Garzanti compie un’opera necessaria quanto potente: la pubblicazione delle poesie di Mario Benedetti in unico volume. È fondamentale il corpus di questo poeta italiano, di origine friulana, la cui capacità di unire ricerca esistenziale e slancio metafisico trova un corrispettivo nell’abilità di tradurre un intero canone poetico in un codice sorprendente, che installa questi versi nel cuore della tradizione contemporanea. Per me, insieme a Milo De Angelis e ad Antonio Riccardi (quest’ultimo è autore di una densa quanto folgorante intuizione), Mario Benedetti è l’interprete principale della letteratura italiana degli ultimi trent’anni. La sua lallazione si distende quasi a cercare il prosastico, facendo proliferare un universalismo integralista nelle cose stesse e tra sillaba e sillaba. Si tratta di una scrittura imprescindibile e continuamente rivelativa, una tappa non eludibile della poesia di questi anni, della poesia italiana sempre. Il libro, che colma una mancanza clamorosa dell’editoria nostrana, sarà disponibile dal 12 settembre. Immensa gratitudine a Garzanti!
Tre poesie del poeta italiano Mario Benedetti
Non sento niente. Verrà il fegato con i suoi spilli,
o un polmone rauco, labbra addossate alla mandibola.
Ti ho baciata piano, dopo le donne.
Ti ho baciata piano, prima delle donne.
Sono stati porpora gli anni, e a nodi sullo sterno.
Si staccavano figure dal cervello, e un altro orrore.
E’ passata la vecchia di Trasaghis con le zolle bianche.
Non ho nulla, soltanto quello.
* * *
Era la madre e sua madre, nel ricordo.
Risentiva parole, nelle proprie parole.
Io, soffio addensato a un’ombra di cera,
a un’ombra di sagoma…
Velame di posti. Viti, uova, radicchio,
aringhe, polenta. Maria, la nonna.
Viti di viti, uova di uova…
Carezzevole buio, sì, sono io.
* * *
physical dimensions
Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.
L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.
Qui.
Oh.
da “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008)
Su una poesia di Mario Benedetti / 1
Rilessioni brevi su una poesia da “Tersa morte” di Mario Benedetti.
Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.
«L’ambiguità sintattica, il tremolio semantico, l’equivocità spesa sul piano lessicale, non soltanto della significazione, la fibrillazione ritmica, lo stato di sospensione tra mondo interno e supposto mondo esterno oltreché tra lingua d’uso (in uso quando?) e lingua letteraria (quale letteratura?, quale poesia?, e dunque: quale canone?): il potente apparato immaginale e fonicosimbolico allestito da Mario Benedetti, in questo testo tratto dal suo ultimo libro, “Tersa morte”, costituisce uno degli assalti più radicali che la nostra contemporaneità italiana ha condotto, in ambito testuale, all’idea stessa di umano, e cioè di storico, e al contempo di metafisico, cioè di reazione alla realtà come fuoriuscita dallo storico. Non sarà inutile ragionare sul titolo del volume, per considerare che il primo evento linguistico che il poeta intende fare incontrare al lettore è una “tersità”, però in stato di aggettivazione. Questa scelta di posporre il sostantivo reggente è fondamentamentale nella visione della lingua e del mondo in Benedetti: si tratta di un’anticipazione aggettivale che, in una scuola di ricursione storico-stilistica frequentata in giovane età e che ha contribuito alla formazione dell’autore stesso, viene eletta a rappresentante di una linea che, con ovvie discontinuità e per rude seplificazione, corre lungo la tradizione italiana dal petrarchismo a Leopardi, poeta centrale in questa terza raccolta, che chiude un percorso in tre stazioni, con l’apicalità, tutta ancora da affrontare criticamente, della seconda raccolta, “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008). La tersità come connotazione della morte, non come quintessenza della morte stessa. Se così fosse, il paratesto indicherebbe un posizionamento rigido e rigoroso, complice il canone, della parola e del fenomeno esistenziale, in un gioco di rimando che Mario Benedetti ha sempre coltivato come poetica personale, ovverosia soggettiva, la cui oggettività è ancora tutta da confermare. E invece la potenza della separatezza, cioè quella dislocazione extratestuale che è il titolo, serve a Benedetti a slogare ulteriormente, e cioè indefinitamente, ogni ossificazione e ogni certezza posturale che il testo tenderebbe, per stolidità della lettera, a consolidare quale appoggio, quale definitiva definizione e cioè quale morte che anticipa la morte in essere. Sarà infatti da intendere l’esotismo dell’anticipazione operata sull’aggettivo come autentico iperbato, per coerenza con il sentimento retorico di un poeta che, nelle raccolte che precedono “Tersa morte”, ha inteso proprio fare perno su questo stilema della dislocazione nel continuo, l’iperbato appunto: si pensi alla struttura complessa del verso in “Umana gloria”: ‘Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.’; o al sistema di slogature e connettivo costituito da ‘solo hanno le musiche e sanno sognare con forza i giorni | nell’Europa dell’est, credo di averti detto.’; o ancora, nelle “Pitture nere”, alla tensione all’asindeto che coglie retrospettivamente l’occhio che segue il movimento di anticipazione in: ‘Le travi, nel sasso è muta una faccia.’