Come si legge di base ‘L’infinito’ di Leopardi

Questa lirica, della primavera-autunno del 1819, appartiene alla serie che nell’edizione 1826 porta il titolo di Idilli e che comprende altri cinque testi, tra cui La sera del dì di festa Alla luna. «Idilli» sono per il Leopardi componimenti ché esprimono – com’egli scrive – «situazioni; affezioni, avventure storiche del mio animo», componimenti cioè «di carattere più intimo, quasi pagine di diario, parentesi di confessione personale» (Fubini-Bigi), che in questi anni si oppongono alle canzoni, di tono e contenuto più eloquente. Se la denominazione rimanda agli idilli greci (e in particolare agli Idilli di Mosco, che egli tradusse), tuttavia la natura di questi componimenti richiama modelli poetici e sentimentali più recenti, dal Werther all’Ortis, ai Pensieri d’amore e agliSciolti a Sigismondo Chigi del Monti.
Negli Idilli, poi, è posta sempre in primo piano «la figura del poeta solitario, intento ad ascoltare i moti del proprio cuore», mentre «del mondo esterno non compaiono che alcuni aspetti della natura, testimone e confidente delle sue meditazioni» (Fubini-Bigi).

Nota metrica: endecasillabi sciolti.
E ora: la lettura.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle,

1. quest’ermo colle: secondo la tradizione, il colle solitario (ermo) sarebbe il monte Tabor, un’altura nei pressi di casa Leopardi; ma la determinazione concreta del luogo è assolutamente irrilevante. Quanto ad ermo, va rilevato che «è la prima di tutta una serie di parole indefinite che costituiscono uno degli aspetti più caratteristici del linguaggio del canto» (Fubini-Bigi).

E questa siepe, che da tanta parte
Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude
.

che sottrae allo sguardo (il guardo esclude) così gran parte dell’estremo (ultimo, latinismo) orizzonte.

Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani

fermandosi a guardare (dando così al verbo sedere il significato generico di “stare”); secondo Citati, invece, Leopardi «stava seduto per terra, … a ridosso della siepe», poiché il limite era voluto: «mentre pensava (infinito aveva bisogno di avere attorno a sé un limite, una siepe, un muro».
interminati: senza fine, senza termine; «le parole che indicano moltitudine, copia, grandezza, lunghezza, larghezza, altezza, vastità, ec. ec. sia in estensione, o in forza, intensità cc. cc. sono pure poeticissime, e così pure le immagini corrispondenti».
quella: la siepe.

Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento

mi fingo: mi costruisco, mi immagino; «l’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre ci nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perchè il reale escluderebbe l’immaginario».
ove: «usato nel delicato duplice senso di collocazione spaziale e di consecuzione temporale (`dove’ e `per cui’)» (Solmi).
come: quando.

Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce

tra queste… voce: il gioco dei rimandi tra realtà/immaginazione/realtà è sostenuto dal deittico dimostrativo queste/quello/questa; questa voce: quella del vento che stormisce fra le piante.

Vo comparando: e mi sovvien l’eterno,

Vo comparando: vado paragonando, confronto.
l’eterno: «dopo l’infinito dello spazio, l’infinito del tempo» (Fubini-Bigi).

E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa

le morte stagioni: tutte le età passate, tutta la storia; cfr. La sera del dì dí festa, w. 33-39: «infinità del passato che mi veniva in mente, ripensando ai Romani così caduti dopo tanto tumore e ai tanti avvenimenti ora passati ch’io paragonava dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce o canto villanesco».
e la presente… di lei: e il tempo presente che ancora vive, attraverso il rumore del vento.
immensità: «l’immensità dello spazio che egli si era finta nel pensiero e quella del tempo che ora gli è tornata in mente alla voce del vento» (Flora).

Immensità s’annega il pensier mio:
E il naufragar m’è dolce in questo mare.

m’è dolce: mi risulta piacevole: «qualifica la sensazione dell’immergersi in questo mare immaginato, dell’abbandonarsi a un indeterminato fluttuare di sensazioni e di idee» (Puppo).

