La storia siamo noi, l’antologia edita da Neri Pozza nella collana Bloom per la curatela di Mattia Carratello (€ 17.50), è di fatto un’antologia che rientra a pieno nei parametri del memorandum sul New Italian Epic steso da Wu Ming 1. Il racconto della storia italiana, dal 1848 a oggi, avviene per scene topiche, momenti apicali, ritratti devianti, e termina con un esito che è fantascientifico e attuale. Gli scrittori che hanno partecipato a questa iniziativa editoriale sono quattordici: Antonio Scurati, Giosuè Calaciura, Antonio Franchini, Mario Desiati, Andrea Camilleri, Helena Janeczek, Sebastiano Vassalli, Laura Pariani, Sandra Petrignani, Laura Pugno, Giancarlo Liviano D’Arcangelo, Nicola Lagioia, Leonardo Colombati.
In chiusura, c’è il Miserabile sottoscritto, che si occupa di un momento storico particolare della storia nazionale: l’oggi e il presente avanzato, da cui il titolo, che è Oggi: gli Ultimi.
Pubblico qui, grazie al permesso dell’Editore, il racconto in versione integrale, invitando i Miserabili Lettori interessati a fidarsi del mio giudizio personale e ad andare a visionare in libreria l’antologia, che mi pare un momento importante nella vicenda della narrativa italiana contemporanea.
La versione integrale del racconto è in formato pdf. Basta cliccare sull’icona o sul link e il file è visualizzabile.
Da La storia siamo noi (Neri Pozza): un estratto del mio racconto
E’ uscita e credo farà scalpore (uno scalpore letterario, s’intende) la sorprendente antologia curata da Mattia Carratello (una delle migliori menti operanti in Italia da anni) per la collana Bloom di Neri Pozza. Si intitola LA STORIA SIAMO NOI [qui la scheda ufficiale], in cui quattordici scrittori raccontano l’Italia dal 1848 a oggi ed è una raccolta di racconti concatenati che rientra a pieno nei parametri del memorandum sul New Italian Epic tratteggiati da Wu Ming 1. Sotto l’accurata guida e il sapientissimo editing di Carratello, hanno partecipato a questa serie di istantanee su momenti topici della storia d’Italia, in ordine e argomento di apparizione:
Antonio Scurati: nascita di una nazione, le Cinque giornate di Milano.
Giosuè Calaciura: l’avvento di Garibaldi a Palermo.
Antonio Franchini: il mito e la tragedia di Caporetto.
Mario Desiati: l’amore ai tempi del fascismo.
Andrea Camilleri: il sogno impossibile di un separatista siciliano.
Helena Janeczek: i texani alla battaglia di Montecassino.
Sebastiano Vassalli: la guerra è finita, tornare a casa.
Laura Pariani: diario di una studentessa, anno scolastico 1968.
Sandra Petrignani: Roma, il caso Moro e lo sgomento degli affetti.
Laura Pugno: Processo per stupro e la violenza occultata.
Giancarlo Liviano D’Arcangelo: Ustica, il silenzio e il segreto.
Nicola Lagioia: quando Indro Montanelli lasciava il Giornale.
Leonardo Colombati: Gianni Agnelli, la morte di un re.
Giuseppe Genna: 2008, la fine del miracolo italiano.
L’antologia ha inaugurato il Festival delle Letterature di Massenzio, a Roma. In una serata gremitissima di lettori, undici scrittori hanno letto un estratto del proprio racconto. Assente il sottoscritto per disdette personali, un brano dal mio racconto è stato comunque interpretato. Riporto qui lo stralcio, avvisando che proprio di uno stralcio si tratta e che prossimamente, con l’eventuale benestare dell’Editore, editerò su questo sito il racconto nella sua interezza – questa discensio ad infera nei piani sotterranei alla Stazione Centrale di Milano, che culmina in apparizioni metafisiche e nella resa totale dello stampo umano, secondo la sua declinazione italica, che è attualmente a mio parere la punta avanzata della débacle della specie.
Qui di séguito, l’estratto.
Oggi: gli Ultimi
di GIUSEPPE GENNA
E’ il primo gennaio 2008, sono disperatissimo, matto e disperatissimo. Ho un euro di benzina nel serbatoio del motorino, il conto in rosso, Milano è allo zero climatico, l’aria che pesa, gli zero gradi mantegono la condensa bianca orizzontale e ubiqua. E’ la bruma che pare antica nebbia, ora cancerogena. Mi gelo mentre corro girando per circoli nella circonvallazione maggiore e so dove andare. So, io, sempre, dove, andare. Il luogo centrale, il perno di tutto. Due anni addietro, tra qualche ora, sfondai la porta di casa dove mio padre abitava, corroso dal tumore epatico eppure privo di sintomi, se non la peluria di pulcino che aveva sostituito la capigliatura brizzolata, dovuta alla chemioterapia inefficace, era sempre stanco, e lo trovai morto, cadavere irrigidito da un giorno, accanto al calorifero, secco come cospicui rami invernali di un albero sotto brina, gli arti terminali gonfi, il braccio sollevato, il cuore aveva ceduto, era morto in venti secondi, cinque minuti dopo avermi telefonato per farmi gli auguri di buon anno, la sera precedente, io ero nella festa inutile dei lucori borghesi, e lui moriva, solo. Solo. Solo.
Sono, io, sempre, da sempre, solo e, penso, sarò, sempre, solo.
Giro solo nel motorino che macina decametri di asfalto brinato, la giacca impermeabile non lo è perché acquistata dai cinesi in Ripamonti, il freddo intenso è pugni nelle ossa delle braccia, sullo sterno.
