[Pubblicato in origine su Web lunedì 12 Aprile 2004]
Antonello Satta Centanin, in arte Aldo Nove, è il massimo talento linguistico della generazione italiana tra i 30 e i 40. Il che non significa che sa scrivere bene. C’è molta gente, oggi, che sa scrivere bene. La fede assoluta nella lingua, vissuta con una naturalezza sconcertante, priva totalmente dello sforzo o della fatica a cui è costretto lo scrittore che parte da un rapporto estrinseco con la lingua: ecco, piuttosto, il segno del talento. Il talento linguistico filtra qualunque esperienza attraverso un atto di parola che è identico al respiro: non esiste coscienza del respiro, esso eviene come automatismo virtuoso – e consente la vita. Non è un caso nel caso di Aldo Nove: essendo uno dei migliori poeti della sua generazione, esercita la lingua come respiro metrico. Ma è quando affronta la prosa, attraverso la misura del racconto impossibile e sospeso, che Aldo Nove fa erompere con potenza il suo talento. E questa nuova raccolta di racconti, probabilmente il primo autentico romanzo di Aldo Nove, La più grande balena morta della Lombardia, conferma la grandezza della scrittura dell’autore di Woobinda – qui si inventa un nuovo genere, neosettecentesco e fantascientifico, cahier de doléance et de joie, raccolta di sutra teologici e saggio postfreudiano, intervento politico e prosa poetica. Ovvero: il libro dell’occhio che scruta il presente stupendo e terribile, attraverso il trauma del passato in cui già, quall’occhio, scrutava stupito.
C’è una superficiale linea di continuità che lega la Balena ai precedenti lavori di Nove – ed è la simbologia del consumismo, l’esasperazione di materia da acquistare e divorare che ha fatto (e sta disfacendo) una cultura. E’ pura apparenza, poiché la prospettiva di Aldo Nove supera il feticismo che energeticamente lega mente e oggetto, spalanca sia la mente sia l’oggetto, permette di penetrare contemporaneamente (qui è il miracolo del talento linguistico) e nella mente e nel soggetto. In quest’opera esplorativa (e mai colonizzatrice – altro miracolo del talento linguistico) della dissociazione tra mente e mondo, Aldo Nove proietta se stesso e chi legge in un pardès di stupore edenico ma non inerme, in una sorta di limbo selvaggio in cui l’infante regale (anzi, divino) è il soggetto assoluto, assolutamente potente eppure non demiurgico, poiché è l’unico soggetto dello stupore che può variare a suo piacere secondo i morfemi del gioco, sebbene egli non possa incidere minimamente su una realtà data, storica, che lo colpisce e in cui egli è gettato. Prendiamo uno dei molteplici vertici di questa narrazione esplosa – il pezzo di bravura su L’omino Bialetti:
“Quando facevo la cacca dopo le dieci appariva l’omino Bialetti, immenso come una vetrina piena di giocattoli, spaventoso come il rombo di un aereo.
[…] Inutile gridare quando un pupazzo che non esiste forma parole con nere successioni di lettere sulla bocca […]
Perché l’omino Bialetti vende prodotti per la casa sullo schermo ma ha una doppia vita come il dottor Jekyll, ogni notte uccide i bambini che restano in bagno da soli più di nove minuti, li spaventa per mesi e infine li uccide.
A Viggiù, nel solo marzo del ’71, ne sono stati trovati morti undici.”
