Inedito: “L’armonia delle sfere celesti e della rossa terra finale”

di Giuseppe Genna

L’orizzonte rosso sahariano è interrotto da guglie sedimentarie, polvere di criosoto che si innalza a folate al vento, sotto il cielo azzurro, investito il territorio dal sole molto pallido, molto piccolo, la metà del disco a cui sono abituati gli umani e non esiste nessuno. Scisti di argille pressate immobili in ordine sparso, moltissimi. Perclorati sotto uno strato della consistenza di plastilina, sotto sabbia granulare rossa, uno strato sommosso da forti perturbazioni, spesso a carattere turbinoso. Nella regione di Juventae Chasma, addirittura anomalie geologiche per forma e regolarità – una miniera rettangolare, perfettamente rettangolare. Nature cristalline in subsidenza. Ematite ovunque. Sferule minime, grazie alla presenza intensa di anidride carbonica. Regulite, erosione selettiva. Nessuna nuvola. Fa freddo, sono 63° Celsius sotto lo zero. Venti a velocità non eclatante, qui.
La piatta distesa dei nostri film western su una distesa ad albedo 0.6.
Il giorno siderale dura 24,6229 ore umane. Dov’è il remoto pandemonio del sole, qui?
E’ una piatta depressione soltanto parzialmente irregolare, lontana molto da Vastitas Borealis, nella regione chiamata per convenzione Amazonis Planitia, appiattita da un’era di indeterminata periglacialità, interrotta da coni vulcanici e fumaroli spenti.
Andando a sud.
Accade che da una distanza di 78 millioni di chilometri un nome è stato lanciato, dalla specie, un proiettile nemmeno fatto di suono, ma di puro pensiero, ha investito un pianeta intero e lo ha scolpito per una forma di coscienza che si è offuscata nella sua acredine linguistica, e la sfera planetaria naturalmente priva di nome, come ogni cosa per natura è priva di nome, è stata ferita e inglobata dal blocco d’ambra vibratile del nome Marte. Gli umani hanno classificato col fonema, poi hanno investito il territorio tutto del pianeta alieno di una fitta pioggia nominale, ogni regione, monte, vulcano, cratere, polo, nomi su nomi attingendo dal passato della propria specie, in una lingua arcana morta e obliata, che evoca il buio da cui si proviene e il buio in cui ci si avventurerà: Thaumasia Felix, Solis Lacus, Cydonia, Chrise Planitia, Olympus Mons, Albor Tholus, Alba Patera, Meridiani Planum.
Andando a Sud, oltre Amazonis Planitia.
Il tempo è fuoco. Fuoco incolore, esso non ha nome. Il tempo carbonizza. Accelerate l’immagine di un processo di fioritura e vedrete il fuoco corrompere e disfare l’organismo, incarbonirlo e cancellarne ogni traccia. Il tempo incendia ogni specie. Incolore, è destinato a bruciare anche la mente, qualunque idea, nella pirosi universale. Resterà soltanto fuoco, che sente di essere, la mente scordata per sempre, l’esperienza, la specie, lo spettro percettivo e arbitrario, delirante, dei colori dal soprannominato ultravioletto all’ultrarosso codificato, una porzione ridicola dello spettro indefinito dei colori. Esistono colori che gli umani nemmeno immaginano. Si sfonda la porta del trasparente, di cui parlano ma che non possono vedere, si entra in un regno di colori che nulla hanno a che fare con le rifrazioni a cui la specie è abituata.
La loro mente solidifica, non percepisce l’incendio del tempo. Cristallizza e divide. Percepisce una bassa intensità di combustione, un arco accettabile in cui l’incendio consuma quanto di pesante concepiscono come realtà – ne sono soddisfatti, basta loro per fare alcune esperienze e pronunciare molti nomi, farsi attraversare da idee che non sono di loro, miscomprendere tutto. La mente umana ha suddiviso il tempo, utilizzando rotazioni nello spazio.
Si osservi attentamente, nello spazio mentale proprio, la traiettoria del proiettile-nome, fatto di vibrazione: attraversa lo spazio, forando l’atmosfera, percorrendo lo spazio cosmico, colpendo una seconda e aliena atmosfera, contagiando la sfera rossoidale del pianeta che viene detto Marte. Alla velocità dello sguardo, alla velocità della luce? No, più veloce ancora, nell’istantaneità del pensiero. Ecco, è colpito, è compiuto, è “Marte”.

