H.P. Lovecraft: ‘L’Estraneo’

Congedo festivo all’insegna del raccapricciante e dell’irreparabile: l’animo tormentato e tormentoso del padre della moderna letteratura dell’orrore regala auguri distorti attraverso la lettura di un racconto integrale, in cui, come osserva Houellebecq nel formidabile saggio dedicato all’autore di Providence, “tutto proclama la presenza unbiversale del Male”, mentre si svolge il compito di “offrire un’alternativa alla vita in tutte le sue forme, costituire un’opposizione permanente, un permanente rimedio alla vita”, il che costituirebbe il compito più alto del poeta.

L’Estraneo

di H.P. LOVECRAFT

“Quella notte il Barone sognò molte sciagure,
E tutti i suoi ospiti guerrieri, in forma ed apparenza
Di streghe, larve e grassi vermi delle sepolture,
A lungo tormentarono i suoi sogni.”
(j. Keats)

Infelice chi dell’infanzia ha soltanto memorie di paura e tristezza. Sventurato chi, volgendosi indietro, non vede che ore solitarie trascorse in sale vaste e malinconiche, tappezzate di lugubri tendaggi e file esasperanti di libri antichi, o in desolate veglie in boschi crepuscolari fitti di immensi alberi grotteschi coperti da erbe, che agitano silenziosi in alto i rami contorti.
Tale sorte gli dèi hanno riservato a me… A me: l’attonito, il deluso; l’abbandonato, l’infranto. Eppure, stranamente pago, mi aggrappo in modo patetico anche a questi ricordi appassiti negli attimi in cui la mente minaccia di soverchiarli per richiamare l’’altro ricordo.
Non so dove sono nato: so soltanto che il castello era infinitamente antico e infinitamente orribile, pieno di ànditi oscuri e di alti soffitti ove l’occhio null’altro incontrava che ombre e ragnatele. Le pietre dei corridoi in sfacelo parevano sempre odiosamente viscide, e ovunque stagnava un lezzo esecrabile, come di cadaveri ammucchiati nell’avvicendarsi delle morte generazioni.
Non vi era mai luce, sicché solevo talvolta accendere qualche candela e contemplare la fiamma per trovar conforto. Né mai risplendeva il sole al di fuori, ché gli alberi giganteschi crescevano più alti della torre più elevata che fosse accessibile. Una sola torre, nera, si innalzava al di sopra degli alberi, riuscendo a penetrare il cielo sconosciuto: ma era diroccata all’interno e non si poteva ascendere se non arrischiando una scalata pressoché impossibile lungo la parete nuda, pietra dopo pietra.
In quel luogo devo aver vissuto per anni, ma non so misurarne il numero. Qualcuno di certo doveva provvedere a ciò che mi era necessario; tuttavia, non mi sovviene di altri esseri umani all’infuori di me, né di alcunché di vivo eccetto i topi silenziosi, i pipistrelli o i ragni. Credo che chi mi ha allevato dovesse essere paurosamente vecchio, giacché la mia prima idea di un essere vivente fu di qualcosa che mi rassomigliava in maniera caricaturale, ma che era deforme, avvizzito e cadente come il castello.
Non trovavo nulla di grottesco nelle ossa e negli scheletri che affollavano una parte delle cripte di pietra dei profondi sotterranei. Nella mia fantasia, accomunavo quelle cose agli eventi quotidiani, e le ritenevo assai più naturali delle immagini variopinte di esseri umani che scorgevo in molti dei libri ammuffiti. Da quei libri ho appreso tutto ciò che conosco. Nessun maestro mi ha mai stimolato o guidato, né rammento di aver mai udito voce umana durante quei lunghi anni, foss’anche la mia stessa voce; di fatto, benché dalle mie letture avessi appreso dell’esistenza del linguaggio, non mi è mai venuto in mente di parlare a voce alta. Anche il mio aspetto era al di fuori delle mie congetture, dato che nel castello non vi erano specchi, ed io per istinto mi consideravo simile alle figure giovanili che vedevo disegnate o dipinte nei libri. E che fossi giovane lo deducevo dalla esiguità dei miei ricordi.
Sovente uscivo a sdraiarmi oltre il putrido fossato, sotto i cupi alberi muti ove passavo ore ed ore a sognare di ciò che avevo letto nei libri; e con ardente desiderio mi figuravo tra folle di gente gaia nel mondo assolato che si apriva oltre la foresta infinita. Una volta tentai di fuggire da quella foresta ma, non appena mi fui allontanato dal castello, l’ombra si fece più spessa e l’aria più densa di insidie paurose; al punto da indurmi a tornare indietro, in corsa affannosa, per timore di smarrirmi in quel labirinto di notturni silenzi.