E’ un microracconto che comprime, nello spazio di neanche una pagina, una mole impressionante di nuclei e stilemi, e che richiede uno sguardo esasperatanente attento, impegnato con altissima fatica a decrittare ogni svolta e ogni piega di una prosa straordinaria – finché l’esasperazione diviene troppo esasperante e si compie il balzo verso il nonpensiero, verso lo stupore che Aldo Nove coagula nelle sue infinite distorsioni linguistiche (una sostanza linguistica e alinguistica che, secondo Agamben, configura lo stato paradisiaco del parlante, in presenza della lingua morta). Ecco una non definitiva lista di nuclei, temi e variazioni ritmiche che Aldo Nove condensa in questo brano:
– Il superamento dell’ideologia psicoanalitica come etichetta unica da apporre sul mistero dell’infanzia (la fase anale);
– Il mantenimento dell’equazione sporco/mistero (la cacca e il pericolo, il momento misterioso che aggredisce, fa vibrare di paura);
– L’enunciazione dell’esperienza infantile come assenza di dualità e compresenza di opposti (la vetrina dei giocattoli è immensa e il rombo dell’aereo è spaventoso, quindi il principio di piacere e quello di dispiacere convivono nel medesimo universo esperienziale; lo stesso omino Bialetti, che fa ridere, fa anche terrore – e, pur essendo piccolo, è enorme);
– La percezione dell’icona via etere come fantasma (il bambino è in bagno e spunta il personaggio televisivo dell’omino Bialetti), con tutte le conseguenze sociofilosofiche del caso (edificazione di una cultura fantastica tramite condizionamento; e, di contro, risposta formulata in termini di sopravvivenza psichica, attraverso la fantasmizzazione di ciò che è dato dalla cultura dell’etere e dal momento sociale – diciamo dall’inconscio collettivo);
– Intensificazione dell’esperienza soggettiva come avvenimento teologico, che struttura un universo parallelo, paradisiaco o infernale (qui è il caso di sottolineare la prossimità del “pupazzo che non esiste” e che agisce, trattenendo in bocca e poi espellendo gli elementi seminali di ogni linguaggio, lettere che fondano la lingua ma non significano nulla, esattamente come il Nyarlathotep di Lovecraft, “il dio idiota che gorgoglia al centro dell’universo”);
– La percezione paranoide come protocollo di interpretazione dell’interazione tra individuale e collettivo, interiore e sociale (è, sotto certo riguardo, il nucleo paranoide interpretato come poetica del complotto da Pynchon o da DeLillo, almeno fino alla metà degli anni Novanta. Qui è dato dal racconto della doppia vita dell’omino Bialetti, pubblicità sullo schermo tv e serial killer fuori dallo schermo);
– La sovradeterminazione ironica: da un lato raggiunta attraverso lo straniamento linguistico, dall’altro ottenuta con la mimesi distorta di registri altri (per esempio, la cronaca giornalistica impazzita del ritrovamento degli undici bambini uccisi a Viggiù nel ’71);
– La profonda valenza politica del testo, con quel riferimento, al di là dell’anagrafe dell’icona pubblicitaria, al 1971: qui viene a sovrapporsi, agli usuali sguardi storici su un periodo tragico della storia italiana, un’altra specie di percezione, sia storica sia sovrastorica. Non è lo sguardo innocente nel senso emotivo che riconduce tutto l’evento al bene, al bel sentire. E’ invece, lo sguardo testimoniale, che include probabilità e assurdità, di chi è innocente perché agisce colpa ed esclusione dalla colpa, non avendo sperimentato alcuna morale eretta sulle categorie di male e bene. E’ la storia di un trauma, l’invenzione attraverso la distorsione del ricordo, la creazione di una forma di resistenza anarchica e creativa a fronte dell’inimmaginabile imporsi di una storia. Questa capacità di creazione totale (linguistica, immaginativa e strutturale) fa rivivere il trauma senza che evapori la storia stessa che l’ha prodotto. E’ il culmine della terapia storica.
Sono soltanto alcuni nuclei desumibili, con minimo esercizio di attenzione percettiva al testo, da un pezzo di La più grande balena morta della Lombardia. L’atteggiamento che Aldo Nove richiede al lettore è pressoché identico a quello che esige il poeta da chi si accosti ai suoi versi, a un suo testo. Però, qui, c’è qualcosa di più. C’è che Aldo Nove (e questa è la differenza che maggiormente salta all’occhio rispetto alla raccolta di racconti Woobinda) riesce a ottenere un’unità dei racconti. Attraverso una tramatura che si intuisce nel progredire della lettura, è molto chiaro che Aldo Nove riesce laddove certi bolsi critici non gli perdonavano di riuscire in precedenza: fa un romanzo.
Che cosa unisce un verso poetico al verso successivo? Come è possibile che il testo poetico, a un certo punto, tolleri e permetta di tollerare una sospensione totale, che ha il suo rappresentante sintattico nell’andare a capo? Come è possibile che la lingua, a un certo punto, si stoppi, si immerga nel bianco, e ne riesca successivamente, su un altro livello, mantenendo in un certo senso una corenza che non hanno, per esempio, le lettere che cadono dalla bocca dell’omino Bialetti? Qualcosa passa attraverso quel bianco dell’andare a capo. E cosa permette di sopportare lo stacco da scena a scena in un romanzo? Come avviene che sia naturale per un lettore l’abisso tra un capitolo e l’altro, l’interruzione di un racconto e la ripresa da un altro punto dello spaziotempo narrativo? Noi che leggiamo siamo disponibili ad attraversare quel silenzio e a ricongiungerci alla lingua quando essa decida, la riga o il capitolo dopo, di riemergere da quel nulla sensibile che sospende la lingua stessa. Questa capacità di attesa da parte nostra, questa nostra accettazione della suspence, fa perno su un’unità a priori, di senso e di lingua stessa, che è precisamente l’umano: l’unità dell’intenzione, di qualunque intenzione, anche la più diffranta ed esplosa, è l’unità dell’esperienza umana, la sua tollerabilità, la sua naturalezza. Unica esperienza che ci affratella allo scrittore. Questo è il perno dell’epica: un riconoscimento dell’altro in quanto è fratello, in quanto è umano, in quanto è uno di noi.
