di INES BELSKI LAGAZZI | da Osip Emil’evic Mandel’stam, 1991]
Nacque a Varsavia il 15 gennaio 1891 da una famiglia della media borghesia ebraica. Trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Pietroburgo dove compì gli studi in un ottimo istituto. Nel 1907, per studiare francese antico, si recò a Parigi alla Sorbona, tra il ‘10 e l’11 trascorse due semestri all’Università di Heidelberg dove seguì i corsi di filologia germanica. Fu anche in Italia, ma i brevi viaggi gli lasciarono un senso di insoddisfazione.
Quando tornò in patria si iscrisse alla facoltà di filologia di Pietroburgo e strinse amicizia con alcuni poeti: Michail Aleksevic Kuzmin, autore dei Canti alessandrini, con Vladimir Ivanovic Narbuk e soprattutto con Nikolaj Stepanovic Gumilëv, storico orientalista e la di lui moglie, la grande poetessa Anna Achmanova. Insieme fondarono il Movimento acmeista (da akme) per reagire alle oscurità e alle evanescenze del simbolismo e proporre un’arte chiara e intensa che pervenisse al punto culminante dell’espressione poetica.
Mandel’stam definì il movimento “la nostalgia per la cultura mondiale”; i poeti si riunivano alla Corporazione dei poeti o in casa dell’uno o dell’altro: leggevano, discutevano, recitavano versi.
Mandel’stam, poeta e saggista, si occupava – collaborando a giornali e riviste – di storia, arte e letteratura in genere. Secondo lui non esisteva una linea di confine tra storia e cultura perché “la storia passa sempre attraverso una coscienza costruttiva e rielaboratrice dei fatti: il poeta rielabora e ricrea il passato filtrandolo attraverso la sua personale esperienza, e ne fa una pietra del proprio edificio poetico”.
Durante la rivoluzione Mandel’stam viaggiò in Crimea, in Georgia, nell’Ucraina. E fu a Kiev che nel ‘19 incontrò Nadezda, una colta, intelligente, esile, ma energica ragazza ebrea: nel ‘22 la sposò. La Achmanova che detestava tutte le mogli dei colleghi si legò invece di grande affetto con la coetanea Nadezda, con un’amicizia che mantenne salda e generosa fino alla morte.
Nel ‘24, alla morte di Lenin, Stalin prese il potere: al nuovo regime la poesia di Osip non piacque e il poeta fu perentoriamente invitato a non pubblicare più versi, dovette quindi rassegnarsi a vivere di traduzioni e di recensioni. Ma non si può impedire a un poeta di poetare: i versi gli rampollano dentro, urgono, premono, lo fanno soffrire. Comincia così: “All’ orecchio del poeta risuona ossessiva, dapprima informe, poi sempre più definita, ma ancora senza parole, una frase musicale. A volte il poeta cerca di liberarsi di uno di questi ritornelli, scrolla la testa come per far uscire una goccia d’acqua penetrata nell’orecchio durante il bagno, ma niente riesce a farla tacere, né il chiasso, né le chiacchiere della gente nella stessa stanza. A un certo momento, traverso il tessuto della frase musicale, si fanno improvvisamente strada le parole, le labbra del poeta cominciano a muoversi. Forse il lavoro del compositore e quello del poeta hanno qualcosa in comune: la comparsa delle parole segna il momento critico che distingue fra loro queste due forme di creazione”.
E infatti Osip diceva: “prima compongo, poi scrivo”. La fase successiva del lavoro consiste nell’eliminare dai versi le parole superflue che non rientrano in quel complesso armonico ed unitario che esiste già prima della loro nascita. Nella terza ed ultima fase il poeta ascolta tormentosamente se stesso alla ricerca di quella unità oggettiva, e assolutamente esatta, che porta il nome di componimento poetico.
Ora che non gli era più permesso pubblicare versi, Osip trovava più prudente non scriverli, meglio ricordarli a memoria, recitarli in piccoli gruppi di amici. Fluivano a torrenti, aveva spesso contemporaneamente in cantiere diverse poesie.
Nel ‘28 Mandel’stam fu al centro di un qui pro quo che gli costò un’accusa di plagio. Aveva tradotto La leggenda di Till Ulenspiegel di Charles de Coster, conducendola su quella stilata a suo tempo da Gorufel’d e Kariakin, ma per un’ omissione della tipografia non furono citati i nomi dei precedenti traduttori. Per non sentirsi più al centro delle critiche, Osip e Nadezda compirono nel ‘30 un lungo viaggio nel sud della Russia: visitarono la Georgia e l’Armenia. Ne uscì il libro Viaggio in Armenia che fu attaccato aspramente dalla Pravda.
