Il romanzo oltre la Storia

di GIUSEPPE GENNA | da La Lettura, inserto culturale del Corriere della Sera (22.1.2012)

In un tomo consistente alle pagine iniziali leggo l’avvertenza: “La mia inchiesta si basa su voci degne di fede e informazioni riservate. Un’enorme mole di documenti ne fornisce le prove. Per scrivere questo libro sono stati saccheggiati archivi pubblici e diari privati”. Potrebbe essere un testo di di Carlo Ginzburg – grandi storici sottoscriverebbero così i propri metodi. Questo “libro” dunque non pare un romanzo. Eppure, continuando a leggere: “Verità sacrosanta e contenuto scandaloso: è questa combinazione a rendere tutto elettrizzante. Vi racconterò tutto”. La certezza che sia una scrittura storica crolla. Quell’elettricità che si promette, quel giuramento di raccontare tutto: sono trucchi da baraccone che chiunque conosce e ama. E’ l’essenza del romanzo. Certamente un romanzo storico: si tratta di uno degli incipit de Il sangue è randagio di James Ellroy (Mondadori, 2009), terza e conclusiva parte di una trilogia dedicata alla controstoria americana dall’omicidio Kennedy al Watergate.
Ellroy è il maestro del “genere nero” (noir, giallo, crime fiction, thriller che sia). In Italia ha fatto breccia. Debiti stilistici nei confronti di Ellroy si ritrovano ovunque nel romanzo di genere, da Romanzo criminale di De Cataldo a Q di Luther Blissett, da Testimone involontario di Gianrico Carofiglio a Carlo Lucarelli. Non si può prescindere da Ellroy quando si entra nel dominio del genere nero italiano. Ora sembra che tutti gli autori di noir si siano fatti autori storici (così denuncia, sulle pagine di questo inserto, il critico Daniele Giglioli).
Il thriller seriale non incanta più, le classifiche languono per autori come Grisham o Cornwell, maestri riconosciuti della suspence di massa. Perfino quelli che Aldo Grasso indica come i continuatori extraletterari dei romanzi seriali, cioè i serial tv, stanno mutando temi e stili, espellendo l’elemento nero a favore di saghe fantasy, storie fitte di zombie e vampiri. Tra poco passeranno alla fiaba direttamente: Biancaneve sarà un seriale televisivo.
E’ proprio finito il genere nero oppure è stato sbagliato giudicarlo tale? Siamo forse di fronte a una trasformazione ben più profonda, quella dell’intero genere romanzesco?
Uno dei romanzi più belli che ho recentemente letto è 22/11/63 di Stephen King (non a caso nella traduzione di Wu Ming 1), un’ucronia in cui il protagonista torna indietro nel tempo e ha la possibilità di mutare la storia, forse di evitare l’omicidio di JFK. Precisamente da dove parte Ellroy per “elettrizzare” e “raccontare tutto”. Si stabilisce una linea di continuità tra il fantasy horror di King e il crime novel di Ellroy, almeno quanto si stabilisce una continuità tra i romanzi storici di Camilleri e la sua serie con Montalbano protagonista. Tra genere storico e nero c’è una tale indissolubilità, che se ne occupò perfino Adorno:

“La società si è preparata da secoli all’avvento di Victor Mature, la cui opera di dissoluzione è, insieme, opera di compimento”.

Evidentemente Victor Mature incarna l’onnipotenza mitica del protagonista di leggendari noir e di film storici e addirittura biblici. Gli autori di genere in Italia sono sempre stati essenzialmente scrittori di romanzi storici. Non solo. C’è chi, come Alessandro Bertante sulle pagine de L’Unità (6/1/12), occupandosi della saga fantasy di George Martin (per settimane in testa alle classifiche e ispiratrice dello strepitoso serial tv Games of thrones), legava con buon diritto il genere fantastico a quello storico:

“La saga fantasy inventata dallo scrittore americano ci ricorda il nostro presente, la devastazione del suo mondo immaginifico delle ‘Terre Occidentali’ riflette lo smarrimento della contemporaneità, la crisi identitaria dell’Occidente che da molti anni non ha più una tradizione mitica e fondante, e che allo stesso tempo è incapace d’immaginare un futuro di progresso. L’empatia con le proprie miserie, ridiventa il naturale palliativo di ogni epoca di decadenza”.