L’altra sera, in una trasmissione che si occupa di fantarcheologia e profezie e oggetti non identificati e crop circle, il presentatore Sandro Giacobbo, che avevo visto inscenare una seduta di ipnosi regressiva dove un’attrice ricordava una sua esistenza precedente e descriveva il marito frustarla nella stanza di un palazzo nobiliare nel Settecento – in quella trasmissione l’ex comico di “Drive In” Enzo Braschi, che interpretava il paninaro con slogan ossessivi a cui ossessivamente rispondevano risate preconfezionate, lui e altri esperti sudamericani, tutti: dicevano che nel 2012 il mondo finisce. Lo dice il calendario Maya, lo dicono le profezie Thai, lo dicono certi cartigli e geroglifici dell’Egitto faraonico.
Dalle sabbie tremule e incolte spiccavano le profezie guardando a Orione.
Ruoto a spirale nel gelo per la città, le pompe di benzina rare sono tutte serrate, è il giorno che inaugura il nuovo anno 2008, tutti sono a casa e pensano che ci sono nuovi obbiettivi, nuove possibilità per non conoscersi.
Taglio, seguendo certe rotte in diagonale.
Un vento a alcuni gradi sotto zero incontrastato sulle piazze vuote e contro i campanili, a tratti, come raffiche di mitra, disintegrava i cumuli di neve.
Climatologi di fama internazionale hanno presentato all’Onu un rapporto allarmante sulla premessa della fine del mondo, sulle modificazioni del geomorfismo terrestre, in forza dell’aumento del livello delle acque planetarie, dovuto all’intervento dell’uomo sull’atmosfera, per le emissioni dei cancerogeni inquinanti. Le mappe sono profezie a breve, il mondo tra cinquant’anni e vedevo on line le mappe pubblicate: lo Stretto di Gibilterra cancellato, l’Atlantico riversato nella pozza salmastra del Mediterraneo, la Spagna divorata nelle coste, l’Italia annullata, ne rimanevano cartigli minimi, sigilli di un passato che è stato così breve, così breve e sciacquato come acqua in torba: la Sardegna intatta, la Sicilia emersa per metà, la Penisola inesistente, solo acqua, fino ai monti liguri, divenuti isole, l’estensione del Piemonte dimidiata, la Lombardia intatta, il Veneto corroso, il Friuli indenne. Un’Europa dilagata al proprio interno, collassata su se stessa per la sostanza acquea, la pressione idrica ne farà un buco azzurro, non una supernova, uno squallore geografico intollerabile, poiché nella violenza della natura l’umano ravvede intensità di eroismo, e il collasso della nova è eroico, il buco nero è epico, ma la veloce corrosione delle coste, le migrazioni delle termiti umane, la sofferenza di duecentotrentamila morti in Asia per lo tsunami pochi anni orsono in questi giorni, era il 2004, è stato scordato, gli italiani volevano partire per le Maldive in vacanza, si informavano dei morti a galla nelle acque, lo tsunami: no, questo è un affossamento trascurabile, minimo, scatena un ludibrio appena avvertibile.
Taglio verso la Centrale, è lì che vado: la Stazione.
So dove andare.
La Centrale è un tempio massonico, ermetico, alchemico, a migliaia la trapassano, pendolari turisti viaggiatori occasionali, ogni giorno, e non comprendono di calcare i pavimenti irregolari, a più piani, le svolte labirintiche di un evento architettonico templare. Il messaggio iscritto come potenza nella pietra marmorea: non parla. Nessuno ascolta. Chi non ha occhi per vedere: è il suo mondo, questo. E’ il suo tempo.
Il tempo non esiste, la morte non esiste, ma una sostanza che regge il tempo e la morte, continua, fatta di presenza, che se potesse parlare, e può parlare solo se accetta di condensarsi entrando nel tempo e nella morte, direbbe semplicemente: “Io Sono”.
[…]
Davanti al binario 21: il Padiglione Reale.
Attenzione: ci si avvicina al sacello che sembra il segreto del male che questo tempio, muto, annuncia.
E’ sul lato orientale della Stazione, occultato, accanto alla cappella.
La fine è imminente. Non esiste fine. L’umano non è l’animale politico, è l’animale che pensa alla fine.
E’ rimasto, il Padiglione Reale, identico negli anni. Una varietà pressoché infinita di di marmi nello zoccolo, nelle pareti, nello scalone: il verdello di Verona e la pietra Valdagno, l’onice giallo di Chiampo e il paonazzetto di Carrara. E specchi. E velàri. E vetrate a composizione mosaica. E lampade in cristallo sfaccettato.
Lo scalone a doppia rampa con pròtomi leonine, scalini e balaustra in onice giallo, conduce al Salone delle Feste, ornato di colonne a capitelli corinzi e fregi e immani anfore di marmo verde Roja e una fontana in porfido e pezzi in stucco lucido stilizzato e più dentro, più dentro ancora, nel buio prima della cascata di luce dalla finestra immensa che dà su piazza Duca D’Aosta, ecco il centro oscuro, dimenticato, non visto: un pannello che si confonde perché realizzato in legno non pregiato.
Su questo pannello, occultato perché messo sotto lo sguardo di chiunque, con ossessione è fregiata la Svastica.
Nemmeno adesso che è detto questo l’umano comprende – l’italiano, meno ancora. L’umano di oggi si annoia: non è più umano – l’italiano, meno ancora. I paragrafi precedenti cosa c’entrano? E’ tutto connesso, ma per l’inumano è tutto scollegato – per l’italiano, più ancora. Archi voltaici di superfina elettricità corrono da un elemento all’altro, ma l’umano ora si annoia a leggere questo racconto – l’italiano più ancora.
L’umano non è l’animale politico, è l’animale che si annoia.
L’italiano è il culmine della noia.
[…]