Ebbro di potere, Stalin aveva cominciato le epurazioni, gli arresti, le persecuzioni, le deportazioni. Mandel’stam, che aveva accettato a suo tempo i principi della rivoluzione, disapprovava i metodi staliniani. Nel ‘33 compose una poesia. Non la scrisse, la recitò a pochi amici. Eccola:
Noi viviamo senza avvertire sotto di noi il paese,
i nostri discorsi non si sentono a dieci passi di distanza,
ma dove c’è soltanto una mezza conversazione
ci si ricorda del montanaro del Cremlino.
Le sue grosse dita sono grasse come vermi
e le sue parole sicure come fili a piombo.
Ridono i suoi baffi da scarafaggio,
e brillano i suoi gambali.
Intorno a lui c’è una masnada di ducetti dal collo sottile
e lui si diletta dei servigi dei semiuomini.
Chi fischietta, chi miagola, chi piagnucola
se soltanto lui ciarla o punta il dito.
Come ferri da cavallo egli forgia un ukaz dietro l’altro,
a uno l’appioppa nell’inguine, a uno sulla fronte,
a chi sul sopracciglio, a chi nell’occhio.
Non c’è esecuzione che non sia per lui una cuccagna…
Chi fu il delatore? Inutile indagare. Fatto sta che nella notte tra il 13 e il 14 maggio 1934 due agenti della polizia sovietica si presentarono in casa di Mandel’stam a Mosca, in vicolo Nascokinskij: in due tempi perquisirono la casa, sequestrando grandi quantità di manoscritti.
Osip fu arrestato. Docile, seguì i poliziotti portandosi via soltanto una copia della Divina Commedia. Fu trattenuto per un certo tempo alla Lubianka; ne uscì – provato nel corpo e nello spirito – con una condanna al confino: tre anni a Cerdyn, una remota località. Probabilmente non fu deportato perché Nikolaj Bucharin, redattore del giornale Izvestija e Boris Pasternak perorarono la sua causa presso Stalin. Valse così per il poeta la formula: “isolare, ma conservare in vita”.
Erano tempi in cui chiunque poteva aspettarsi di essere arrestato (per poi scomparire chi al confino, chi in un campo di concentramento o… all’altro mondo). Inutile chiedersi perché. Il famigerato articolo 58 puniva “qualsiasi atto diretto a rovesciare, scalzare, indebolire l’autorità dei Soviet”. Bastava un gesto, una parola – figurarsi poi una poesia! – ed ecco configurato il “reato di controrivoluzionario”.
Nadezda accompagnò Osip a Cerdyn. Il poeta non stava bene, soffriva di allucinazioni, udiva strane voci inesistenti. Una notte si lasciò scivolare dalla finestra del secondo piano del vecchio ospedale zarista dove era stato ricoverato. Un tentativo di fuga? o di suicidio?
Cadde fortunatamente sulla terra smossa di un’aiuola e si slogò una spalla. Anche un omero aveva subito una frattura, ma i medici se ne accorsero quando Osip era già stato trasferito a Voronez. Qui, in un paesaggio meno tetro, i coniugi trovarono un alloggetto e poterono eseguire delle traduzioni e lavorare nel teatro sociale; Osip scriveva le introduzioni alle rappresentazioni musicali.
Fu, in un certo senso, una tregua, anche se d’inverno Voronez era tutt’un campo gelato, insidiosissimo. Osip aveva nostalgia di Mosca, ma la città faceva parte delle dodici grandi città precluse ai confinati e dalle quali dovevano restare lontani almeno cento chilometri (sì che i confinati venivano anche chiamati “centochilometristi”): potevano muoversi soltanto nell’ambito della regione.
Osip respirava male, aveva attacchi di angina pectoris. Poesie ne componeva, tanto che nacquero I quaderni di Voronez, un lavoro duro che gli costava un’immensa tensione nervosa e una grande concentrazione; ma non poteva, né voleva, sottrarsi alla voce interiore che risuonava in lui con enorme potenza.
I tre anni di confino ebbero termine verso la metà di maggio del ‘37; Osip poteva dunque considerarsi libero. Con immenso sollievo i Mandel’stam partirono per Mosca, ritrovarono la loro casa, la calda, comprensiva amicizia di Anna Achmanova (suo marito Nikolaj Gumilëv era stato fucilato nel ‘21, e suo figlio Lev era in prigione dal ‘35).
