopra ateliers squallidi, come sepolcri
carta straccia demoniaca ammucchiata all’infinito,
calderoni giganteschi e trogoli ricolmi
di forchette, a migliaia, e di cucchiai incollati,
sopra gli zaffi di infeconde zanzariere
penetrati nelle camere da letto, immondizie di ospedali,
scheletri gotici appesi a becchi di gabbiani,
sopra mosche e cavallette,
compianti funebri, risate e grida
io volo e volo.
*
È ancora fedele alla scommessa
del suo desiderio d’infinito
l’aquilone che librai anni fa, quel mattino
distaccato, e resistente quando gelsi di cemento
non potevano ancora essere seminati
nell’utero terra? Ha raggiunto l’oasi
che noi sappiamo irraggiungibile
mio fratello
che s’avviò riempiendo una bisaccia
d’un pezzo di pane, d’un poco di ansia, d’innumeri semi di sogno?
Io sono qui e aspetto ancora
l’invito
che porterà un messaggero stanco.
*
Non c’è eco per il vero straniero?
Un nodo in mano che non riesco a sciogliere, non riesco
ad accendere un fuoco a cui volgere il viso
con quello che mi porto addosso e pesa:
papiro, piuma d’oca, inchiostro.
Qualcosa manca, un suffisso, strappato alla punta della lingua,
un solo verbo a doppio senso che si contorce per terra,
un complemento forse complesso: sono anni
che non dormo, metto alla prova i miei sensi
in un lavoro infinito, abbandono i miei organi intimi
a seccare: volo e solo il sangue mi purifico
tra voi: io, barca deserta
che sosta nei moli affollati.
Enís Batur, Imago mundi ; a cura di Iʂil Saatçioğlu ; introduzione di Mario Luzi – Milano : Garzanti, 1994 – Collezione · Poesia · Trad. dal turco di Iʂil Saatçioğlu.
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