La situazione. Il poeta è seduto dinanzi a una siepe che gli impedisce di vedere il profilo dell’orizzonte e gli oggetti reali che entro quello si collocano; egli coscientemente si finge, immagina al di là della siepe «interminati / spazi», «sovrumani / silenzi» e «profondissima quiete», finché, richiamato al presente da una sensazione uditiva, lo stormire delle fronde, estende il suo fantasticare dalla dimensione spaziale a quella temporale, evocando le «morte stagioni» e «l’eterno», in un contrasto analogo a quello spaziale precedente (limite della siepe / infinità; presente / eterno), e conclude sottolineando la dolcezza di questa immaginazione («naufragar m’è dolce»).

Un’esperienza dell’immaginazione. È fondamentale rilevare come la situazione del “naufragare” nell’infinito e nell’eterno sia, non già, come in altri poeti romantici, una pura e semplice fuga nell’irrazionale e nel sogno, bensì un processo immaginativo e consolatorio sottoposto a un preciso controllo razionale o, per usare ad altro fine una formula nota, un sogno fatto in presenza della ragione: il soggetto che vive l’esperienza costruisce consapevolmente la situazione di contrasto tra limitato e illimitato (ricerca nella siepe il limite spaziale che consenta l’attività immaginativa) e poi paragona il presente al passato é all’eterno. Il poeta descrive una situazione che si deve immaginare iterativa: «tutti i verbi al presente della lirica che si riferiscono a un’attività o a un’emozione del soggetto saranno da intendersi come presenti iterativi: “sono solito fingermi nel pensiero”, “sono solito andare comparando”, ecc.» (Blasucci). Egli nell’atto dello scrivere è consapevole della vanità del suo tendere, nel’ momento della contemplazione, all’infinito, sa in altri termini che quella che compie è un’esperienza dell’immaginazione e nulla più, per quanto sia dolce e consolatoria. Decisivo appare in questo senso il valore di «mi fingo», che indica chiaramente la coscienza della finzione. Si confronti anche quanto scrive M.A. Rigoni: «Non si tratta […] dell’abbandono a un infinito teologico, né propriamente di un’esperienza del “sacro”, come molti hanno sostenuto o suggerito: numerose note dello Zibaldone, lungo un arco di tempo che va almeno dal ’20 fino al ’27, attestano infatti la polemica contro ogni interpretazione metafisica del fenomeno».

Da un punto di vista formale si ha conferma di questa volontà di controllo razionale del processo immaginativo nell’elaboratissima e controllatissima struttura del componimento, fondato su calibrate simmetrie (Blasucci negli Approfondimenti che seguono). Del resto, quel «lavoro dell’immaginazione» che nell’Infinito è rappresentato «con immediatezza e con accenti di singolare novità, come di chi scopre un’inesplorata regione dell’animo», che si sublima anzi sino ad apparire « un moto dell’anima allo stato puro, l’attrazione e lo smarrimento dinanzi all’infinito» (Fubini-Bigi), viene «razionalmente spiegato» in una pagina dello Zibaldone relativa alla definizione della teoria del piacere e così ricondotto ad un preciso intento non già irrazionalistico o mistico, bensì poetico e immaginativo: «Alle volte l’anima desidererà ed effettivamente desidera una veduta ristretta e confinata in certi modi, come nelle situazioni romantiche. La cagione è la stessa, cioè il desiderio dell’infinito [che poco prima il Leopardi aveva detto costituzionalmente negato all’individuo e causa della sua più radicale e intima sofferenza], perché allora in luogo della vista lavora l’immaginazione, e il fantastico sottentra al reale. L’anima s’immagina quello che non vede, che quell’albero, quella siepe, quella torre gli nasconde, e va errando in uno spazio immaginario, e si figura cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l’immaginario». L’esperienza dell’infinito è insomma tutta mentale, è un’esperienza priva dello statuto di realtà.