Gli amici ripresero a incontrarsi, a leggere i poeti, e tra questi Dante, Ariosto, Tasso, Petrarca e naturalmente i russi e i francesi. Leggendo, riuscivano a cancellare tempo e spazio. Osip e Anna si indicavano a vicenda i punti prediletti: in un certo senso si facevano reciproco dono delle loro scoperte.
Un giorno i Mandel’stam vennero informati che dopo il sudimost (l’avere avuto cioè precedenti politici) non era più concesso loro di soggiornare a Mosca, una delle dodici città proibite.
Si trasferirono quindi a Savelovo, un piccolo villaggio di solide case di legno, sull’altra riva del Volga, vicino alla ferrovia, per potersi concedere veloci andate e ritorno in giornata a Mosca (proibito pernottarvi) e trovare un po’ di denaro in prestito. Ridotti com’erano, senza lavoro (nessuno ne dava ai confinati) erano costretti a vivere pressoché di elemosine. Più tardi traslocarono a Kalinin, e arrivò la fine dell’inverno ‘37-’38.
Improvvisamente un giorno ricevettero un foglio di via, con retta pagata, per un soggiorno in una casa di cura di Samaticha. Ebbero un soprassalto di gioia: forse l’Unione degli Scrittori si ricordava finalmente di loro!
Era marzo, faceva molto freddo e la neve era alta quando arrivarono alla stazione di Carusti, ma qui trovarono ad attenderli una grande slitta coperta di pelli di pecora. Furono trattati con riguardo, ebbero una stanza tutta per loro.
Osip, che aveva sempre il suo piccolo Dante con sé, fece amicizia con una signorina molto gentile: le recitò perfino dei versi. Ma ad un tratto la damigella scomparve: era un’emissaria della polizia? Osip era caduto in una trappola? Fatto sta che il 1° maggio fu di nuovo arrestato e condotto via.
Osip e Nadezda si erano incontrati il 1° maggio 1919, si separavano per sempre il 1° maggio ‘38 senza che nemmeno fosse permesso loro di salutarsi. Nadezda poté mandargli per qualche tempo un po’ di denaro, lo consegnava allo sportello di una prigione, poi venne a sapere che il marito era stato trasferito nel carcere di Butyrki, un centro di smistamento per i campi di lavoro, seppe infine che Osip, senza aver avuto un regolare processo, avrebbe dovuto trascorrere cinque anni in un lager.
Quando ricevette da Osip una lettera – l’unica! – e seppe che si trovava a Vtiraja Recka, un lager di transito presso Vladivostok, gli spedì un pacco, ma le fu rimandato per “morte del destinatario”.
Nel giugno ‘40 il fratello di Osip, Aleksandr Emil’evic, ricevette un certificato attestante la morte di Osip Mandel’stam avvenuta il 27 dicembre 1938 per paralisi cardiaca.
Nadezda ricevette un indennizzo di cinquemila rubli che distribuì agli amici che li avevano aiutati durante la triste odissea e visse, dapprima lavorando in una fabbrica, poi dando lezioni, insegnando filosofia, traducendo opere straniere e soprattutto dedicandosi alla raccolta delle opere disperse di Osip.
Nel ’56 l’Unione degli Scrittori promosse un processo di revisione e qualche poesia di Mandel’stam vide la luce su una rivista. Nel ’64 – Nadezda aveva 65 anni – ottenne l’autorizzazione a risiedere a Mosca: dedicò allora alla vicenda umana e letteraria del marito due documentatissime opere L‘epoca e i lupi e Memorie. Morì nel 1980.
Difficile stabilire una precisa bibliografia dell’opera di Mandel’stam: molte opere sono sicuramente andate disperse, o distrutte da chi aveva avuto il pericoloso incarico di nasconderle. Ricordiamo tuttavia: Pietra, in seguito intitolata Tristia, un’opera composta di gran numero di manoscritti portati all’estero all’insaputa dell’autore stesso; Il secondo libro, deformato dalla censura, è il libro della guerra, del presentimento e delle realizzazioni della rivoluzione; I quaderni dei versi nuovi (col ciclo del Lupo), il libro del distacco consapevole da una certa realtà; Viaggio in Armenia e Ottave (coi cicli del Cardellino e l’Ode); vari libretti per bambini; I tre quaderni di Voronez, i libri della deportazione e della fine. Nelle sue opere Nadezda ricorda Il discorso su Dante, La quarta prosa, alcune poesie sull’Ariosto.