Houellebecq inedito: I have a dream

di MICHEL HOUELLEBECQ

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[Nel novembre 2000 il quotidiano tedesco Die Zeit chiese a Michel Houllebecq un testo, nell’àmbito di una serie di interventi sui sogni. Questo gelido delirio è apparso anche in francese e io ne ho tratto una traduzione della quale, al solito, dovrete accontentarvi. 🙂 gg]

 

Che le cose siano chiare: la vita, di per sé, non è malvagia. Abbiamo realizzato un certo numero di sogni. Possiamo volare, possiamo respirare sott’acqua, abbiamo inventato agende elettroniche, il computer. Il problema comincia con il corpo umano. Il cervello, per esempio, è un organo di grande ricchezza e le persone muoiono senza averne sperimentate tutte le possibilità. Non perché la testa sia troppo grande ma perché l’esistenza è troppo breve. Invecchiamo rapidamente, scompariamo. Perché? Non lo sappiamo e non sapendolo siamo tutti insoddisfatti. E’ estremamente semplice: gli esseri umani desiderano vivere e tuttavia devono morire. Di qui, il desiderio primario di essere immortali. Certo, nessuno sa come possa essere la vita eterna, però possiamo immaginarlo.

Nel mio sogno di vita eterna, non si tratta poi di una gran cosa. Potrei vivere in una caverna. Amo le caverne, c’è ombra e fresco e lì dentro io mi sento al sicuro. Mi domando spesso se c’è stato reale progresso dopo la vita nelle caverne. Quando io sto in quei luoghi, ascoltando in calma il rumore del mare, circondato da creature amichevoli, io penso a ciò che vorrei cancellare dal mondo: le pulci, i rapaci, il denaro e il lavoro. Forse anche i porno e la fede in dio.
Saltuariamente decido di smettere di fumare. Al posto delle sigarette, preferisco assumere pasticche che sortiscono un analogo effetto sul mio cervello. Inoltre ho una grande quantità di droghe sintetiche a mia disposizione e ognuna di queste droghe sviluppa la mia sensibilità. Sono allora capace di percepire gli ultrasuoni e di vedere i raggi ultravioletti – e altre cose che ho difficoltà a comprendere.

Sono un poco diverso al presente, non soltanto più giovane, il mio corpo è trasformato, ho quattro gambe, è perfetto, riesco a stare eretto meglio, perfettamente radicato alla terra. Persino quando sono ubriaco, così configurato, non ho paura di cadere. Al contrario dell’uomo primitivo, del canguro e del pinguino, niente mi fa vacillare. E c’è di più: non ho bisogno di vestiti. I vestiti non sono pratici, qualsiasi forma abbiano, ostruiscono la traspirazione dell’epidermide. Nudo mi sento più libero. E, ciò che più importa, non sono né maschio né femmina – sono un ermafrodito. Prima non potevo immaginare la sensazione della penetrazione, non ero omosessuale. Ora posso averne qualche idea, un’esperienza fondamentale che attendevo da tanto tempo.
Non spero più nulla.
Certi lettori si domanderanno se la vita, nella più bella delle caverne e con le più adorabili tra le creature, non finirebbe per essere noiosa dopo migliaia di anni (centinaia di migliaia di anni, nel mio caso). No, non credo – non per me, in ogni caso. Non provo noia nel ripetere all’infinito ciò che amo fare, addirittura oso spingermi più lontano: la vera felicità è la ripetizione, nel perpetuo ricominciare la medesima cosa, come nella danza e nella musica, per esempio Autobahn dei Kraftwerk. Accade lo stesso nel sesso: terminatolo, desideriamo ricominciarlo. La felicità è assuefazione. Un’assuefazione che può realizzarsi in trucchi chimici in esseri umani, quando ho le mie pillole e i miei amici io non ho più bisogno di altro. La noia è l’alternativa alla felicità, la routine quotidiana, i nuovi prodotti, le informazioni – anche quando presentàti in maniera attraente. Io ho trovato la felicità nella mia caverna, non spero più in nulla, faccio un bagno quando lo desidero. Fuori è caldo e chiaro, allora io penso un poco alla Germania, dove la gente ha vissuto insieme in spazi stretti e sono contento che il paradiso non conosca sovrappopolazione. La gente è libera di scegliere la propria tomba, ci rotola dentro ogni qual volta lo desideri.

