Marco Belpoliti su tuttoLibri: su “Io sono”

Una lavagna nera perla critica della ragion impura di Genna

di MARCO BELPOLITI
[La Stampa, ttL, 30 maggio 2015]

Senza-titolo-1-e1424533197642La copertina è fustellata in modo che si apra una «finestra» quadrata. Dentro c’è un’immagine: un riquadro nero racchiuso da una cornice, su cui è scritto «Et sic in infinitum». Si tratta di un dettaglio della pagina nera di Robert Fludd, tratta da un’opera intitolata: Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,physica atque technica historia, e pubblicata da Oppenheim nel 1617. Nessuna immagine definisce meglio l’opera di Giuseppe Genna, sia questa su cui compare (Io sono), sia la sua opera narrativa in generale. Genna è un discendente di Fludd, medico teosofo e alchimista, vissuto nel corso del Rinascimento e l’inizio dell’età barocca. E alchimista è anche Giuseppe Genna, che prova qui a fondare una teoria e una pratica della coscienza.
Cosa sia Io sono non è facile da dire. Un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, uno studio sulle origini della medesima, un saggio letterario, un’esperienza estatica in forma di riflessione, una pratica di ricomposizione del trauma?
Tutto questo, ma anche un saggio di epistemologia condotto da un autore coltissimo e insieme meravigliosamente dilettante, quel dilettantismo che è proprio solo dei poeti e degli scrittori che prescindono da tutto e tutto affrontano. Io sono è un modo per scagliare il proprio Io al di là del muro del narcisismo corrente, elevarlo nel Regno che si apre oltre le identificazioni personali. Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un gigantesco sforzo d’ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde. Incanalate nelle elucubrazioni di quest’opera singolare, le parole di Genna costituiscono un viaggio dentro la mente estatica, uno dei pochi viaggi oggi possibili ai lettori in lingua italiana. L’estenuazione filosofica degli «istanti coscienziali», opera dell’autore di Fine impero (minimum fax), è perfettamente rappresentata dalla copertina: la «lavagna nera» di Fludd.
Scrivendo la sua «critica della ragion impura», Genna ha cancellato sulla superficie della sua mente tutto quello che c’era prima, e vi ha inscritto un nuovo segno calligrafico, in verticale e in orizzontale: cardo e decumano del suo pensiero zizzagante. Sul fondo bianco elegantissimo della collana «La Cultura» dell’editore il Saggiatore, la «lavagna» di Fludd appare come uno spazio altro, remoto e insieme vicino, dove «io sono». Per sempre, e al nero.

Giuseppe Genna
«Io sono»
il Saggiatore, pp. 326, € 18

Da “Io sono”: in quale senso è la coscienza

61z-tODMNmL-218x300Un ulteriore capitolo di Io sono (il Saggiatore) sulla determinazione concreta dell’atto di coscienza, che è la premessa a una terapia effettiva e pratica che non si occupa più della psiche, ma “pulisce” la psiche dai suoi conflitti e disagi, a partire dal “momento coscienziale”. Si tratta della premessa alla sezione del libro che, da quella relativa allo statuto concreto della coscienza (che è pura sensazione di essere, molto semplicemente e realmente), passa a occuparsi della declinazione terapeutica e iatrogena (un capitolo di quella parte del libro è stato pubblicato qui). Storia, metafisica, coscienza, terapia e testo: sono le sezioni che compongono l’itinerario di “Io sono”, un percorso che cerca di delimitare perimetro e modi di un intervento neopsicologico antichissimo, descritto e praticato dalle tradizioni metafisiche, cioè quelle varianti della scienza interiore che, con ovvie diversificazioni di metodo, da sempre nella storia umana si offrono come orientamenti per lavorare al reintegro dei conflitti somatici e psichici nell’unità semplice della coscienza: nello “stare”.