Così, tra crepuscoli infiniti, sognavo ed aspettavo, senza neppure sapere che cosa aspettassi. Finché, in quella solitudine fatta di ombre, la mia brama di luce divenne così intensa da non darmi più pace, e sollevavo le mani supplicanti verso la nera torre in rovina che, sola, valicava la foresta innalzandosi nel cielo sconosciuto. Alla fine, mi risolsi a scalarla anche a costo di precipitare, perché sarebbe stato certo preferibile scorgere il cielo e poi perire, piuttosto che vivere senza aver mai conosciuto la luce del giorno.
Nell’umida penombra, mi inerpicai su per la scala di pietra antica e consunta, quindi, giunto là dove si interrompeva, mi aggrappai pericolosamente ai piccoli appigli che conducevano in alto. Pauroso e terribile mi appariva quel cilindro di roccia, inanime e privo di scale; tetra, diroccata e desolata, la torre era resa ancor più sinistra dai pipistrelli spaventati che agitavano ali silenti. Ma ancor più paurosa e terribile era la lentezza con la quale procedevo; difatti, per quanto continuassi ad arrampicarmi, il buio che mi sovrastava non accennava a dissiparsi, e fui assalito da una sensazione nuova: un gelo malefico, come di una muffa spettrale e immensamente antica. Rabbrividii domandandomi perché non raggiungessi mai la luce, e fui tentato di guardare in basso, ma non osai farlo. Immaginai che la notte mi avesse sorpreso d’improvviso, e invano tastai il muro con la mano libera alla ricerca di una finestra dalla quale sporgermi a guardar fuori per cercare di farmi un’idea dell’altezza raggiunta.
All’improvviso, dopo un’interminabile cieca scalata su per il terribile precipizio concavo, sentii il mio capo urtare qualcosa di solido, e capii allora di essere infine giunto al tetto, o comunque ad una sorta di soffitto. Nelle tenebre, sollevai la mano libera e saggiai l’ostacolo, che si rivelò di pietra e inamovibile.
Intrapresi dunque un mortale circuito all’interno della torre, aggrappandomi ad ogni appiglio che la viscida parete mi offrisse, finché arrivai ad un punto che cedette alla pressione della mia mano. Mi volsi nuovamente verso l’alto e presi a spingere la lastra – o porta che fosse – con la testa, usando entrambe le mani per la terrificante ascesa. Non intravidi la più fioca luce sopra di me e, allorché portai le mani più in alto, compresi che per il momento la mia scalata era terminata.
La lastra era difatti una botola che conduceva ad una superficie di pietra di circonferenza maggiore di quella della torre sottostante. Indubbiamente, si trattava del pavimento di un alto e spazioso osservatorio. Con grande cautela mi infilai attraverso la botola e cercai di impedire che la pesante lastra ricadesse a chiudere l’apertura, ma non vi riuscii. E mentre, esausto, giacevo sul pavimento di pietra, udii l’eco spaventosa della sua caduta; mi augurai di riuscire a risollevarla se fosse stato necessario.

Convinto di trovarmi ormai ad un’altezza prodigiosa, molto al di sopra dei detestati rami del bosco, mi tirai su e, annaspando tutt’intorno, cercai una finestra dalla quale, per la prima volta, avrei potuto vedere il cielo, la luna e le stelle di cui avevo letto.
Dovetti disilludermi: le mie mani non trovarono che nicchie di marmo sulle quali erano disposte lunghe casse esagonali di dimensioni inquietanti.
Ero sempre più dubbioso, e mi chiedevo quali antichi segreti fossero racchiusi in quell’elevata dimora da tempo immemorabile separata dal castello sottostante; ad un tratto, inaspettatamente, le mie mani si posarono su un arco che sormontava un portale di pietra istoriato con bizzarre cesellature.
Lo tentai, e vidi che era chiuso; poi, con uno sforzo supremo, superai tutti gli ostacoli e riuscii ad aprirlo tirandolo verso di me. Subito fui pervaso dall’estasi più pura che abbia mai conosciuto, perché, rifulgente di un quieto bagliore, attraverso una grata di ferro arabescata e al termine di una breve scalinata che risaliva dal varco appena trovato, v’era raggiante la luna piena, che non avevo mai visto prima, se non nei sogni e in quelle visioni confuse che non osavo chiamare ricordi.