I procedimenti formali omologhi.
Il rapporto finito/infinito, nella duplice dimensione spaziale e temporale, trova poi riscontro in altri procedimenti formali, messi in rilievo dalla critica. Innanzi tutto la tensione cui l’uso sistematico dell’enjambement sottopone la struttura metrica dell’endecasillabo: a parte due casi (il v. 1 e il v. 15), la struttura sintattica infrange sistematicamente la misura metrica, impedendo una lettura che rispetti il ritmo dell’endecasillabo e creando viceversa misure ritmiche e melodiche libere e variate, che seguono i moti dell’animo e creano una musicalità nuova e libera. Questo procedimento a ben vedere costituisce un equivalente formale del rapporto finito/infinito: finita è la struttura metrica dell’endecasillabo, che però viene costantemente violata quasi a ricreare, a livello ritmico e melodico, il moto immaginativo e sentimentale che oltrepassa il limite spaziale e temporale e si proietta verso l’infinito.
Altri procedimenti formali si inseriscono in questo quadro: la scelta lessicale che comprende termini indefiniti e vaghi (secondo la nota poetica leopardiana) come «caro», «ermo», «ultimo», «profondissima», «eterno», «annegare», «naufragare», «dolce», ma soprattutto termini come «interminati», «sovrumani», «infinito», «immensità», composti cioè in cui il prefisso (in, sovra) modifica e nega il nucleo semantico del vocabolo cui si applica (termine, umano, finito, misurabile). Analoghe considerazioni potrebbero farsi per altri aspetti della metrica, della lingua e dello stile. Ci limitiamo ad un ultimo esempio: la contrapposizione ripetuta tra i deittici «questo» e «quello», che indicano rispettivamente vicinanza e lontananza anche in questo caso sia a livello spaziale che temporale.

Il disegno costruttivo dell’Infinito

Di Luigi Blasucci proponiamo ora uno dei suoi Paragrafi sull’ “Infinito”, dedicato a descrivere le «puntuali corrispondenze» che fanno dell’Infinito «un organismo armonico e perfettamente conchiuso» (ma corre obbligo avvertire che il critico nella parte precedente del saggio mostra elementi formali e semantici di diverso segno, cioè aperti e dinamici).

Questo continuum ritmico-sintattico non esclude tuttavia la presenza di un evidente disegno costruttivo, fondato su una serie di puntuali corrispondenze fra le varie parti della lirica. Da questo punto di vista essa si offre come un organismo armonico e perfettamente conchiuso. Già un acuto lettore come il Fubini aveva parlato della «conchiusa compiutezza» di questo testo, del suo movimento racchiuso e come incorniciato tra i versi iniziali e finali, accomunati da una «cadenza uniforme». Mala sapienza costruttiva del componimento non si limita a una corrispondenza tra le sue parti estreme: essa investe, come si è detto, l’intero organismo. Dal punto di vista sintattico la lirica risulta composta di quattro periodi (delimitati dai quattro punti fermi), di lunghezza metrica varia, ma sostanzialmente riconducibili a misure che si corrispondono in modo speculare: il primo periodo («Sempre caro… il guardo esclude») e il quarto («Così tra questa… in questo mare») hanno una durata più breve, rispettivamente di tre e di due versi e mezzo, nei confronti del secondo («Ma sedendo e mirando… non si spaura») e del terzo («E come il vento… e il suon di lei»), rispettivamente di quattro versi e mezzo e di cinque (computando in quest’ultimo caso come un verso intero la somma dei due emistichi isolati dei vv. 8 e 13). La simmetria è perfetta se si considerano le somme dei versi che formano rispettivamente i primi due e gli ultimi due periodi: la lirica ne riesce infatti divisa in due parti uguali di sette versi e mezzo ciascuna. Di conseguenza’ l’ottavo verso risulta centrale non solo dal punto di vista metrico, ma anche rispetto alla partizione sintattica, formato com’è da due emistichi contenenti ciascuno un segmento dei due periodi mediani: « il cor non si spaura. E come il vento».