. La retorica è un contenitore psichico, che disnoda la psiche e la frena e la riduce alla sregolatezza del protocollo, per controllarla e permettere di fare esperienza suppostamente piena della psiche stessa: questo recita l’ideologia del controllo a cui le istituzioni retoriche fanno da rappresentante linguistico e, prima ancora, pensativo. L’utilizzo della retorica per annullare la retorica, ovverosia per “stare” nella pura esperienza di mondo psichico, cioè e di mondo e di psiche nello stesso istante, è uno degli esiti che Mario Benedetti ricerca senza requie nel farsi della propria poesia e della poesia che avverte vicina o “interessante”. L’iperbato serve a slogare ovunque (il movimento annulla gli elementi mossi, a un grado tale, che annulla il movimento), fino all’annullamento che non è annullamento, intendendo qui la possibilità di compiere l’esperienza linguistica nell’istante stesso in cui la lingua non è più in assoluto: non è ancora lingua e già non lo è più, nel miracolo dell’inesistenza che è l’esistere umano o generalmente fenomenico o, se si vuole intrudersi in una vena carsica di questa formidabile esperienza poetica, della dualità colta nel più radicale dei sensi: la forma appare ma non è. In questo senso si dà la semantica del campo creato dal titolo “Tersa morte”: l’aspetto cromatico (la tersità) non è un croma, così come la “morte” non è morte, in quanto è nitida, vista e forse visiva o addirittura vedente, in una irradiazione di ambiguità totale a partire dal verbo fondamentale su cui si incentra l’attività testuale del poeta friulano, ovvero l’atto e il movimento del “vedere”, che svolge la triade fondamentale di qualunque riflessione e pratica intorno alla possibilità di trascendimento del duale: vedente-vedere-visto. Questa metafisica della poesia di Mario Benedetti è con tutta probabilità l’acquisizione finale che i suoi testi domandano a un atto critico – atto che si esige soltanto all’interno di quel protocollo del controllo da cui si cerca esistenzialmente di evadere, essendo già evasi nella versificazione, letterale e strutturale, della poesia che va scrivendosi, che si è scritta» – continua

Una poesia autografa di Mario Benedetti
Una poesia autografa di Mario Benedetti: è la quarta di copertina di “Pitture nere su carta”, edito da Mondadori nella collana Lo Specchio, nel 2008. Il testo, che nel libro ha come esergo “physical dimensions”, è questo:
Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.
L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.
Qui.
Oh.
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Ritmo, sintassi, allusione: silenzio
Io non credo che esista la paratassi. Ovviamente esiste, ma è un’astrazione rispetto a un continuum auditivo-mentale, che è proprio della lettura interna, e ciò a partire da un’astrazione rispetto al continuum fonico ritmico. Se ci si illude che il punto o la sintassi che si ferma significhi davvero stop e silenzio, ovviamente il mio discorso non fa presa. Ciò che conta è il ritmo, non la paratassi. Nel senso che un conto è se, come fa Vittorio Sereni ne Gli strumenti umani, si pone una “distrazione” al culmine di una poesia apparentemente “paratattica”, con un verso dissonante e appositamente brutto, ellittico, dopo un punto (in un motivo che è un contrappunto oppure una fuga?):
“Un solo giorno, nemmeno. Poche ore.
Una luce mai vista.
Fiori che in agosto nemmeno te li sogni.
Sangue a chiazze sui prati,
non ancora oleandri dalla parte del mare.
Caldo, ma poca voglia di bagnarsi.
Ventilata domenica tirrena.
Sono già morto e qui torno?
O sono il solo vivo nella vivida e ferma
nullità di un ricordo?”
Qui è evidentemente la paratassi per come la si intende genericamente, ma non perché manca la copula o un verbo reggente, bensì per il contrasto interno – e clamoroso – tra bisillabismo di tradizione petrarchesca ed euritmia fonica petrarchesca, cioè evitamento o rottura degli archi tra assonanze e opposizione all’idea del continuum come se fosse esclusivamente armonico – e di fatto, questo verso si mangia da solo, per quanto mi riguarda, tutta l’apparente depetrarchizzazione che è stata spacciata da certo sperimentalismo (che invece è montaliano e, quindi, eufonico petrarchisticamente anche quando si pretende antistilistico). Un altro conto è invece fare ciò che segue e che potrebbe essere benissimo celebrato tra i più alti risultati linguistici in termini di paratassi nella nostra poesia contemporanea:
“Valle, conca di pietre bianche.