Immaginando di aver raggiunto il pinnacolo più alto del castello, presi a salire di corsa i gradini che avevo scorto oltre il portale; ma una nuvola velò improvvisamente la luna e inciampai, per cui dovetti proseguire nel buio con maggior cautela.
Le tenebre erano ancora fitte quando giunsi alla grata. Mi provai a spingerla con prudenza, trovandola non serrata. Decisi comunque di non forzarla, temendo di precipitare da quell’altezza vertiginosa alla quale ero asceso. Quand’ecco, che la luna riapparve.
Il più demoniaco di tutti gli sconvolgimenti, è quello che unisce il profondamente inatteso con il grottescamente incredibile. Nulla di ciò che avevo sofferto fino a quel momento poteva paragonarsi al terrore che scaturiva dalla bizzarra prodigiosità della visione che ora si apriva dinanzi ai miei occhi, e all’assurdo che essa implicava.
La scena in se stessa era semplice, e al tempo stesso sbalorditiva, perché si riduceva a questo: invece di una vertiginosa prospettiva di cime d’alberi viste da una elevatissima altura, al di là dell’inferriata si stendeva tutt’intorno, al mio stesso livello, nient’altro che il solido terreno, una compatta superficie di terra interrotta da lapidi marmoree e adorna di colonne anch’esse di marmo, sovrastate dall’ombra di un’antica chiesa di pietra la cui guglia diroccata riluceva spettralmente nel chiarore lunare.
Semincosciente, aprii il cancello e, barcollando, m’incamminai lungo il bianco sentiero di ghiaia che si diramava in due diverse direzioni. La mia mente, pur stordita e confusa, conservava tuttavia il desiderio febbrile della luce, e neppure la scoperta incredibile che avevo fatto avrebbe potuto fermare i miei passi.
Non sapevo, né mi premeva saperlo, se l’avventura che stavo vivendo fosse un sogno, magia, oppure frutto della follia. Non aveva importanza alcuna per me, che ero più che mai deciso a contemplare ad ogni costo lo splendore e la gioia. Non sapevo chi fossi, né che cosa fossi, e neppure a quale mondo appartenessi; tuttavia, mentre avanzavo solitario incespicando ad ogni passo, nacque in me la coscienza di una sorta di spaventosa memoria latente che rendeva il mio procedere non del tutto casuale.
Passai sotto un arco che delimitava quella estensione di lapidi e colonne, e mi ritrovai così a vagare in aperta campagna. Talvolta seguivo la strada visibile, ma a tratti me ne allontanavo, seguendo una strana ispirazione, per percorrere prati nei quali ruderi scheletrici testimoniavano l’antica presenza di una strada dimenticata. Attraversai a nuoto il fiume che correva rapido e vi scorsi muscose rovine diroccate, vestigia di un ponte da lungo tempo caduto.
Dovevano esser certamente trascorse più di due ore, quando giunsi a quella che sembrava fosse la mia meta: un antico castello ricoperto d’edera che sorgeva in un parco fitto di alberi. Mi appariva assurdamente familiare, eppure era dotato di sconcertanti stranezze.
Osservai che il fossato era stato riempito e che alcune delle torri erano state demolite, mentre nuove ali erano state aggiunte all’edificio per disorientare l’osservatore. Ma ciò che contemplai con sommo interesse e diletto furono le finestre aperte, magnificamente ravvivate dalla luce, dalle quali si udiva provenire l’eco della baldoria più gaia.
Mi accostai ad una di essa e guardai dentro: una compagnia di persone curiosamente abbigliate si divertivano e parlavano allegramente tra di loro. Per quel che ne sapevo, non avevo mai udito prima d’allora il linguaggio umano, sicché potevo soltanto intuire quel che dicevano. Alcuni di quei volti recavano espressioni che richiamavano alla mia memoria reminiscenze incredibilmente remote, laddove altre sembianze mi risultavano del tutto estranee.
Scavalcai allora la bassa finestra e penetrai nella sala inondata dalla luce più splendente e, ciò facendo, passai dall’attimo di suprema e fulgida speranza allo spasimo più oscuro della disperazione e della rivelazione. L’incubo fu lesto a venire: allorché fui nella stanza, si verificò immediatamente una delle più terrificanti reazioni che mai avessi concepito.