Queste corrispondenze quantitative ne richiamano altre su diversi piani. Il primo e l’ultimo periodo si distinguono per un loro andamento piano, paratattico, a carattere essenzialmente enunciativo; i due periodi mediani sono invece connotati da una sintassi più mossa ed ariosa, con un incremento di costrutti ipotattici. Quanto al rapporto metro-sintassi, i due periodi estremi contribuiscono solo in minima parte alla ricchezza di inarcature che caratterizza il componimento, esattamente con un enjambement per ciascuno; per converso, ognuno di essi contiene un verso sintatticamente isolabile, rispettivamente il primo e l’ultimo, che sono anche gli unici versi isolabili della lirica. Se si considera che essi costituiscono anche l’incipit e l’explicit dell’intero componimento, il fenomeno apparirà allora come uno dei fattori più rilevanti della sua strutturazione.
A questa quadripartizione sintattico-metrica non sarà difficile associare una ripartizione dei segmenti tematici, con una possibilità di individuazione di elementi specularmente corrispondenti anche a questo livello. Così il primo e l’ultimo periodo, sintatticamente piani, enunciano la situazione di partenza e quella di arrivo, caratterizzate entrambe da una dichiarazione di gradimento («Sempre caro» = « m’è dolce»), presente rispettivamente nel primo e nell’ultimo verso. Essi inoltre contengono una serie di riferimenti a entità paesistiche, non importa per ora se fisiche o metaforiche, sottolineate dall’uso di aggettivi dimostrativi di vicinanza («quest’ermo colle», «questa siepe» = « questa immensità», «questo mare»). I due periodi mediani, sintatticamente mossi, svolgono invece il motivo dell’infinito come processo mentale sui due versanti della spazialità e della temporalità. La narrazione di questi due processi culmina in due serie polisindetiche di tre termini ciascuna («interminati spazi…, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete» = «l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva») disposte reciprocamente in figura speculare non solo quanto alla collocazione sintattica (nel primo caso la serie infinitiva precede, nel secondo segue, il predicato verbale), ma anche quanto alla gradualità semantica dei singoli termini (alla progressione ascendente della prima serie risponde la progressione discendente della seconda).
Ma queste simmetrie sono operanti all’interno di un discorso che si configura come un processo narrativo. Di qui il diverso valore di quei ritorni rispetto ai medesimi elementi nella loro prima apparizione. In questo senso lo stesso principio di specularità opera a suo modo come un fattore di progressione. Così nella serie graduale (in senso diminutivo) che caratterizza il processo dell’infinito temporale è ravvisabile un movimento di riemersione all’ora (la stagione presente) che si pone come antitesi e insieme come compimento narrativo rispetto al processo di immersione, di discesa nel profondo, rappresentato nel periodo precedente dalla serie graduale (in senso accrescitivo) dei predicati dell’infinito spaziale. Ancora più evidente è la progressione nella specularità dei due periodi estremi. Abbiamo già accennato al diverso valore, rispettivamente fisico e metaforico, delle immagini paesistiche che caratterizzano i due periodi: a un colle e ad una siepe come elementi di un paesaggio reale si contrappongono una immensità ed un mare come elementi di un paesaggio mentale. Ma anche prescindendo dal diverso statuto di quelle immagini, la loro stessa valenza semantica si pone su una linea chiaramente oppositiva: colle versus mare, siepe versus immensità. Conseguentemente gli stessi dimostrativi che li determinano («questo… questa» = «questa… questo») finiscono col sottolineare nella loro identità la diversità degli oggetti, costituendo così i più efficaci indici di misurazione del percorso tematico della lirica: dal definito all’immensurabile, dal reale all’immaginario, dal sedere e mirare al naufragare.

Pubblicato da Giuseppe Genna , il Mercoledì 1 Dicembre 2004

Miserabile intervista sulla scrittura

“Esiste per me un piano fonico che è irrinunciabile. Sono per l’abbattimento dei generi all’interno del romanzo, ma lo sono anche tra due macrogeneri che invece vedo essere in perfetta continuità: cioè prosa e poesia…”

di MARIANO SABATINI

Definirebbe l’italiano una lingua facile o difficile? (e perché?)

La lingua italiana è la lingua più difficile al mondo. Su questo sono tanto categorico non tanto in ragione delle strutture sintattiche, grammaticali o foniche – quanto per questioni letterarie. L’italiano è la lingua letteraria più antica del mondo: un iraniano non capisce nulla di Gilgamesh in versione originale, così un greco contemporaneo non comprende Omero e un inglese oggi fatica a capire Chaucer o addirittura Shakespeare, e un francese non coglie nulla di Arnaut Daniel. Noi italiani comprendiamo, seppure non del tutto e perfettamente, Dante, Petrarca, Boccaccio. La nostra lingua arriva a noi praticamente immodificata (si pensi che, dopo Dante, il massimo introduttore di lessemi innovativi nella lingua italiana è D’Annunzio, nel Novecento). Abbiamo quindi un privilegio che è uno svantaggio e un’abnorme chance rispetto alle altre lingue: abbiamo sperimentato ogni forma. Non c’è una lingua più all’avanguardia di quella italiana, poiché non ce n’è una più esausta – forse addirittura ha oltrepassato il coma, la morte. Inventare linguisticamente, per un italiano, è un’opera di folle difficoltà. Se penso a Heaney, ho la percezione che stia facendo (in un inglese che è anche meticcio, come del resto quello di Walcott) quanto fece da noi Carducci più di un secolo fa. La chance sta nel fatto che la letteratura italiana si troverebbe nella posizione di avere superato la lingua di superficie. Tale chance è còlta da pochissimi scrittori contemporanei, e penso a Tommaso Pincio in primis, ma anche a Giulio Mozzi, che a mio parere ha la più profonda autocoscienza del mezzo letterario linguistico tra i prosatori italiani. E’ una tesi non del tutto mia, del resto: basti scorrere la bibliografia di Giorgio Agamben per condurre la latitudine Walser a quella pascoliana, fino a sprofondare nella scrittura in lingua vivente che è già morta.