Le pietre parlanti di Voronez
di ELIO GRASSO |da Poesia, n°81, febbraio 1995
Già in una poesia datata 1911, scritta a vent’anni, Osip Mandel’stam imposta una curva verso la notte, seguendo le tracce apparse fra le pietre del suo cammino (la prima raccolta ha per titolo, appunto, Kamen’, “Pietra”). La necessità di far apparire un raggio di luce nella polvere, nel turbinio esistente alle spalle del mare – sia esso il Mediterraneo o il Mar Nero – e di scoprire in quel vento le origini della poesia, la vita furiosa degli uomini e degli dei, diviene per lui un atto di resistenza di cui non può e mai potrà fare a meno. La necessità dell’opera d’arte di definire la logica di un’esistenza sta davanti a molte altre cose che, apparentemente, sembrano di maggior peso, e di queste occorre liberarsi subito: da qui l’impulso giovanile ma determinato di spingersi verso una consistenza diversa dal giorno, diversa da ciò che gli occhi vedono immersi nella luce, e d’interrogarsi subito sui suoi rapporti con essa. Egli si rende conto della fragilità di questi rapporti, della consunzione che avviene ogni qualvolta una lingua si confronta con la natura delle cose, andando a sbattere contro il tempo. Lo stesso Brodskji ci ha detto che il tempo, essendo già tutto dentro la poesia, avvolge l’intera prima opera di Mandel’stam, che anzi mai egli provò a tenerlo, ad amarlo per un attimo di bellezza o d’ispirazione. Se il tempo è artefice di un’esistenza che ci travolge, non si potrà far altro che venire travolti. Tenere gli occhi bene aperti e la mente sgombra è un’impresa, ma è anche quanto un poeta deve disporre con il mondo, nel corso dei suoi anni di vita.
Il moto apparentemente disordinato delle stelle e la visione di fanciulle “notturne” sono per Mandel’stam ciò che il tempo attua, rendendo sovrassaturo il presente, e ormai imprendibile tutto il resto, passato e futuro. “Sento segnali dalla fortezza”, segni che intaccano fortemente la predisposizione per le parole, e, prima di questa, lo stesso approccio vitale. La città – Pietroburgo – ancora non nasconde del tutto il cielo, la città contiene le donne con i loro movimenti armonici: sopra ogni cosa, nello spazio, le stelle. La voce dà significato, dà la forza fisica che permette, quasi inconsapevolmente, di creare e di resistere.
Se oggi possiamo leggere Mandel’stam che si affaccia dalla Nevskij Prospekt come un cantore della modernità – lui fervido classicista -, come chi ha “imparato la scienza degli addii” ancora prima che le polveri roventi si fossero posate, è proprio perché, già nei suoi primi scritti, leggerezza e pesantezza si fondano nel quasi unico modo possibile di rendere lo spirito del secolo e della sua fine. E’ come se la gran quantità di cose viste, assorbite – da esse attraversato -, gli avessero presentato davanti agli occhi la visione di una terra divenuta posto definitivo, definitivamente congelata dal potere distruttivo delle razze. Il disordine di Pietroburgo è il caos di New York, qualcosa che prima non esisteva e che poi ha decretato guerra alla bellezza classica, alle origini. Il ritorno ad una cupola protettiva, alle fonti elleniche della civiltà, pur attuato da Mandel’stam e da altri spiriti liberi dell’Est, non è altro che il tentativo – destinato a fallire – di darsi una salvezza, o almeno di procurarsi fiato. Esistenza psichica e fisicità non vanno mai d’accordo: il compromesso a cui giunge un uomo che ha creato un mondo separato e quasi a tutti estraneo, è in qualche modo anche la sua condanna. Ancora Brodskji scrive che la sorte di Mandel’stam non sarebbe stata diversa se la Russia avesse avuto un differente modello politico e quindi storico. Questo appare tanto più vero se pensiamo un attimo agli eventi accaduti dopo la sua morte, avvenuta in un lager nel 1938.
Egli riconosce, già in alcuni scritti pubblicati a partire dal 1921, come la poesia del suo tempo avesse ancora bisogno dei classici storici, e come nelle altre lingue dovesse ancora nascere un poeta come Catullo. L’ansia di riassumere in un verso, in una strofa, il mondo che lo circondava, traendone complessità e strutture, lo porta a credere che qualcosa debba ancora avvenire, anche nella ripetizione di forme antiche. Essere convinti che Baudelaire sia un grande esempio di disperazione cristiana indica quanto Mandel’stam abbia creduto quasi eccessivamente alla parola che vaga libera intorno alle torri della modernità. Bisogna dire, però, che è proprio in questi paraggi che avviene quello strano fenomeno da lui chiamato glossolalia, attraverso il quale i poeti parlano le lingue di tutti i tempi, di tutto il mondo, seguendo un’infinita possibilità. Un’ingenuità che ha contribuito alla caduta delle idee? Forse, così come è probabile che dall’inizio del secolo mai come oggi la gente non sappia che farsene dei poeti. Tutto ha cominciato a formarsi allora – il nostro secolo non ha forse fatto scaturire una Terra desolata?