Avevo appena varcato il davanzale, che su tutta la comitiva si abbatté un improvviso e inatteso terrore di spaventosa intensità, tale da sfigurare ogni volto e indurre ogni gola ad emettere le urla più orribili. Tutti fuggirono all’impazzata, e in quell’ondata di panico e confusione, alcuni caddero in terra svenuti e furono travolti dai compagni che scappavano in preda al delirio. Molti si coprivano gli occhi con le mani precipitandosi in una fuga cieca e impetuosa, durante la quale rovesciavano mobili e andavano a cozzare contro i muri, prima di riuscire a guadagnare una delle numerose porte.
Le grida erano raccapriccianti; ed io, rimasto solo e inebetito nella sala splendidamente illuminata, raggiunto dall’eco della urla che si allontanavano, tremavo al pensiero della minaccia invisibile che forse si celava in agguato presso di me.
Ad una prima occhiata superficiale, la stanza mi parve deserta ma, allorché avanzai verso una delle alcove, mi sembrò di avvertirvi una presenza: un movimento furtivo oltre la porta incorniciata da un arco dorato che sembrava dare accesso ad un’altra stanza identica alla prima.
Mentre mi approssimavo all’arco, cominciai a percepire quella presenza in maniera sempre più distinta; fu allora che, col primo e ultimo suono che la mia gola abbia mai emesso – un ululato spaventoso che mi sconvolse nel profondo quasi quanto ciò che lo aveva provocato – contemplai nella sua più piena e terrificante vivezza l’inconcepibile, indescrivibile e indicibile mostruosità che, al suo solo apparire, aveva trasformato una festosa compagnia in un branco di fuggiaschi deliranti.
Quella cosa, non posso neppure tentare di descriverla. Era un miscuglio di tutto ciò che è immondo, innaturale, ripugnante, abnorme e detestabile. Era lo spettro demoniaco della putrefazione, della decrepitezza e della dissoluzione; la marcia, stillante effigie delle rivelazioni più empie, l’orrenda esibizione di ciò che la terra misericordiosa dovrebbe tenere per sempre celato. Dio sa che non apparteneva a questo mondo o meglio non vi apparteneva più – eppure, con immenso orrore, riconobbi nei lineamenti corrosi dai quali affioravano le ossa, la parodia aberrante e perversa della forma umana, e in quell’insieme putrido e disfatto, scorsi qualcosa di indicibile che mi agghiacciò ancor di più.
Ero pressoché paralizzato, cionondimeno riuscii a trovare la forza per un pietoso tentativo di fuga; arretrai vacillando di un passo, ma non infransi l’incantesimo nel quale il mostro muto e innominabile mi teneva prigioniero. I miei occhi, stregati da quelle orbite vitree che li fissavano disgustosamente, rifiutavano di chiudersi ma, offuscatisi misericordiosamente dopo il primo sguardo, scorgevano ora quella cosa terribile in maniera indistinta.
Mi provai a sollevare la mano onde celare quella visione, ma i miei nervi erano così storditi che il braccio non seppe obbedire appieno alla mia volontà. Il tentativo fu però sufficiente a farmi perdere l’equilibrio, sicché, ondeggiando, avanzai di alcuni passi per evitar di cadere. Allora fui improvvisamente e angosciosamente consapevole della vicinanza di quell’essere-carogna, del quale mi parve di udire il sordo e odioso respiro.
Ormai prossimo alla follia, fui tuttavia capace di allungare una mano per respingere la fetida apparizione che mi incalzava così dappresso, quand’ecco che, in un istante di orrore cosmico e di evento infernale, le mie dita toccarono la putrida zampa del mostro tesa al di sotto dell’arco dorato.
Non urlai, ma tutti i demoni malvagi che cavalcano i venti della notte urlarono per me, allorché, in quello stesso istante, fui travolto da un’improvvisa e compatta valanga di ricordi che mi annientarono l’anima. Seppi allora tutto ciò che era stato; il ricordo valicò gli alberi e il castello spaventoso e riconobbi l’edificio, pur trasformato, nel quale mi trovavo. Ma, più terribile di tutto ciò, riconobbi l’empia abominazione che mi ghignava davanti mentre ritraevo dalle sue le mie dita insozzate.
Per fortuna nel cosmo, accanto all’amarezza, vi è anche il balsamo per alleviarla, e quel balsamo è il nepente. Nell’orrore supremo, l’oblio mi soccorse, e l’esplosione di quegli oscuri ricordi svanì in un caos di immagini degradanti.