In quale senso è la coscienza

Nell’istante in cui dal sonno ti svegli e accedi allo stato di veglia

ecco

che senti che sei, che si sente che si è: senza nome ancora, senza genere sessuale, in una privazione di qualunque qualificazione, si sente soltanto che si è, per pochissimo, nell’atto stesso di svegliarsi, non si ascolta e non si vede niente, sembrerebbe un niente, eppure non è un niente, perché si sente che si è, qualcuno è consapevole.
Di cosa si è consapevoli? Del fatto che si è.
Questa nuda esperienza è un’esperienza. La si vede? La si sa? Sì.
In quale modo? E’ un oggetto? No, si sa per identità: è un atto di identità.
Quale identità? E’ connotata psichicamente, emotivamente, fisicamente? Sì, ma soltanto un attimo dopo averla sperimentata.
In realtà, quell’avverbio isolato, “ecco”, è un’analogia, è un fatto linguistico, potrebbe e dovrebbe connotarsi soltanto con un silenzio e il silenzio esorbita il linguaggio.
Ecco: ecco che mi sono accorto, ecco che so che, ecco che non dico altro che “ecco”.
Questo “ecco” ha il medesimo valore metafisico del simbolo “So di non sapere”, come si è visto nei frammenti di discorso metafisico: la mente dialettica non c’è, sento solo che sono, sento che sono senza alcun sapere.
Sembra un minus linguistico, invece è un surplus: il linguaggio, che è separativo e limitante, non è assolutamente adeguato a dire l’esperienza unitiva, cioè l’esperienza di consapevolezza.
L’esperienza unitiva è alla mano, prima di ogni linguaggio.
E’ concreta, avvertita come reale e naturale, è qui e ora, la si sperimenta facilmente e non è possibile alcuna limitazione linguistica quando essa è tale: soltanto un attimo dopo, quando quell’”ecco” diventa che si sente di essere un soggetto, si può benissimo dire che si è un soggetto, ci si intende e ci si capisce nel linguaggio, c’è una tradizione comunicativa che fa perno su epoche storiche umane e dice che il soggetto è quella cosa lì: il soggetto. E poi sono un maschio o una femmina, e il mio nome è questo, e mi sento in questo modo, provo queste emozioni, fisicamente sto così. E’ stata cioè attivata una capacità linguistica, ovvero è stata accettata una funzione separativa e tale capacità della mente si può dire: memoria.
Quasi istantaneamente la memoria è in moto in un soggetto organizzato per essere capace di memoria. La separatezza sorge quasi istantaneamente. Quell’avverbio, “quasi”, intende significare che questa consapevolezza separativa non è pienamente istantanea.
Ciò che è pienamente istantaneo è un’esperienza unica, che è unitiva rispetto a tutti i dualismi successivi, il quali si sviluppano appena l’avverbio “pienamente” è degradato in “quasi”.
L’istante non appartiene al tempo, ma, come il punto per lo spazio, è un ente che genera il tempo senza appartenervi. E’ il “quasi” dell’istante che appartiene al tempo: il tempo entra e, “istantaneamente” col tempo, in un’entità organizzata temporalmente per essere mnemonica, accade la memoria.
Istante, ecco, esperienza unitiva: sono tutti approcci imprecisi, affannosamente alla ricerca nel linguaggio di una strumentazione che dica ciò che il linguaggio non può dire. Quell’”attimo” di consapevolezza non è indicabile dal linguaggio se non attraverso una distanza: un’analogia, una differenza.
Questo stato intimissimo che è l’accorgersi, un “accorgersi di” che è indifferentemente un “accorgersi che”, non è realizzabile dal linguaggio, in quanto lo esonda e lo esonda in quanto il linguaggio, come la memoria, è una qualificazione “successiva” a quell’istante esperito come inqualificato accorgersi.
Questo esondare il linguaggio, spesso, è stato detto per analogia con parole relative a stati di mistica e di trascendenza, che per la natura stessa della percezione risultavano dualistici, stati esterni o esotici o esogeni, lontani, altri, da raggiungere o raggiunti da altri, al di là del bene e del male, al di là dell’umano:

Trasumanar significar per verba
non si porìa; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba

è scritto nel canto I del Paradiso dantesco e chi scrive quel canto è costretto a “mimare” linguisticamente quell’esperienza di silenzio, a cui il linguaggio non arriva e che esorbita ogni linguaggio, cioè ogni limitazione linguistica: scrive due infiniti uno accanto all’altro, e non è un caso che il modo verbale si chiami per analogia “infinito”; specifica che questo “significar” è indotto attraverso “verba”, cioè linguaggio, il che rende implicito che il significare non avviene soltanto con un gesto linguificabile, è più esteso di quanto il significato linguistico comunichi, e cioè esiste un significato al di là delle parole; inoltre cita letteralmente che è sufficiente (cioè è totalmente insufficiente, ma basta come indicazione) l’”essemplo”, cioè quanto qui viene detto analogia; infine riferisce che si tratta di “esperienza”, ovvero si tratta di sperimentare quello stato, il che avviene per “grazia” o, letteralmente, “gratis”, cioè senza fatica e non pagando alcun prezzo.
La connotazione esterna dell’istante “transumano” (un istante che è un processo, un salto indefinito, un’infinitudine: è “transumanar”), come se si trattasse di qualche traguardo o un parossismo dell’esotico, si dà appunto per la qualificazione fondamentale dell’atto linguistico, che “mima” un esterno, si costituisce rispetto a un esterno che bisogna sigificare, come se il soggetto che recepisce il senso del linguaggio fosse distinto da una oggettualità assolutamente distante, assolutamente altra.
Il linguaggio è una qualificazione della separatezza come atto che avviene nella qualificazione della coscienza.
Poiché tutto quanto riguarda quell’atto di riconoscimento, cioè

ecco

non è quell’atto: lo “riguarda”, cioè lo percepisce come esterno o altro, lo indica, c’è una distanza che separa chi guarda da quello che è guardato.
Quell’avverbio “ecco” è la coscienza.

Che genere di esperienza è la coscienza? Se è esperienza, per quella forma limitata e limitante, che cioè si qualifica attraverso una limitazione e appartiene a quel regno della limitazione detto “dualità”, deve esserci un soggetto che esperisce e un oggetto esperito: due polarità che, come si è visto, entrano in un rapporto tensivo, in questo caso l’esperire stesso.
E’ un’esperienza particolare quella di coscienza, in questo caso che si dice coscienza, quanto all’umano, in quel microtratto temporale al risveglio dal sonno. E’ un’esperienza in cui il soggetto stesso dell’esperienza è l’oggetto dell’esperire. Soltanto attraverso una esteriorizzazione da quell’identità di sentimento tra soggetto e oggetto, nel senso che si sente indefinitamente se stessi senza che il se stessi possa venire oggettualizzato, è possibile parlare di riflesso di coscienza, come se la coscienza si riflettesse su se stessa, riflettesse su se stessa, riflettesse se stessa.
La coscienza in realtà non riflette, ma all’interno della coscienza sembrano formarsi dei riflessi di coscienza.
Bisogna infatti considerare che cosa stia accadendo nel momento preciso in cui accade che si sente di essere, in quel risveglio dal sonno: chi si accorge che è?
Le risposte a questa domanda sono i costituenti la radice stessa della separatezza tra saperi (e pratiche che da quei saperi derivano) e metafisica (che non è un sapere definito nel senso dialettico dei saperi e che non si identifica in alcuna pratica nel senso tecnico, cioè anche macchinico, del termine). Da un lato parte infatti una riflessione su questa “persona” che si accorge di essere, sia pure di essere indefinitamente e in modo privo di qualificazioni. Dentro questo sentimento di essere accade una riflessione. Ciò è proprio del fenomeno umano. Lo sviluppo delle qualità riflessive del fenomeno umano passa attraverso questa separatezza, anche se i saperi tendono in seguito a sconfessarla (un esempio fra molti: il “campo” e l’”osservatore” e l’”indeterminazione” in fisica quantistica).
D’altro canto si può invece stare nello stato identitario di quella coincidenza tra soggetto e oggetto che è l’esperienza di coscienza.
Questo stare è empirico, ma si tratta di un empirismo del tutto particolare. Lo stare nell’esperienza di coscienza è un’esperienza di coscienza. Ogni “momento” è la stessa esperienza del “momento” precedente. La memoria cerca di separare e classificare momento da momento, ma concretamente, lì, nell’esperienza di coscienza, non c’è un susseguirsi di momenti, non si ha in mente nemmeno la successione temporale e ciò perché la coscienza non è psichica, non è memoriale, non è temporale. “Stare nel momento coscienziale” si traduce, per la mente pensativa, in una permanenza temporale in una determinata esperienza. Sembrerebbe dunque un’esperienza temporale e invece non lo è.
Questo stare naturalmente nell’esperienza coscienziale è lo stare della naturalezza: non è dato alcuno stare, se non nella coscienza. Per stare, bisogna essere. Essere significa: sentire di essere, avvertire concretamente la pura e non qualificata sensazione di essere. Essere presenti a questa sensazione di essere non è alcun presente, nel senso che lì, molto praticamente, in quell’esperienza specifica che è lo stare in quell’esperienza di pura sensazione di esserci, non c’è un passato e un futuro da cui desumere eventualmente un presente. C’è soltanto un’attualità, sempre uguale, sempre sperimentabile come uguale, sempre la stessa esperienza di essere, sempre quella, che si sia bambini o adulti, in una forma umana o in un’altra: le qualificazioni personali, che sembrerebbero caratterizzare l’individuo, cioè storia o psicologia o posizione nello spazio o età o genere o fisionomia (e così per indefinite qualificazioni), non sono pertinenti o adeguate al sentimento di essere: lì, nella sensazione di esserci, non esistono tali qualificazioni, non le si ha presenti.