Pensa che la pagina debba essere bella, e quindi perfetta, o farsi leggere comunque?

La pagina, almeno per quanto concerne un fatto di poetica personale, deve tenere conto di due fattori: quello linguistico italiano sopra accennato, e cioè l’esaurimento del “bello stile” come tradizione unificante – ciò significa l’abbattimento della linea neopetrarchesca o, nel Novecento, calviniana. Io propongo un modello di fondazione organica della narrazione italiana, compreso il piano superficiale linguistico, con lo Zibaldone di pensieri di Leopardi, secondo l’interpretazione datane da Mario Fubini – bisogna partire considerando la struttura come lingua, ma non nel senso dello strutturalismo e del post-strutturalismo, bensì rifacendosi al momento sorgivo in cui una narrazione non lineare ma organica, quale è a tutti gli effetti lo Zibaldone, viene alla luce con una lingua sconcertante. Questa lingua “sbaglia”, appositamente non si fa cristallina. Farsi leggere comunque: è questione di mercato e non mi interessa.

In base a cosa sceglie di narrare in prima o seconda persona?

Di solito la narrazione avviene in prima o terza persona. Rispetto ai miei colleghi contemporanei, utilizzando una modalità di apicalizzazione che mutuo da Hugo, in certi momenti o scene che definisco “emblematici”, adotto la seconda persona in una reiterazione di vocativi rivolti al personaggio. Non si tratta di dare fisicità al personaggio, bensì di fargli attraversare due fasi: una esplicitamente moralistica (io scrittore attacco moralisticamente il mio personaggio) per annullarlo, e quindi giungere a un vocativo che sia pietà, cioè empatia. E’ l’empatia la chiave di tutto l’utilizzo della seconda persona, che tenderei a privilegiare, se il lettore fosse disposto ad accettare un patto del genere, rispetto alla prima persona, che utilizzo per arrivare a sciogliere l’io, mediante visioni o spostamenti radicali della situazione in cui la prima persona viene a trovarsi. La terza persona mi è particolarmente odiosa, poiché è ormai cristallizzazione di una concezione del romanzesco come unico canone espressivo della narrazione: è ciò che contesto. Mi piacerebbe sottrarre la narrazione dal romanzesco, insomma…

Sceglie le parole anche per il suono?

Fondamentalmente, sì. Esiste per me un piano fonico che è irrinunciabile. Sono per l’abbattimento dei generi all’interno del romanzo, ma lo sono anche tra due macrogeneri che invece vedo essere in perfetta continuità: cioè prosa e poesia. Il lavoro fonico mi àncora a una tradizione che mi ingabbia, e questo ingabbiamento è fondamentale: mi spinge a cercare un varco e a piegare le sbarre. Non considero scrittura letteraria quella in cui non è compiuto un lavoro fonosimbolico (sia chiaro: in Pincio, esiste pochissima foné tradizionale: ma la scelta di scrivere in quella lingua mediana e “bianca” è una scelta dell’autore, che conosce perfettamente il piano fonico).

Meglio tanti o pochi aggettivi?