Come in un sogno, fuggii dal maledetto castello stregato e corsi via in silenzio nella luce della luna. Quando tornai al cimitero marmoreo antistante la chiesa e discesi i gradini, non mi riuscì di smuovere la botola di pietra, ma non ne fui rattristato, sì tanto avevo odiato gli alberi e l’antico castello.
Adesso corro con demoni beffardi nel vento della notte, e di giorno mi trastullo tra le catacombe di Nephren-Ka, nella valle cupa e sconosciuta di Hadoth presso il Nilo. So che la luce non è per me, eccetto quella della luna sulle tombe rocciose di Neb, e neppure per me è la gaiezza, eccetto quella delle abominevoli feste di Nitokris ai piedi della Grande Piramide; eppure, nella mia nuova e sfrenata libertà, accetto quasi con gioia l’amarezza dell’alienazione. Perché, pur se l’oblio del nepente ha lenito la mia sofferenza, ugualmente so di essere un estraneo, uno straniero in questo secolo e tra coloro che sono ancora uomini. E lo so da quando ho proteso le dita verso quell’obbrobrio entro la grande cornice dorata: da quando ho proteso le dita e ho toccato la fredda e dura superficie di uno specchio.

La storia gialla ne “Le teste”

teste_mediumQuando si definisce “pseudothriller” un libro, lo si può fare solamente a partire da una tradizione – altrimenti si è, a mio parere, unicamente offensivi nei confronti di un nobile genere. Qualunque spostamento di cosiddetto “genere” (un’entità abusata dalla critica, nella quale non ho mai creduto) ha la funzione di porre domande. Ciò accade in molti testi, da Poe a Lovecraft, i quali dimostrano non la paternità, bensì l’inesistenza stessa del “genere”. E’ affidandomi a questa tradizione, dunque, che utilizzo il termine “pseudothriller” e alla medesima tradizione ho attinto scrivendone uno.
Un esempio: si legge così ne Le teste e, in gran parte e soprattutto, ne L’ambulante di Peter Handke:

Di regola, a questo punto della storia gialla la persona in questione si sta disponendo a compiere un’ulteriore indagine o un altro interrogatorio. Ha già scoperto qualcosa che limita il novero delle possibilità, e sta per giungere a un risultato che potrebbe limitarlo ulteriormente. Ora, per sventare la minaccia che l’atto delittuoso possa essere indicato come atto da lui compiuto, l’assassino, che lo voglia o meno, deve nuovamente agire.
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Wu Ming 4: Stella del mattino

stelladelmattino_wuming4.jpgLeggi la conversazione con Wu Ming 4 su Stella del mattino
Come promesso in sede di anticipazione del libro, qualche considerazione personale su Stella del Mattino, esordio “solista” di Wu Ming 4, uscito per i tipi Einaudi Stile Libero (euro 16.80 – qui acquistabile con sconto di 5 euro).
Chi voglia conoscere i termini generali della trama (che è una vicenda corale), può leggerne i tratti qui. Farò riferimento a personaggi che presumono una conoscenza superficiale della materia del libro.
Stella del Mattino presenta anzitutto un soprendente switch-point rispetto a quanto il romanzo storico ha fatto finora in Italia, nell’arco temporale che un collega di collettivo di Wu Ming 4, e cioè Wu Ming 1, ha esplicitato nel suo memorandum sul New Italian Epic, ormai entrato a pieno titolo tra gli elementi stabili dell’odierno dibattito serio sulla letteratura.
La particolarità del romanzo di WM4 è duplice. E’ sicuramente una narrazione multilivello: c’è il piano storico, c’è il piano della distorsione narrativa della vicenda storica, c’è il piano della meditazione su cosa sia la letteratura e c’è il livello più profondamente esistenziale, che è l’universale, il senso dell’essere al mondo, ciò che è morale e storico. Già a pagina 61 esiste un avviso che allerta: “Le parole dànno significato alle cose. Era quella la chiave. Servivano parole inaudite. Non bastava un eroe, serviva un poeta. Cosa sarebbe stato Achille senza Omero?”. La vocazione epica è dunque consapevole, ma non solo – è consapevolmente da rivivificare, come testimonia l’accenno alle “parole inaudite”, poiché Omero lo abbiamo già udito. Questa consapevolezza viene svolta da Wu Ming 4 con una realizzazione letteraria che rifà un gesto arcaico. Viene cioè messa in osmosi l’epica con quello che doveva essere il romanzo psicologico di formazione, tradizione che invece ha creato un proprio spettro, esaurito il compito di creare l’immaginario e il mondo interiore della borghesia occidentale a inizio Novecento. Stella del mattino realizza dunque un doppio passo, come il dribbling che era tipico di Zidane: da un lato c’è l’intera tradizione a cui attingere (dall’epica fino al romanzo psicologico), e dall’altro c’è da creare una forma che, tenendo presente quella tradizione, emetta “parole inaudite”, fornisca gli elementi leggendari di una resurrezione del corpo di gloria del romanzo. Questo tentativo è pienamente riuscito, il che colloca il libro di Wu Ming 4 tra i più importanti del decennio, in una schiera che è ormai ben nutrita.