E’ attraverso l’empatia che Bertante coglie, in Martin, il tentativo di rappresentare la crisi di un tempo. C’è soltanto da stabilire se questo tempo sia decadenza o meno. Certo è un’era di trasformazione, e non soltanto perché si può leggere una cattiva traduzione di Kafka su iPad (si vuole qui sottolineare il mancato impegno del comparto editoriale ad aggiornare e migliorare le attuali edizioni in commercio dell’opera kafkiana, in base a ragioni che Victor Mature giustificherebbe benissimo di fronte alla società che si è preparata ad accoglierlo).
La trasformazione in corso, per quanto concerne la letteratura, può incarnarsi in un certo tipo di romanzo, nuovo e strano, che rappresenta e supera quella che sociologicamente è detta “realtà” (“crisi” compresa). E’ un romanzo difficile, in cui si dice:

“La vita è una cosa troppo contemporanea. Pensò a quando fare pronostici era puro potere, quando aveva promosso un titolo tecnologico o benedetto un intero settore causando automaticamente il raddoppio dei corsi azionari e un mutamento nelle visioni del mondo, quando stava realmente facendo la storia, prima che la storia diventasse monotona, lasciando il posto alla ricerca di qualcosa di più puro, di tecniche per creare diagrammi che predicessero il movimento del denaro stesso. Lì trovava bellezza e precisione, ritmi nascosti nella fluttuazione di una certa moneta”.

Il colpevole di queste parole, che non si sa più se siano di genere storico o profetico, è Don DeLillo, che le scrive in un romanzo scarno e tremendo, Cosmopolis (Einaudi, 2003). La storia, che dovrebbe “rappresentare” la Storia, è questa: un miliardario che investe in future e divise monetarie, in una limousine iperattrezzata, attraversa New York per andare dal suo parrucchiere. Parrebbe poco interessante, eppure Cronenberg ne sta facendo un film. Certo, rispetto a Michelangelo, ciò che fa DeLillo sembra Rothko o un’installazione di Kiefer. Peraltro si può dire che DeLillo è uno di quegli autori che, passato dal genere storico criminale (Libra), ha poi esaurito il suo debito con la storia contemporanea Usa, pubblicando Underworld. Insieme a lui, certo Philip Roth, certo Michel Houellebecq, certo David Peace, certo Bret Ellis stanno sforzandosi di camminare in una terra di nessuno, compiendo quanto sconfortava Pasolini:

“Non riesco a mescolare la prosa con la poesia e non riesco a dimenticarmi mai che ho dei doveri linguistici”.

Comprenderemo la forma della nuova veste del genere romanzesco (un genere che ha cambiato continuamente forme dal Seicento a oggi) quando capiremo se in Italia esistono ancora o meno “doveri linguistici” e se ci saranno scrittori che avvertiranno l’esigenza di adempiere a questi compiti, cher oggi non sono certo di massa e peraltro vengono ignorati da seriali tv tanto quanto dal “pubblico” delle classifiche o dagli adepti delle nuove piattaforme.

[AVVERTENZA: le tematiche trattate nell’articolo sono rastremate giocoforza, in considerazione dellla sede di pubblicazione, che implica un’estensione precisa. La materia, a mio stretto avviso, meriterebbe l’espansione di certi nessi e la giustificazione teoretice e fenomenologica di alcuni passaggi e del finale stesso. Bisognerebbe, cioè, passare da un consistente articolo a un piccolo saggio, il che non è detto che non avverrà. gg]

Corriere della Sera: Stefano Montefiori su Italia De Profundis

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxIl sito ufficiale
ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
Rassegna stampa e materiali
Anticipazione sul blog Il Miserabile
Ipertesto della Scena italiana come inferno
I booktrailer: 1234
Videomeditazioni: La storia non siamo noiStoria di fantasmi
Acquista Italia De Profundis su iBS o su BOL.