E’ una discussione che non ho mai compreso. Io sono portato a una scrittura iper-aggettivata, la quale viene tacciata o di barocchismo o di neo-espressionismo. Se si guarda alla scelta epica, ci si renderà conto della ricchezza aggettivale, che probabilmente abbatte il discorso delle formule reiterate e dei treni di parole come motivi mnemonici nel passaggio da una letteratura orale a una letteratura scritta. Posso dire che apprezzo più una scrittura con pochi aggettivi, cioè una scrittura che non pratico in prima persona: in questo, Houellebecq, che rientra tra i miei contemporanei prediletti, è cartesiano.
Quali libri tiene a portata di mano? (dizionario, sinonimi e contrari, grammatiche…)

Non ho mai utilizzato nessuno di questi strumenti. Se scrivo, tengo presenti molti libri che entrano nel libro che sto stendendo, e non sono a portata di mano, ma sparsi in angoli spesso remoti delle mie librerie. A ciò si aggiungono i testi che ho studiato per scrivere il libro – testi che solitamente superano la cinquantina.

Fa delle ricerche prima di mettersi a scrivere? (di che tipo?)

E’ a mio parere impossibile comporre un romanzo senza fare ricerche, cioè studiare. Ho calcolato che per l’ultimo libro che ho steso, il romanzo del 2008, sono circa 15.000 le pagine che ho studiato attentamente. Essendo estremamente pigro, mi muovo poco per ricerche sul campo, anche perché attingo a un patrimonio esperienziale abbastanza movimentato: ciò che ho esperito in passato, muovendomi attraverso varie situazioni, molto spesso entra nella scrittura in qualità di esperienza attuale. Spesso dietro il romanzo c’è un’investigazione, che è quasi sempre condotta in forza di un sospetto e di un desiderio inappagato (fino alla fine) di disvelamento. Ciò significa che i libri che ho finora pubblicato sono costruiti a più livelli. E’ curioso notare come l’investigazione effettiva sia l’elemento meno percepito dai lettori, nonostante sia posto in bella vista – un atto su cui ragiono spesso, poiché evidentemente tendo all’occultamento di quanto cerco senza scoprire nulla.

Cosa pensa degli avverbi? (li odia, li ama, li evita come la peste…)

Non li amo. Però è un’altra questione inesplicabile: dipende dall’uso che se ne fa. L’“ignominosamente” del verso di Luzi sulla morte della Repubblica, nella poesia in morte di Aldo Moro, ha una potenza altissima, per esempio.

Le parole che odia? (qualche esempio)

Quelle derivate senza filtri o ambiguità dalla lingua comune. I treni di parole (“come un libro aperto”). La lingua da supermarket. Per fare un esempio: “io”, il verbo “dovere”, il sostantivo “assenza”.

Meglio frasi lunghe o brevi?

Dipende dal protocollo. Il protocollo è ritmico. Io amo alternare violentemente ipotassi e paratassi, per cui a questa domanda non ho risposta. Amo molto, tuttavia, gli scrittori che si esprimono con frasi brevi, Kafka su tutti.

I verbi ausiliari: aiuto o condanna? (nel senso che non se ne riesce a fare a meno)

E’ per me una questione irrilevante, nel momento in cui percepisco la prosa come una continuità della poesia.

I suoi personaggi, di solito, sono ricalcati su persone reali?

Non sempre. Molto meno di quanto pensano certi miei lettori. Quando pensano che io sia veritiero e diretto, quasi sempre non lo sono: sto inventando. Nei thriller sono pochissimi i personaggi reali (o loro frammenti) che entrano nel gioco della scrittura. Quando autobiografizzo, spesso cambio un personaggio reale con un altro, per cui può capitare che mio zio sia in realtà mio cugino, che mio padre sia io – e non sempre i fatti sono riportati dal reale, spesso sono inventati di sana pianta.

Le descrizioni dei personaggi sono utili o è meglio desumerle da piccoli dettagli disseminati nella storia?

Odio descrivere i personaggi, sia fisicamente sia psicologicamente. C’è un mio personaggio seriale, l’ispettore Lopez, che regge quattro thriller senza mai essere descritto una volta. Anche la disseminazione degli indizi fisici e psicologici mi pare una tecnica preordinata, quindi finta, attinente alla finzione-finta che è il mio attuale nemico letterario.

Dovendo scegliere le ambientazioni preferisce andare sul luogo?

No, mai. Può capitare a volte che io ci sia stato. In un thriller compare Pechino, dove non ho mai messo piede, e Montecarlo, che mai ho visitato. Altrove c’è un’ampia descrizione di Amburgo, dove sono stato per un giorno. Tenderei a scrivere di Marte, e quindi la risposta viene da sé.

Quali esercizi sono utili per imparare a scrivere?

Leggere moltissimo. Poi leggere pochissimo. Meditare in silenzio.