Come è stato già sottolineato altrove, la consapevolezza di quanto l’autore attua in Stella del mattino è data da una scena interessante: nel corso di una lezione sulla Poetica di Aristotele, il celebre passo sull’essenza e la funzione della poesia viene tradotto in maniera letterale, spostando tutto il significato del brano, per cui poiesis diviene fare – cioè creare artisticamente ma anche artigianalmente, e soprattutto agire, ottenere degli effetti (anche l’illusionista ottiene degli effetti, sia chiaro). E’ nella Poetica che Aristotele osserva come la tragedia derivi dall’epica, ed è sempre nella Poetica che enuncia le regole della tragedia classica, le celeberrime unità di azione, tempo e luogo. Stella del mattino rispetta tali regole: tutto si svolge a Oxford, in un arco temporale definito. Ovviamente non tutto: per fare sentire queste unità, bisogna violarle parzialmente. Ecco che dunque partono alcune diversioni significative: scene emblematiche della misteriosa vicenda di Lawrence in Arabia, che gli è valsa la fama di eroe. Queste scene sono caricate, conservando un’appassionante leggibilità, di potenza onirica, cioè di valore narrativo allo stato puro. E il passaggio tra un capitolo e l’altro, ognuno dei quali ha un protagonista, mette in risalto il fatto che siamo in un cerchio di sguardi e di un numero limitato di personaggi (Lawrence, Graves, Tolkien, Lewis; sotto cui scorre, vena carsica narrativa che unisce e ribalta ogni volta le posizioni acclarate e cristallizzate, quell’incarnazione del femminino, che sintetizza sconvolgendo l’ordine delle cose, che è Nancy, la consorte di Graves: non una moglie, ma una donna, come sottolinea di continuo WM4, quasi usando un omerismo – ma, di ciò, più avanti). Riassumendo: ciò che appare psicologico in questo romanzo dove tutto si gioca sul ricordo e sulla percezione (che cos’è Lawrence per ognuno dei tre giovani scrittori e cosa sia Lawrence per se stesso, di fronte al coro immane del “pubblico planetario” verso cui è stata proiettata ad arte la sua icona), lo psicologico non è in realtà mutuato dal romanzo borghese, ma direttamente dalla tragedia classica, ed è per questo motivo che ci troviamo di fronte a esemplarità psichiche, esattamente come in Eschilo o in Sofocle. Ciò permette, proprio in linea con Aristotele, di connettere la psicologia all’andamento epico, elemento quest’ultimo che è indiscutibile (il mentore di Lawrence, iniziandolo a un viaggio in Medio oriente, conclude il capitolo con una battuta pesante: “Sorga un cavaliere!”). La psicologia tragica è un’evoluzione, uno sviluppo della piscologia bidimensionale e universale che ha luogo nell’epica. Il gesto psichico di Achille sul cadavere di Patroclo figlia direttamente le reazioni psichiche di Antigone, che fanno la tragedia. Lo sviluppo di questa psicologia avviene in estensione, ma viene mantenuta la profondità, che l’introspezione novecentesca farà evaporare, tranne che nella linea junghiana, la quale tiene presente la comunanza di un patrimonio archetipico a cui tutti noi umani attingiamo.
Stella del mattino è un’epica contemporanea condotta secondo apparenti canoni di romanzo storico, ma è anche una tragedia contemporanea che usa la storia come allegoria universale. Prima di individuare il nucleo tragico del romanzo, sarà utile ravvedere l’utilizzo di questa profonda allegoria in termini di personaggi, azioni e reazioni che accadono in quel cerchio magico che è Oxford dopo la Prima guerra mondiale.
