Nella sensazione di fascio e di sfascio progredisce regredendo infinitamente quella cosa antropica che si dice Italia. Il suo linguaggio è impazzito da tempo. Perfino D’Annunzio non si attendeva di entrare nell’inesistente pantheon nazionale per avere inventato il nome di un grande magazzino, La Rinascente. La sensazione di essere in prossimità del pantheon, in un istante prolungato ma fatale, in una crucialità priva di pensieri e stranita davanti all’avello dei grandi su cui si è sputato sempre nei secoli dei secoli: questa imminenza di una gloria postuma vissuta adesso e consumata con una sfrenatezza che non nasconde l’indifferenza a tutto e tutti: ecco ciò che esprime lo sguardo sazio di quell’antibuddhismo atipico che è la cifra italiana. Se si sloganeggia avanguardisti e operaisti non essendo né all’avanguardia né facendo l’operaio; se si plaude e si gigioneggia insaturandosi dell’avant-spettacolo messo in scena da due coglioni radiofonici, con tanto di gridolini e messa alla berlina del costume national, in una mise en abyme prossima allo stupro di se stessi; se si fanno i gridolini mentre si ciuccia il biberon, esaltandosi perché un imbecille fa il saluto paranazista davanti a un cane in televisione; se si prende a modello la punta più avanzata della decadenza spettacolare mondiale, per farne lo stile di un dominio planetario che nessuno vede e nessuno sente e soprattutto nessuno è in grado di immaginare; se si giunge a sbandierare un marsupiale australiano come espediente azzeccagarbugli e da burocrazia parlamentare, per decidere della vita di un milione di persone – se si fa questo, si ha la certezza di vivere in una landa antropicamente sconvolgente e sconvolta, in preda a deliri esorcismi carnevali superstizioni assassinii frollature sciacallaggi impunità sconquassi liquefazioni putridume indegnità orrori torture devastazioni barocchismi gogne dittature porcilaie bassoventralità barbarie cafonaggini coglionerie turpiloqui scempiaggini tradimenti superbie avarizie lussurie invidie gole ire accidie cupidigie torti torpori ingordigie sfrenatezze occlusioni prigionie massacri stragi impudicizie viziosità viltà morti: così all’infinito. Questa non è la vita: è l’Italia. Questa è la pratica e l’esito e l’intenzionalità fascista, che l’Italia ha inventato, essendo il fascismo il suo genoma da sempre e per sempre.
Mi fa schifo essere italiano, detto che mi fa schifo considerarmi appartenente a qualunque civiltà si esprima in un leviatano o a qualunque nazione si eriga sull’idea di confine, interiore o esteriore, poiché il confine è un’estremalità che abbatte l’estremità, cioè la natura angelica dell’umano. Però in particolare l’Italia mi fa schifo. Mi fa schifo il me stesso, ma per ben altri motivi. Dell’Italia, della sua supponenza criminale e criminogena, della sua antropologia disgustosa, del suo fascismo metastorico io mi vergogno. Fa vomitare tutto, ogni presente italiano mi fa vomitare, l’acribia sterminatrice con cui si avversano i vita i geni da Dante a Leopardi a Bene. Sembra che l’italianità non sconti nessuna nemesi, forse perché essa stessa è la nemesi. Non c’è fine alla fine? Sì, c’è, ci sarà: che non ci sia stata, non è un argomento. Ciò che inizia finisce e il destino dell’Italia è finire la fine, finire se stessa. Quel giorno il cosmo proverà un brivido gravitazionale di sollievo.
[ciò veniva scritto in margine all’indecente “dibattito parlamentare” sul DDL Cirinnà, addì mercoledì 17 febbraio 2016]