Apro gli occhi e constato che il mio sogno è alquanto superficiale. Mi accendo una nuova sigaretta, tormento il filtro, in realtà non esiste armonia con l’universo. Nei momenti di felicità, per esempio contemplando un bel paesaggio, so istantaneamente che io non ne faccio parte, il mondo mi appare come qualcosa di estraneo, non conosco nessun luogo dove io possa sentirmi a casa. Dio, anche lui, non può risolvere questo problema, peraltro io non credo a nessun dio, non è necessario, né qui né in paradiso. Credo nell’amore, è la sola cosa di valore di cui siamo in possesso, è migliore di un programma di fitness, è meglio dello sport. Forse un giorno il mio sogno di eternità si realizzarà, allora sarò una creatura con zampe, ali o tentacoli, forse altrove, non qui. Contrariamente alla maggior parte delle persone, invecchiando, non temo la morte, riscopro la mia giovinezza, che avevo dimenticato da così tanto tempo e, se le cose vanno male, io mi ritiro nella confortevole difesa del mio lavoro. I miei libri già ora mi garantiscono una certa forma di immortalità.

Eggers inedito: “E` finalmente venuto il momento di raccontare la storia”

di DAVE EGGERS

[Questo racconto breve inedito in Italia, tratto da Short short stories (Pocket Penguin), è stato scovato e tradotto da Matteo Boscarol, che qui desidero ringraziare. gg]

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Sì, è finalmente venuto il momento di raccontare la storia delle pecore dell`isola di cui non si sa più il nome, ma che fa rima con Godiva. Ce n`erano troppe di pecore su quell`isola, per cui qualcuna si imbarcò e partì per la Spagna. Ma in Spagna non furono ben accolte. Tutti in Spagna, sulla spiaggia, si aspettvano qualcosa di più eccezionale che non delle pecore. Quando la passarella fu calata e le pecore scesero, gli spagnoli gli dissero molte cose il cui nocciolo era “Ritornatevene alla vostra isola, pecore, e mandateci degli eloderma e dei draghi di Komodo”.

E` risaputo che gli spagnoli hanno sempre desiderato eloderma e dragi di Komodo e forse anche quegli antenati dell`homo erectus grandi come bambini di cui tutti parlano. Così le pecore decisero di imbarcarsi di nuovo in direzione Franz Joseph Land, che si diceva avere un clima mite e assicurazione sanitaria universale. Ma quando vi giunsero non trovarono niente. Franz Joseph Land era desolata, senz`alberi e ossessionata solamente dalla connessione internet wireless. Così le pecore navigarono ancora, questa volta approdando in Montana, che nessuno sapeva – nessuno tranne queste pecore marinaie – possedere un porto di profondità. Si fecero un giro per il Montana ma trovarono la gente chiusa e dai gusti musicali scarsi. Dovunque andarono sentirono sempre Thin Lizzy e Bachman Turner Overdrive, e benché alle pecore piacesse granparte della musica di questi gruppi, in verità preferivano i primi King Crimson e XTC. Così si imbarcarono di nuovo, questa volta in cerca di – sapete una cosa? Aspettate un attimo. Aspettate un fottuto momento. Il narratore di questa storia irrilevante si è appena svegliato, momentaneamente, da un coma autoindotto ed ora qualcosa sta strisciando nella sua coscienza. Non può essere. E` veramente successo? Abbiamo veramente rieletto Bush? Merda. Fottetevi delle pecore e abbiate compassione di noi americani. Abbiamo mai desiderato compassione? No, ma adesso la vogliamo. Inondateci di compassione che noi ci ammantiamo di vergogna.

Chuck Palahniuk: “La Chiesa delle Storie”

di CHUCK PALAHNIUK

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La rivista Nerve ha chiesto a Chuck Palahniuk un racconto e lui ha risposto con la proposta di fondare una nuova chiesa: una Chiesa della Superletteratura. Traduco io e, quindi, non essendo io un traduttore, accontentatevi! 🙂 gg]