E’ per questo motivo che la configurazione del libro di Aldo Nove è epica. Sono storie orali, non semplicemente psicologiche, che nascono dall’appertenenza all’umano messa in relazione con la storia di almeno un decennio. La deflagrante potenza politica del racconto di Aldo Nove (di cui il pezzo su Toni Negri, orchizzato, mostruosizzato, fantasmizzato, è uno dei momenti più alti) si avverte nella capacità di rendere totale lo stupore di un uomo che guarda agli uomini, di un uomo che guarda al proprio tempo, ma dopo averlo vissuto. Ogni racconto de La più grande balena morta di Lombardia è, così, una tessera di un puzzle che non sarà mai completo né coerente, ma in cui tutto comunque si tiene. Non è il disegno corretto di un tempo che deve affiorare, bensì l’esperienza totale di uno sguardo lanciato su un tempo. Forzatamente, in questo senso, si avverte l’epica: che è sempre un assommarsi di storie, infinite storie dentro le storie, luminosi reperti orali che si fanno scritti, versioni strabiche del medesimo evento, voci molteplici che tracimano dall’unicità in cui tenta di recluderle la scrittura con opera disperatissima e sempre fallimentare. L’epica è, di fatto, all’origine e nel suo esito, ciò che esonda oltre la letteratura. L’epica annulla la letteratura, perché permette di compiere l’esperienza psichica che causa la letteratura, che viene prima della letteratura. La narrazione, nell’epica, è l’ultimo degli obbiettivi, poiché la digressione (o meglio: la retorica dell’uscire dalla letteratura) è l’occhio del ciclone a cui l’intera epica ruota attorno.
Nella filatura di molte storie a cui ha assistito un unico, sconfinato, stupitissimo sguardo, Aldo Nove va a tessere una nuova porzione dell’immensa tela epica a cui sta lavorando la letteratura italiana contemporanea, e che renderà il nostro tempo letteralmente memorabile, rammemorato.
Aldo Nove – La più grande balena morta della Lombardia – Einaudi – 12.50 euro
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Bella prova del Nove
di MARCO BELPOLITI | L’Espresso, 12.4.04
Rare sono le apparizioni dei romanzi d’infanzia nella nostra letteratura. Non dei romanzi che raccontano quell’età della vita, ma proprio dei racconti che usano le parole dell’infanzia per narrarla. La più grande balena morta della Lombardia è un libro sentimentale e insieme estremamente costruito. È uno di quei racconti che sembrano sgorgare dal cuore e al tempo stesso sono il risultato di un calibratissimo lavoro di cesello: spontaneità e artificio. Forse l’unico antecedente sono i libri di Gianni Celati, la trilogia degli anni Settanta, La banda dei sospiri, ovvero i libri che hanno fondato la letteratura giovanile in Italia, ma anche i racconti laconici dei Narratori delle pianure. Con La più grande balena morta della Lombardia è un po’ come se il cerchio si fosse chiuso, un’altra stagione dello sperimentalismo segna la sua fine, quella dei ‘cannibali’. Aldo Nove, autore di Puerto Plata Market, svela con questo libro di frammenti narrativi la sua vera natura di scrittore della sentimentalità, ovvero del sentimento che osserva se stesso, che riflette su di sé. Il libro di Nove è un caleidoscopio di racconti d’infanzia e di adolescenza, composto di tante piccole storie che hanno il loro baricentro a Viggiù, il paese lombardo in cui abita il piccolo Anto, alterego dell’autore. Sono storie malinconiche e ossessive, strane e ordinarie; storie che mostrano un terribile stato di angoscia, un incerto bilico d’ansia, in cui sembra vivere il protagonista. Sono piccole vicende fatte di niente, a volte poco più che elenchi o litanie personali, altre volte assurde o ridicole. Eppure ogni racconto aggiunge qualcosa di fondamentale e insieme di essenziale alla descrizione di quel microcosmo. Ma quello che conta è il modo con cui sono raccontate, il linguaggio usato, la punteggiatura (quasi assente), il fiato che hanno le frasi estratte da un parlato infantile ricostruito con raffinatezza (l’ampio uso della deissi: qui, ora, questo, quello). C’è spontaneità e insieme riflessione. Il linguaggio funziona come uno specchio attraverso cui il narratore riesce a dire il suo mondo, superando l’ostacolo del sentimento, trasformandolo, appunto, in sentimentalità. È come in certi racconti di malattie mentali: il malato parla di se stesso quasi fosse un altro. Lo fa usando il linguaggio come una superficie riflettente. Così è anche questo libro: racconta quella malattia da cui alcuni non riescono più a guarire: l’infanzia. Aldo Nove ha scritto un libro bellissimo e commovente.