Esplorazioni – Il nuovo romanzo è un precipizio in una decadenza condivisa: personalle e collettiva
Genna: bestiario d’Italia, me compreso
Dalla morte del padre a “Un posto al sole”: ritratto doloroso ed esilarante
di STEFANO MONTEFIORI
[da Corriere della Sera – versione cartacea, 23.12.08, pag 45]
frecciabr.gif La versione jpg dell’articolo su IDP [435k]
In questo romanzo l’Italia è centrale, e l’uomo Giuseppe Genna lo è ugualmente. I racconti delle decadenze di entrambi sono – in modo più spesso doloroso, talvolta esilarante – necessari l’uno all’altro, compenetrati e inscindibili. Già dalla riuscita, violenta copertina di Riccardo Falcinelli, l’urlo dell’Italia moribonda, spacciata, supera l’ormai consueto fastidio per i pantaloni a vita bassa, o per i gusti musicali dozzinali. Italia De Profundis va oltre (…).
La miseria sessuale e sentimentale di Genna, e dell’Italia, ricorda nei momenti più cupi lo Houellebecq di Estensione del dominio della lotta, ma verso la fine del romanzo induce al riso, prima della tragedia conclusiva (…) [CONTINUA]
[Nota di Giuseppe Genna: quando ieri ho spalancato il Corriere della Sera, sono allibito davanti alla mezza paginata, all’illustrazione e alla foto dedicate a IDP. Desidero ringraziare moltissimo il responsabile delle pagine culturali del Corriere e l’estensore dell’articolo su Italia De Profundis: mezza pagina su un libro di questo tipo e una recensione tanto bella davvero non me le aspettavo. Grazie! gg]

Il romanzo Hitler per la terza volta sul “Corriere”: su Primo Levi nel romanzo

hitlercovermedia.jpgTra tutte le critiche formulate intorno all’esito, alle intenzioni autoriali e alle meditazioni che fanno il romanzo Hitler, l’osservazione di Paolo Fallai, sul Corriere della Sera di sabato 16, è la più profonda e decisiva. E’ una critica penetrante, che scuote davvero le fondamenta e l’architettura del romanzo. A questa osservazione vorrei rispondere, perché la questione messa in gioco da Fallai è talmente decisiva da un punto di vista etico che, davvero, mi pare irrinunciabile l’assunzione di responsabilità da parte mia e l’espressione delle ragioni per cui non sono d’accordo con quanto Fallai vede e rileva. Tuttavia mi sia consentito questo giudizio: quando la critica è così radicale e penetrante l’oggetto, la “cosa” del romanzo, allora a qualche esito si è giunti e, nel caso l’autore abbia errato, è felice di ammetterlo, perché il critico gli è stato di aiuto ed è stato d’aiuto alla “cosa” stessa del libro.
Mi sia dunque permesso di ringrazia Paolo Fallai e Antonio Troiano, quest’ultimo responsabile delle pagine culturali del
Corriere, per l’attenzione rinnovata al “discorso” del romanzo Hitler.
La critica di Paolo Fallai sul Corriere della Sera

Genna e l’uso di Primo Levi per raccontare Hitler

di PAOLO FALLAI
C’è un assunto agghiacciante posto a premessa, apparentemente incontestabile, del romanzo dedicato da Giuseppe Genna a Hitler. «Considerate se questo è un uomo»: l’autore pone le parole di Primo Levi in epigrafe, insieme alle citazioni di Emil Fackenheim, Claude Lanzmann e Ron Rosenmbaum. Poi la frase torna nell’incipit stesso del romanzo, appena introdotta da un perentorio «Confrontatevi con lui. Considerate se questo è un uomo». È difficile contestare la domanda essenziale che continuiamo a porci di fronte al male assoluto.
Che uomo è Hitler? A quale umanità appartiene? È il tema della ricerca che Genna svolge, con il suo stile, scegliendo la forma di romanzo biografico al punto da superare l’uomo Hitler per concentrarsi sull’idea Hitler, «una non-persona, un punto di vuoto» come ha scritto Franco Cordelli. Ma quelle parole di Primo Levi non indicavano un’idea: hanno rappresentato carne, sangue e sgomento delle vittime. Sono forse, insieme a quelle di Robert Antelme, lo sforzo più compiuto per dare a noi la misura concreta dell’indicibile.
È possibile accostare quelle parole al carnefice? E siccome non di Hitler ci preoccupiamo ma della fertilità del male, se e quanto rischia di essere fuorviante usare in questo modo la dolente affermazione di Primo Levi? Forse, non dovrebbe essere proprio usata, ma lasciata allo stato puro di testimonianza: «Sono di nuovo in Lager, e nulla è vero all’infuori del Lager. Il resto era breve vacanza, o inganno dei sensi, sogno: la famiglia, la natura in fiore, la casa». È l’ultimo paragrafo de La tregua scritto da Primo Levi sedici anni dopo il ritorno da Auschwitz.