Considerazioni non inattuali sulla politica razzista di #Salvini

E’ faticoso, ma è anche doveroso dal punto di vista personale e politico, tornare quotidianamente a decostruire l’orrendo racconto che il ministro delle Interiora, con il tatto abituale del suprematista e dello xenofobo, emette altrettanto quotidianamente, a favore di una nazione che ha assorbito e metabolizzato la malvagità e l’inciviltà, traducendosi in maggioranza del Paese, non soltanto parlamentare, ma anzitutto psicologica e antropologica. Bisogna giornalmente occuparsi e preoccuparsi di una gragnuola di crudeltà e di opzioni regressive, che non sfiorano la disumanità: la penetrano, la compiono, la mettono in circolo nel sistema sanguigno della nazione. Non mi sarei mai immaginato, e sottolineo l’avverbio, di ridurmi a commentare e confutare l’inesprimibile, che ieri con la nonchalance del genocida culturale ha pronunciato Matteo Salvini, questo sfrenato suprematista più pallido che bianco. Dall’alto del loro patrimonio razziale, che è profondo come le più ombrose valli lombarde, a cui hanno peraltro strizzato l’occhio finora, prima di scoprire che l’oscurantismo e l’esclusivismo dei valligiani padani non è solo celtico, le interiora del ministro si sono presentate ieri in tv, con un sottopancia da emittente privata e da emissione deprivativa, enunciando la necessità di un censimento, che definire razzista sarebbe eufemistico, se non fosse invece antiumano, antidemocratico, anticristiano, antiliberale: antitutto. E’ stato in grado di toccare, questo propalatore dell’incubo, tutti i nuclei fondanti della vita democratica. Si è stati costretti a vedere un tg nazionale, quello diretto da Enrico Mentana, intervenire direttamente ad allertare la memoria collettiva, mostrando la scheda del censimento razziale a cui furono sottoposte la persona e la famiglia della senatrice Liliana Segre. Enrico Mentana, che è un giornalista e un intellettuale estremamente cauto e capace di rendere conto della voce che proviene dalla totalità dei corpi sociali e delle etichette partitiche, ha in questo modo compiuto ieri un’opera civile così coraggiosa, da lasciarmi sbalordito. Gliene sono grato e bisognerebbe che tutti i “riflessivi” della nazione lo fossero insieme a me. Stiamo vivendo un punto apicale nella vicenda storica della Repubblica italiana. Una delle caratteristiche precipue di questo passaggio così critico è che la consapevolezza storica è andata in fumo, spazzata via dalla deiezione ventilatoria collettiva. L’appiattimento dell’istanza politica in una comunicazione istantanea, visceralmente odiosa e capace di attivare le peggiori risorse emotive in chiunque, è una strategia collaudata dal fronte di questa edizione internazionale di “Nightmare”, che ha per protagonista un Freddy Krueger lombardo e lipidico. Che si isoli un’etnia, e guarda caso si tratta dei Rom, dopo i neri, è un riflesso condizionato dell’estrema destra metastorica, quanto una deliberazione orientata e malevola dell’attuale compagine governativa. E’ tutto pericoloso, a partire da questa volatilizzazione della memoria. Non è un caso che l’argine democratico si sostanzi negli interventi dei pubblici commentatori, come Mentana: sono coloro che esercitano la memoria stessa e ne diffondono le dinamiche. Come ripeto da sempre, questa funzione dovrebbe essere assolta dalla classe politica, tanto più se si intesta il discorso democratico e progressista – ma questa classe sta clamorosamente mancando di intervenire e di mobilitare il proprio popolo, il che la designa come responsabile di un deficit impressionante, storico e purtroppo non impensabile, se solo si fosse guardato alle coerenti premesse di un sillogismo che concludeva nell’orrore sociale. D’altra parte, colui che si gloria di essere cofirmatario di quel contratto che annulla la contrattualità democratica stessa, ovvero Luigi Di Maio, non è nemmeno in grado di comprendere a cosa abbia messo in calce la propria firma. Il Movimento 5Stelle intero, il quale per anni ha ululato che destra e sinistra non sono più categorie con cui interpretare il mondo, soffre profondamente quando si trova a contatto con politiche di destra esplicita ed estrema. L’identità ideologica era un lusso da azzerare, secondo l’ingenua avanguardia grillina, che il conto all’albergo a 5 stelle prima o poi devono pagarlo. Sono insostanziali, vacui, dispersi in frange prive di un centro valoriale e dunque di una strategia. Si dichiarano entusiasti, incappano in gaffe, appaiono disorientati. Se non è frutto di disorientamento, la morbida interlocuzione offerta ieri a Salvini dal mascelluto leader pentastellato, per cui la schedatura dei Rom è *soltanto* incostituzionale, diventa una malizia anche peggiore della bile vomitata dal pigliatutto leghista: la schedatura dei Rom non si deve fare e nemmeno pensare non perché non prevista dalla Costituzione, ma perché è fuori dal cerchio prestabilito dell’umanità. Il vuoto pneumatico in cui sembrano muoversi a casaccio i pensamenti elementari (elementaristi) del popolo grillino, e della sua emblematica dirigenza, sfiora il grottesco, che è sempre un carattere del tragico – si veda il pranzo “a sua insaputa” del proprietario del blog democraticodiretto, il quale cena con un maggiorente del suo partito, nemmeno indagato, ma proprio arrestato. Questo governo è tragicomico: tragico dal lato Salvini, comico nel versante impersonato dal partenopeo Chance il Giardiniere. Queste considerazioni non attenuano la drammatica rilevanza degli spropositi disumani, irradiati da Salvini con le sue aberranti considerazioni da pessimo salotto televisivo. Si sa, si *deve* sapere: la strategia, volta all’abbattimento dei fondamentali del vivere civile, prevede canonicamente l’isolamento e la criminalizzazione di una minoranza. Così è dalla notte dei tempi e la legione leghista riproduce con entusiasmo questo schema comportamentale e politico, le cui conseguenze si misurerebbero in un tempo lungo, se non fosse che ora il tempo sta accelerando. Pubblico qui un link al rapporto che la Commissione del senato per i diritti umani elaborò ad altezza 2011: lo si legga, se si vuole argomentare sullo stato di vita della minoranza di origine Rom e Sinti. Ciò che pertiene a chiunque abbia a cuore la democrazia e la sua naturale dialettica è proprio divulgare una simile oggettività, legata a numeri e argomenti raccolti sul campo. E’ più necessario che mai, perché i fondamentali della democrazia italiana (tanto quanto di quella statunitense o ungherese o polacca) sono concretamente in pericolo. Ciò va ammesso senza esitazioni e senza allarmismi esasperati. E va portata a compimento la supplenza di ciò che è mancato in questi decenni: un’educazione collettiva di base, un’attivazione non accademica o astratta di ciò che la storia è stata e continua a essere – una sfida antropologica a cui il centrosinistra ha mancato fatalmente di di assolvere, con i risultati che misuriamo in queste abominevoli settimane di agenda politica, imposta da un concorrente di “Doppio slalom”, ritrovatosi al potere con la missione di portare allo zero di Kelvin i tassi di democrazia nel Paese.