Vorrei evidenziare qui alcuni punti:
– Ogni personaggio percepisce Lawrence in maniera diversa, a seconda di proprie declinazioni temperamentali. Lawrence diviene in pratica un contenitore proiettivo, che però è tale perché fornisce agganci storici e personali nel rapporto con ognuno dei tre personaggi maschili in questione (appunto Tolkien, Graves e Lewis). Tuttavia, qualcosa accomuna i tre personaggi e loro stessi a Lawrence: sono tutti reduci di guerra. Sono tutti traumatizzati, a vario modo, dalla condizione transitoria che hanno esperito e che vorrebbero dimenticare e recuperare al tempo stesso – cioè la condizione di guerrieri. Non basta. Ognuno di loro non ha padre: il padre è una figura svilita, disturbante, assente. Non sono aduso all’utilizzo di stilemi interpretativi di ordine psicanalitico, ma non trovo una metafora migliore per dirlo: è come se il complesso d’Edipo qui avvenisse in base a un formidabile spostamento di Laio, che è una autentica sostituzione – essendo Laio non più il vero padre, bensì la realtà di guerra e anche la realtà che segue dopo la fine della guerra. Ciò unisce i personaggi in una battaglia postuma e anticipatoria del futuro, e in molti casi rievoca un’altra situazione tragica, questa volta moderna, che è quella di Amleto di fronte allo spettro paterno. Lawrence, di volta in volta, assume i contorni di questo spettro gigantesco, in cui ogni possibilità è inclusa e dal cui riflesso proiettivo spesso nascono le azioni, che sembrano reazioni. Del resto, Lawrence è l’unico maschio dei quattro a non essere padre o a non svolgerne di fatto le funzioni (Lewis non è padre, ma è come se lo fosse, per una sua particolare situazione sentimentale).
– Allestendo questa scena tragica collettiva, che è retta da uno shangai di sguardi in progressione per tutto il libro, Stella del mattino allestisce una mappatura delle funzioni mentali tutte. Ogni personaggio è ciò che lo psicoanalista Franco Fornari (dopo Musatti, l’autentico genio della psicoanalisi italiana) chiamava “coinemi”: pattern interni che compongono una scena intima, variabile individualmente eppure sempreuguale, di ciò che viene definito “famiglia interna”. Il rapporto tra le competenze della mente (emblematizzata da questa comunità di personaggi tragici) e la realtà è di fatto tutto il libro.
– Sotto questa particolare lente di lettura, emerge gigantesca la figura di Nancy, che da sola incarna la componente femminile, la quale si riverbera nella femmineità di certi atteggiamenti maschili, e non nel senso di un’omosessualità latente: è precisamente la femmineità amletica. Nancy è, insieme a Lawrence il vero polo che fa la tragedia di Stella del mattino: la scena del loro incontro è semplicemente agghiacciante dal punto di vista emotivo. Nancy è un personaggio a tutto tondo, che allegorizza l’emancipazione femminile, anticipandola anche nel fallimento, ma è pure la figura musaica che il suo stesso consorte, anni avanti, fenomenologizzerà nel suo prodigioso saggio di antropologia mitico-letteraria, La Dea Bianca. Non si prescinde mai dalla potenza dello sguardo, che pare giudicante, di Nancy. Il radicamento di lei nelle cose e nel giudizio è il controcanto polarmente opposto al tremolio di Lawrence, un uomo che cerca se stesso, che non sa se automitizzarsi o meno, che comunque vuole sfuggire alla mitizzazione concresciutagli addosso dall’esterno come una falsa identità. Ma, soprattutto, Lawrence è un uomo che ha un atteggiamento ambiguo e conflittuale con la madre, così come l’ha con il fantasma della donna amata che doveva sostituire la madre e riparare le storture di un rapporto scaduto – e che è morta. Nancy è madre, ma non è semplicemente moglie. Nancy giganteggia anche in assenza. Nancy è la salvatrice essendo l’affossatrice, colei che conserva la vita ribaltando l’ordine dei saperi e delle conclamate certezze. La punta più avanzata dell’allegoria-Nancy è Gaia: il femminile che può salvare il pianeta devastato dal conflitto, dal trauma di una battaglia che sembra non avere fine. Nancy si spinge oltre il nostro futuro.