Nel 1998, mentre mi trovavo a Los Angeles durante le riprese di Fight Club, sono andato insieme ad amici a visitare il Getty Museum. Tutti quegli antichi manufatti, gli oggetti decorativi, le teorie infinite di opere d’arte, contemplate in un silenzio stordito dai turisti: che eravamo io e i miei amici. Quella sfilata senza fine di capolavori. Era troppo. Come in un assalto ai saldi: gli occhi che tentano di classificare ogni oggetto, un luogo nella storia, una storia. Troppe storie famose accrocchiate su quella collina fuori Los Angeles.
Naturalmente quella giornata è diventata un racconto.
Negli anni Settanta, quand’ero ragazzino, i musei erano più alla mano. Andavi nelle gallerie d’arte e distruggevi le opere. Prendevi un martello pneumatico e demolivi il naso della Pietà. Baciavi un quadro e ci lasciavi sopra il rossetto. Lavoravi di spray sulla Gioconda, innescavi un ordigno a tempo per ridurre dei Mirò a spazzatura. Di questi tempi, si sa, il Getty ha invece custodi armati e plexiglas e detector.
Così mi sono trovato a chiedere ai miei amici: “E se invece di assaltare o distruggere le opere messe in mostra, un artista frustrato andasse a piazzare i suoi quadri nei musei?”. Questo artista farebbe il suo quadro a casa, lo incornicerebbe, ci applicherebbe il nastro biadesivo, se lo metterebbe sotto il cappotto. Arriverebbe qui come noi, aprirebbe il cappotto e appenderebbe il quadro alla parete tra i Picasso e i Renoir.
Questa ipotesi scherzosa divenne presto un racconto, intitolato Ambition, e si trasformò in sceneggiatura. E’ la storia di un artista che dispera di passare alla storia e io l’ho usata in un libro che si intitola Haunted e sta per essere pubblicato, insieme ad Ambition, a maggio.
Il 13 marzo, al Metropolitan Museum hanno trovato un delizioso ritratto in cornice dorata di una donna che indossava una maschera antigas, appeso tra i quadri esposti. Il 16 marzo, al Brooklyn Museum, hanno trovato il ritratto di un ufficiale d’esercito del diciottesimo secolo che ha in mano una bomboletta spray. Il 17 marzo, al Museum of Modern Art, hanno trovato un quadro che rappresentava una confezione di zuppa di pomodoro. Al Louvre e alla Tate hanno trovato quadri del genere appesi sui muri.
Secondo il New York Times, si tratta dell’opera di un artista graffitaro di nome Bansky, il quale indossa un impermeabile e una barba finta, e va ad appendere i suoi lavori tra i capolavori.
Coincidenza? Oppure siamo tutti la stessa persona molto più di quanto siamo disposti ad ammettere? I miei pensieri sono pensieri vostri a un tale punto che faccio davvero fatica a qualificarli come pensieri miei. Per quanto teniate nascosta la vostra più morbosa fantasia, un altro ci si arricchirà andando a cantarla in radio.
E’ meglio nascondere la vostra più orrenda idea e sperare che gli altri facciano lo stesso, oppure rappresentarla e condividerla?
Durante la stesura di Fight Club, parlai ai miei amici dell’idea di un proiezionista che inserisce sequenze porno nei film per famiglie. Ci fu un mio amico che mi disse di non usare nel libro quell’idea: avrebbe spinto un sacco di gente a inserire sequenze porno ovunque. Quando il libro uscì, un numero enorme di persone mi contattò rivelandomi che avevano già nascosto sequenze di sesso in film Disney, pisciato nelle portate da servire nei ristoranti, fondato dei fight club. Da decenni.
Perciò: facciamo più danni quando rendiamo condivisibili le nostre fantasie morbose, esplorandole attraverso racconti, canzoni o quadri? Oppure quando le deneghiamo e le censuriamo?
Le storie sono come gli esseri umani digeriscono le proprie vite: trasformando gli eventi in qualcosa che possono ripetere e controllare, raccontandoli fino a che esauriscano la loro carica. Fino a che non facciano più ridere o piangere o stupire. Fino a che sia possibile assorbire e assimilare anche il peggiore degli eventi possibili. La nostra cultura metabolizza eventi producendo versioni sempre più deboli dell’originale. Dopo che una nave è affondata o una bomba è esplosa – la Tragedia Originale -, ecco che abbiamo la versione dei tg, la versione del film tv, la versione del programma in radio, la versione blog, la versione del videogioco, la versione del piatto commemorativo, la versione dell’Happy Meal McDonald’s, il riferimento nei Simpson. Eco che sfumano.
Poi, come accade agli aneddoti che si raccontano alle feste e che strappano sempre risate, quelle storielle tipo come abbiamo bevuto acido solforico e divorato mezza pelliccia una notte senza accorgercene, ecco che a un punto quegli aneddoti smettiamo di raccontarli. E NON perché essi abbiano smesso di fare ridere la gente – ma perché noi abbiamo metabolizzato quell’evento. E’ risolto, finito; a chi racconta non serve più raccontare quella storia.