Vi faccio vedere come si muore da italiani

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Nella sensazione di fascio e di sfascio progredisce regredendo infinitamente quella cosa antropica che si dice Italia. Il suo linguaggio è impazzito da tempo. Perfino D’Annunzio non si attendeva di entrare nell’inesistente pantheon nazionale per avere inventato il nome di un grande magazzino, La Rinascente. La sensazione di essere in prossimità del pantheon, in un istante prolungato ma fatale, in una crucialità priva di pensieri e stranita davanti all’avello dei grandi su cui si è sputato sempre nei secoli dei secoli: questa imminenza di una gloria postuma vissuta adesso e consumata con una sfrenatezza che non nasconde l’indifferenza a tutto e tutti: ecco ciò che esprime lo sguardo sazio di quell’antibuddhismo atipico che è la cifra italiana. Se si sloganeggia avanguardisti e operaisti non essendo né all’avanguardia né facendo l’operaio; se si plaude e si gigioneggia insaturandosi dell’avant-spettacolo messo in scena da due coglioni radiofonici, con tanto di gridolini e messa alla berlina del costume national, in una mise en abyme prossima allo stupro di se stessi; se si fanno i gridolini mentre si ciuccia il biberon, esaltandosi perché un imbecille fa il saluto paranazista davanti a un cane in televisione; se si prende a modello la punta più avanzata della decadenza spettacolare mondiale, per farne lo stile di un dominio planetario che nessuno vede e nessuno sente e soprattutto nessuno è in grado di immaginare; se si giunge a sbandierare un marsupiale australiano come espediente azzeccagarbugli e da burocrazia parlamentare, per decidere della vita di un milione di persone – se si fa questo, si ha la certezza di vivere in una landa antropicamente sconvolgente e sconvolta, in preda a deliri esorcismi carnevali superstizioni assassinii frollature sciacallaggi impunità sconquassi liquefazioni putridume indegnità orrori torture devastazioni barocchismi gogne dittature porcilaie bassoventralità barbarie cafonaggini coglionerie turpiloqui scempiaggini tradimenti superbie avarizie lussurie invidie gole ire accidie cupidigie torti torpori ingordigie sfrenatezze occlusioni prigionie massacri stragi impudicizie viziosità viltà morti: così all’infinito. Questa non è la vita: è l’Italia. Questa è la pratica e l’esito e l’intenzionalità fascista, che l’Italia ha inventato, essendo il fascismo il suo genoma da sempre e per sempre.
Mi fa schifo essere italiano, detto che mi fa schifo considerarmi appartenente a qualunque civiltà si esprima in un leviatano o a qualunque nazione si eriga sull’idea di confine, interiore o esteriore, poiché il confine è un’estremalità che abbatte l’estremità, cioè la natura angelica dell’umano. Però in particolare l’Italia mi fa schifo. Mi fa schifo il me stesso, ma per ben altri motivi. Dell’Italia, della sua supponenza criminale e criminogena, della sua antropologia disgustosa, del suo fascismo metastorico io mi vergogno. Fa vomitare tutto, ogni presente italiano mi fa vomitare, l’acribia sterminatrice con cui si avversano i vita i geni da Dante a Leopardi a Bene. Sembra che l’italianità non sconti nessuna nemesi, forse perché essa stessa è la nemesi. Non c’è fine alla fine? Sì, c’è, ci sarà: che non ci sia stata, non è un argomento. Ciò che inizia finisce e il destino dell’Italia è finire la fine, finire se stessa. Quel giorno il cosmo proverà un brivido gravitazionale di sollievo.

[ciò veniva scritto in margine all’indecente “dibattito parlamentare” sul DDL Cirinnà, addì mercoledì 17 febbraio 2016]