Rilessioni brevi su una poesia da “Tersa morte” di Mario Benedetti.
Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.
«L’ambiguità sintattica, il tremolio semantico, l’equivocità spesa sul piano lessicale, non soltanto della significazione, la fibrillazione ritmica, lo stato di sospensione tra mondo interno e supposto mondo esterno oltreché tra lingua d’uso (in uso quando?) e lingua letteraria (quale letteratura?, quale poesia?, e dunque: quale canone?): il potente apparato immaginale e fonicosimbolico allestito da Mario Benedetti, in questo testo tratto dal suo ultimo libro, “Tersa morte”, costituisce uno degli assalti più radicali che la nostra contemporaneità italiana ha condotto, in ambito testuale, all’idea stessa di umano, e cioè di storico, e al contempo di metafisico, cioè di reazione alla realtà come fuoriuscita dallo storico. Non sarà inutile ragionare sul titolo del volume, per considerare che il primo evento linguistico che il poeta intende fare incontrare al lettore è una “tersità”, però in stato di aggettivazione. Questa scelta di posporre il sostantivo reggente è fondamentamentale nella visione della lingua e del mondo in Benedetti: si tratta di un’anticipazione aggettivale che, in una scuola di ricursione storico-stilistica frequentata in giovane età e che ha contribuito alla formazione dell’autore stesso, viene eletta a rappresentante di una linea che, con ovvie discontinuità e per rude seplificazione, corre lungo la tradizione italiana dal petrarchismo a Leopardi, poeta centrale in questa terza raccolta, che chiude un percorso in tre stazioni, con l’apicalità, tutta ancora da affrontare criticamente, della seconda raccolta, “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008). La tersità come connotazione della morte, non come quintessenza della morte stessa. Se così fosse, il paratesto indicherebbe un posizionamento rigido e rigoroso, complice il canone, della parola e del fenomeno esistenziale, in un gioco di rimando che Mario Benedetti ha sempre coltivato come poetica personale, ovverosia soggettiva, la cui oggettività è ancora tutta da confermare. E invece la potenza della separatezza, cioè quella dislocazione extratestuale che è il titolo, serve a Benedetti a slogare ulteriormente, e cioè indefinitamente, ogni ossificazione e ogni certezza posturale che il testo tenderebbe, per stolidità della lettera, a consolidare quale appoggio, quale definitiva definizione e cioè quale morte che anticipa la morte in essere. Sarà infatti da intendere l’esotismo dell’anticipazione operata sull’aggettivo come autentico iperbato, per coerenza con il sentimento retorico di un poeta che, nelle raccolte che precedono “Tersa morte”, ha inteso proprio fare perno su questo stilema della dislocazione nel continuo, l’iperbato appunto: si pensi alla struttura complessa del verso in “Umana gloria”: ‘Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.’; o al sistema di slogature e connettivo costituito da ‘solo hanno le musiche e sanno sognare con forza i giorni | nell’Europa dell’est, credo di averti detto.’; o ancora, nelle “Pitture nere”, alla tensione all’asindeto che coglie retrospettivamente l’occhio che segue il movimento di anticipazione in: ‘Le travi, nel sasso è muta una faccia.’. La retorica è un contenitore psichico, che disnoda la psiche e la frena e la riduce alla sregolatezza del protocollo, per controllarla e permettere di fare esperienza suppostamente piena della psiche stessa: questo recita l’ideologia del controllo a cui le istituzioni retoriche fanno da rappresentante linguistico e, prima ancora, pensativo. L’utilizzo della retorica per annullare la retorica, ovverosia per “stare” nella pura esperienza di mondo psichico, cioè e di mondo e di psiche nello stesso istante, è uno degli esiti che Mario Benedetti ricerca senza requie nel farsi della propria poesia e della poesia che avverte vicina o “interessante”. L’iperbato serve a slogare ovunque (il movimento annulla gli elementi mossi, a un grado tale, che annulla il movimento), fino all’annullamento che non è annullamento, intendendo qui la possibilità di compiere l’esperienza linguistica nell’istante stesso in cui la lingua non è più in assoluto: non è ancora lingua e già non lo è più, nel miracolo dell’inesistenza che è l’esistere umano o generalmente fenomenico o, se si vuole intrudersi in una vena carsica di questa formidabile esperienza poetica, della dualità colta nel più radicale dei sensi: la forma appare ma non è. In questo senso si dà la semantica del campo creato dal titolo “Tersa morte”: l’aspetto cromatico (la tersità) non è un croma, così come la “morte” non è morte, in quanto è nitida, vista e forse visiva o addirittura vedente, in una irradiazione di ambiguità totale a partire dal verbo fondamentale su cui si incentra l’attività testuale del poeta friulano, ovvero l’atto e il movimento del “vedere”, che svolge la triade fondamentale di qualunque riflessione e pratica intorno alla possibilità di trascendimento del duale: vedente-vedere-visto. Questa metafisica della poesia di Mario Benedetti è con tutta probabilità l’acquisizione finale che i suoi testi domandano a un atto critico – atto che si esige soltanto all’interno di quel protocollo del controllo da cui si cerca esistenzialmente di evadere, essendo già evasi nella versificazione, letterale e strutturale, della poesia che va scrivendosi, che si è scritta» – continua