Forse è per questo che i Radiohead non suonano più Cree ai loro concerti.
Forse è per questo che si fanno sogni – compulsivi racconti che facilitano la digestione delle nostre esperienze, come cibo ptialinizzato, perfino quando dormiamo.
Ma le storie che abbiamo il terrore di raccontare, di controllare, di rappresentare – quelle non escono, le uccidiamo prima. O meglio: questo è quanto ho detto ai miei amici quando mi hanno consigliato di starmene zitto e non raccontare storie pericolose. Non dare alla gente nuove idee.
Questa è la mia storia sul raccontare storie che raccontano storie.
Questo è il mio modo di metabolizzare.
Dico ai lettori: prima raccontiamo una storia, prima riusciamo a tirarla fuori e a farne un cliché, e meno potere quell’idea potrà esercitare.
Fino al secolo scorso, le religioni ci hanno fornito di un luogo dove era possibile raccontare le nostre storie più tremende. Dove rappresentare le nostre più terribili intenzioni. Una volta alla settimana si potevano trasformare i propri peccati in un racconto e narrarlo ai nostri simili. Oppure a un’autorità, la quale ci avrebbe perdonato e accettato all’interno della nostra comunità. Ogni settimana ci si confessava, si era perdonati, si riceveva la comunione. Non ci si è mai smarriti al di fuori della comunità, poiché si disponeva di questo regolare permesso. Forse l’aspetto più importante della salvezza è disporre di questo spazio, di questo permesso e di questo ascolto – per potere esprimere le nostre vite in una storia.
E’ un luogo talmente sicuro da permetterci di apparire tremendi.
Ma appena le chiese sono diventate un posto dove la gente va per sembrare buona, invece di essere l’unico posto sicuro in cui permettersi il rischio di apparire tremendi, ecco che abbiamo perso quel luogo comune in cui potere regolarmente raccontare le nostre storie. E la salvezza, la redenzione e la comunione che questo raccontare permette.
Al posto delle chiese oggi si va alle terapie di gruppo, alle comunità di autoaiuto, nelle chat, sulle linee erotiche, perfino ai workshop tenuti da scrittori – per potere trasformare le proprie esistenze e le proprie malefatte in storie, per esprimerle, per darne una rappresentazione, e nel fare questo per potere essere riconosciuti dai propri simili. Rispediti nel gregge per un’altra settimana. Accettàti.
Avendo in mente questo: il nostro bisogno di trasformare anche la più orrenda componente delle nostre vite in storie; il nostro bisogno di raccontare queste storie ai nostri simili; il nostro bisogno di essere ascoltati, perdonati e accettati dalla nostra comunità – avendo in mente precisamente questo, che ne dite se fondiamo una nuova religione?
Potremmo chiamarla Chiesa delle Storie. Sarebbe un posto dove la gente viene a esaurire le proprie storie, un posto di performance in parole, musica o scultura. Una scuola in cui la gente può apprendere le migliori modalità per lavorare sulla rappresentazione, così da avere un maggiore controllo sull’espressione delle proprie storie e quindi sulle proprie esistenze. Un posto in cui esercitare un po’ di distacco dalla propria vita e riflettere, abbastanza distaccati da riconoscere comportamenti angoscianti o paure irrazionali o debolezze caratteriali, e iniziare a cambiare tutto questo. Dove scrivere e riscrivere il proprio futuro. Se non altro, un posto in cui la gente può venire ascoltata e così andare avanti.
Sarebbe un luogo talmente sicuro da permetterci di apparire tremendi. Di esprimere idee terribili.
Nella storia moderna, gente frustrata e deprivata di ogni potere si è ritrovata nelle chiese. Durante gli ultimi anni della segregazione razziale, la gente incontrava i propri simili nelle chiese e sapeva allora di non essere sola. I loro problemi personali non erano esclusivamente loro, ma anche di altri.
Questa Chiesa delle Storie fornirebbe tutti di un luogo in cui connettersi e incontrarsi. Qui tutti noi disporremmo di un luogo e di un tempo in cui regolarmente è permesso raccontarsi le storie. invece di ignorare questo bisogno o appagarlo da Starbuck’s nello spazio di un cappuccino – oppure indossando una barba finta e andando a piazzare le nostre storie abusivamente su un muro di museo – potremmo mettere a disposizione di tutti la possibilità e la struttura di cui hanno bisogno per incontrarsi. Per raccontare storie. Per raccontare storie migliori. Per raccontare grandi storie. Per vivere grandi vite.