– Lawrence, infine, è l’attività di percezione del “se stesso”. Ogni volta che ragiona su se stesso ed è prigioniero della propria storia, tentenna, perché non sa in quale direzione e con quale struttura raccontare questa storia e principalmente raccontarsela. In questo, Lawrence è l’identità psicologica che si trova davanti alla sbalorditiva attività della coscienza, che non è psicologica. Lawrence emblematizza, tra le molte cose (la lettura che sto fornendo è assai parziale rispetto ai moltissimi elementi del libro), il tremolio dell'”io” davanti alla domanda “chi sono io?”. I momenti di svolta in cui Lawrence manifesta mutamenti pratici, effettivi, incisivi nel suo presente sono sempre spettacolari colpi di scena: provengono da una sua assenza, anche fisica, rispetto alla scena di Oxford. Inoltre, Lawrence è ricordato o ricorda secondo canoni onirici. Lawrence stesso allegorizza la totalità degli stati di coscienza dell’umano: la veglia (cioè il rapporto con la sua storia, la sua identità, con l’azione da compiersi), il sogno (la narrazione di squarci di ciò che è successo nel corso della guerra contro i Turchi) e il sonno profondo senza sogni (la zona buia dove Lawrence non c’è e da dove emerge di colpo in veglia, con soluzioni e decisioni già assunte e realizzate o da realizzarsi assolutamente).
E’ alla luce di questi elementi che è possibile osservare in quale senso Stella del mattino rinnova il tragico: il nucleo tragico del libro è l’ambiguità. Il “sì” e il “no” sono dati contemporaneamente. I cieli sono muti o, se parlano, parlano con il proprio emblema più ambiguo, cioè la “stella del mattino”, vale a dire Lucifero, l’apportatore di luce che è però consolidatamente la scimmia del divino. In questo ring tragico, è data ogni possibilità di divenire (questo romanzo potrebbe prendere qualunque direzione, in primis quello di saga infinita), poiché la tragedia è questo: ispira aristotelicamente il timore di spezzare la propria identità e la pietà naturale che coagula ogni comunità, poiché ognuno sulla scena è legato allo sguardo dell’altro e questo rimanda alla totalità delle possibili azioni da compiersi. Mi riconnetto alla recensione di Monica Mazzitelli, che traduce ciò che io chiamo “ambiguità” con il superamento dei generi, sessuali e letterari.
E, come ogni tragedia, Stella del mattino presenta elementi che nutrono una riflessione sotterranea circa il potere delle Storie e della narrazione. Dalle tattiche di guerra e guerriglia rivoluzionate da Lawrence alla sua incertezza sul racconto della propria storia, dalla germinazione delle fantasie letterarie di Tolkien, Graves e Lewis, fino alle prodigiose traduzioni rifatte da WM4 delle poesie citate (in particolare, l’exergo dei Sette pilastri), questo è un libro che costituisce una potente meditazione circa il potere delle parole, circa a relazione tra la lingua delle Storie e la storia (cioè la realtà), circa la tradizione che il Novecento ha cercato di non vedere (quella fantastica), circa l’emanazione politica e cioè comunitaria che irradiano le parole stesse. Tutto ciò è meticolosamente non occultato, ma reso istantaneo al racconto, in modo che è assolutamente impossibile leggere questo romanzo come un testo di metalivello letterario: qui il racconto stesso è automaticamente e senza sforzo meditazione sulla letteratura. Nessun francesismo, nessuna zavorra teoretica.
Tutto ciò conduce immancabilmente a una guerra e questa battaglia da Armageddon è il confronto tra la letteratura e lo Spettacolo modernamente inteso. Il conflitto tra Lawrence, che al tempo stesso è guerriero e icona mediatizzata (forse la prima della storia moderna spettacolare) e scrittore, incarna questa battaglia per una riscrittura del mito, per una riappropriazione del mito stesso quale variabile centrale ma apertissima (cioè positivamente ambigua) della comunità. E’ l’enunciazione del fondamento aristotelico dell’uomo come animale sociale, che è tale in quanto animale mitico, capace di mitologia.
Leggere Stella del mattino espone a un magnetismo bennoto ai lettori: non si può fare a meno di voltare pagina. Non ci si riesce a sottrarre dal leggere il capitolo che segue a quello che si è appena terminato. E’ qualcosa di più potente dell’effetto che producono certi serial televisivi, come 24: una puntata via l’altra, la necessità di vedere tutto nel minor tempo possibile. Solo che nel romanzo di Wu Ming 4 non è la suspence a imporre questo magnetismo o, se lo è, è una suspence particolare, assai simile a quella di certo King o di certo Lovecraft, che sono riferimenti letterari del tutto esogeni al libro in questione. Che si consiglia di leggere avidamente, in un tempo in cui la stella del mattino non si vede in cielo, a causa delle emissioni inquinanti industriali e mentali dell’uomo occidentale, che in questo romanzo epico e tragico ha un ritratto esaustivo, totale.