Va vecchia la donna,
con abiti sprovvisti, per non tornare.
Le scarpe, la spilla. E i fiori,giovanili mondi
negli occhi, nel finire.Cadenzato il respiro, vuoto.
Sentiti alberi, amati alberi.Fracassato viso, rigagnolo lento
dove non è il tornare, assunta primavera”.
Questa poesia di Mario Benedetti (da Pitture nere su carta, Mondadori, 2008) è stata avvicinata da alcuni critici a Celan, che è in Italia considerato un esempio insuperabile di paratassi poetica. Tale generalissima indagine è fallace, sia a proposito di Celan sia a proposito di Mario Benedetti. E ciò poiché l’unità, che qui è il verso, supera la spezzatura paratattica – ma non è che in prosa accada diversamente (si veda New Thing di Wu Ming 1). Per esempio, nel primo verso (”Valle, conca di pietre bianche.”) la dynamis del primo accento in prima sillaba è vorticosamente rilanciata dal secondo accento, per poi andare in calare, a fare esaurire l’accelerazione con l’accento in “a” semifinale. Una volta di più è messo in crisi il bisillabismo. Cioè: il ritmo mette in discussione la sintassi. Laddove pare esserci ipotassi (”Va vecchia la donna, | con abiti sprovvisti, per non tornare.”) è invece ottenuto un effetto di spezzatura paratattica: anzitutto perché i primi due accenti coincidono con le due prime sillabe (il che ha come conseguenza uno stop mentale e fonico) e poi per l’opposizione fonica e ritmica “-sti, per”.
D’altro canto, detto che si ottenga ritmicamente e non sintatticamente un effetto definibile come paratattico, avviene comunque una sorta di scivolamento ideale verso l’allegorico. Perché sembra essere più congeniale all’allegorico l’effetto paratattico? Perché quando il ritmo si spezza, allora il silenzio emerge come parte attiva del continuum – e solo nel silenzio si gioca retoricamente l’allusione: l’allusione è sempre linguisticamente finale, è sempre allusione al silenzio, all’extralinguistico.
L’allegorico è l’allusivo
Ma qui, in questo snodo decisivo del linguaggio e della retorica, che è un punto al calor bianco della letteratura, si gioca tutta una metafisica incompresa, dal momento che perfino Lukàcs va a fare celebrare un supposto trionfo di Bergson sull’Eleatismo nei suoi appunti su Dostoevskij – si pensa che silenzio sia “essere” e che il divenire sia opposto all’essere sullo stesso piano. Cioè, sul piano parallello linguistico: il silenzio sarebbe opposto alla parola. Non è ovviamente l’insegnamento eleatico: il divenire “è”, altrimenti non diverrebbe, non sarebbe e basta. Quindi, sul piano linguistico, il silenzio è la sostanza da cui emergono, in susseguenti salti del continuum vibratorio i suoni e le parole come forme.
Non c’è opposizione tra ritmo e silenzio.
L’allegoria aperta, e molto citata, di Benjamin diviene, sotto risguardo linguistico, una forma di allusione, che esige la non finitudine. Il silenzio (o, in termini ontologici, l’attesa infinita del Messianico in Benjamin) è l’esito ma anche l’inizio e anche l’eonico, cioè il costantemente “qui e ora”, prima di ogni configurazione formale.
Ciò io chiamo “vuoto”. Il vuoto “è”, non è vero che è niente: ed è per sua propria energia una mobilità statica, un assente che si condensa – in fantasmi (nel senso aristotelico; o archetipi, più familiarmente e imprecisamente) e poi intuizioni percettive interne, campi di senso, percezioni sensoriali, cose infine, a mano a mano che la condensazione si fa pesante nello spettro dell’umano.
Questa precisazione, del tutto contestabile secondo prospettive altre, mi interessa rispetto a uno dei simboli formali della narrazione, dell’intervento salvifico e finzionale: cioè il simbolo mercuriale o caduceo. Dal punto di vista strutturale, il caduceo è di fatto un intreccio (cioè la trama, la tramatura) di due personaggi che si annodano e finiscono per osservarsi – e questo è il simbolo non nel senso figurale, bensì nel suo carattere cristallizzato. Però lo sguardo tra le teste delle due serpi avviene nel vuoto e il bastone attorno a cui si aggrovigliano i due personaggi-serpi non esiste: né oggettivamente né testualmente. Ciò che produce l’incontro di sguardi è l’emersione del vuoto come possibilità di incontro, coincidenza con l’altro, empatia – o, più iniziaticamente, assenza dell’ego del personaggio (non, purtroppo, dell’autore). Il silenzio come sostanza non-sostanza, spinozianamente.
La desimbolizzazione è un processo che deve tenere presente questa distinzione semantica: c’è il simbolo fermo (che tutti chiamano “simbolo”) e c’è un simbolo veicolare, che qui si è chiamato “figura”, il cui statuto ontologico è il vuoto.