C’è una fuga e un ritorno in tutta l’opera di Mandel’stam, al cui interno si consumano le forze lasciate agire nelle parole, prima ancora che nei concetti, nelle aspirazioni a cui è legato il poeta. Prima dell’interlocutore, si meraviglia chi si è portato fra le braccia di una terra ricolma fino al sacrificio di parole. Le stelle in alto scendono come mai prima, fino a rendere – contrariamente alle aspettative – ancora più scura l’acqua della botte, l’acqua sparsa sui campi e l’acqua che scende dai rubinetti di Pietroburgo. Proprio il veto posto sulle poesie, fin dal 1923, esalta il corpo estraneo che si aggira per le terre russe, il cui pensiero prende una forma sicura in saggi come Sulla poesia del 1928 e Discorso su Dante (datato intorno agli anni Trenta). Incroci del processo poetico e della vita che vanno incontro a un maestro come Dante per tornare ancora una volta alle sonorità antiche della propria terra, della casa. Casa che gli sarà negata al ritorno dal viaggio in Armenia, costretto a restituirsi alla “Mosca buddhista” (“Ma prima ho avuto il tempo di vedere il monte Ararat…”), come un esiliato, come una persona scomoda di cui si aspetta la morte.
La poesia di Mandel’stam procede per accumulo, quasi inconsapevole, di punti tematici, di passi che non possono fare altro che andare contro gli aspetti vitali, se non politici, dell’attualità russa di quel tempo. Le sue valutazioni si tengono dentro la rivoluzione, proprio per questo verranno fermate fin sul nascere. Il suo cantare, da errante cosciente, rende le cose e il paesaggio, forse le genti, al loro nucleo originario, andando perciò contro la legge, pensando perciò da vero ebreo pastore, contro l’immobilità del potere. Dobbiamo alle memorie di Nadezda la conoscenza della luce e del buio presenti nell’opera di Mandel’stam, mettendo allo scoperto i lati riposti della biografia di un uomo, quanto ne dispiega le forze e quanto può abbatterlo. Il colore degli steli d’erba sulle strade di Pietroburgo sono tanto importanti quanto la memoria che egli conserva negli scritti, lasciando che tutto si trasformi, nel tempo, in qualcosa di operoso, in qualcosa di irrinunciabile. Erano “del suo mondo” il fruscio dell’erba e la confusione delle strade, il desiderio di poeti non superati dalla ripetizione e una verità che fosse comune. Di una sovrapposizione di strati, di un rafforzamento progressivo dovuto ai grandi poeti fin lì meritati, si fa carico Mandel’stam fino alla morte, festeggiando, con suoni e parole, quasi in ogni nuova composizione, l’onore che queste figure gli assicuravano.
Il pensiero di Mandel’stam procede nel tempo, scavalca la grande sosta dei cinque anni di silenzio poetico, con il viaggio in Armenia e l’avventura verso il proprio Mediterraneo mentale, culla di vita che include come ultimo avamposto anche la Crimea e il Caucaso. La poesia ritorna e con essa il moto accelerato di uno sguardo che non si accontenta d’indagare ma tenta di scoprire nuove forme di linguaggio, nuove forme che trascorrano bene la loro presenza, dall’istante in cui è avvenuta la loro creazione. L’inatteso di cui già scriveva nel 1913 è la stessa aria della poesia, l’insistenza del pensiero verso ciò che si conosce per scoprire al suo interno quanto non si conosce. Egli va verso l’essenza così come è capace di rileggere Puskin, Baudelaire, Ovidio, credendo sinceramente che l’uomo abbia perduto per sempre la propria casa. Nel suo secolo, che è il nostro, sono nati i “disegnatori del deserto, i geometri delle sabbie mobili”. Con il Discorso su Dante, Mandel’stam ci mostra la vera civiltà della poesia che crea incroci, portandoci a bivi che non sono soste forzate ma rilanci miracolosi dell’attività umana. Una veglia, uno scuotimento che scaturisce dalla poesia, così come la stessa diviene il tessuto palpitante dei Quaderni di Voronez, pagine sempre in sospeso fra il risveglio e la perdita, pagine scritte con l’animo perfettamente cosciente della fine che sarebbe avvenuta nei decenni successivi: partendo da quel fatidico anteguerra per giungere all’altrettanto fatidico finale di secolo che oggi appartiene soltanto a noi.