Una prova empirica e simbolica al tempo stesso è sufficiente per essere persuasivi su questo punto. Si immagini quando si avevano otto anni, poi quando si avevano dodici anni, sedici, ventidue, trentaquattro: si era persone diverse, ma quanto alla sensazione di essere? E’ mutata nel tempo? E’ incrementata, decrementata? Si è complicata o semplificata? Semplicemente sentire di essere: è una forza sempre identica, un’esperienza continua.

Che accada di essere questa indifferenziazione, cioè di accorgersi di essere senza altro aggiungere, e che tale percezione possa essere raccolta dal fenomeno umano come una perdita di individuazioni e identità, è contraddittorio al fatto che proprio in questo semplice sentire di essere risieda l’autentica identità.
Ciò che viene ritenuto usualmente identitario (“sono questo corpo, sono questa psicologia, sono fatto in questo modo, queste sono le mie qualità”) è una determinazione umana contraddittoria alla propria reale natura identitaria, che è la sensazione semplice di essere: ed è identitaria in quanto è l’unico elemento che continua a essere identico a se stesso nel corso di una vita. Si scambia per identità una falsa aggregazione di finte identità.
Ciò accade in quanto, per il fenomeno umano in sede riflessiva, cioè pienamente pensativa e interpretativa della sensazione di essere, tale semplice sensazione di essere viene tradotta culturalmente come perdita delle particolarità psichiche, e quindi dell’identità.
L’identità di cui si parla, in seduta psicoterapeutica tanto quanto in sede filosofica, sarebbe un insieme configurato di qualità, assolutamente non presenti nell’atto della semplice appercezione della sensazione di essere, la quale sarebbe una funzione non identitaria.
La coscienza non è una funzione psichica: è la psiche a essere una funzione coscienziale.
Questa misinterpretazione, questa autentica inversione concreta dell’identità alla luce della naturalezza del fenomeno umano che si dice “io”, questa inesperienza della dualità che viene contrapposta come assenza d’identità all’esperienza più qualificata e particolareggiata dal punto di vista psichico: ecco il momento preciso in cui si disallinea l’attività neutrale e indifferenziata e concreta della coscienza dall’attività soggettivamente qualificata e concreta della psiche.
In realtà le cose sono intuite e dispiegate con precisione dalla psiche: nell’attività di coscienza non esiste alcuna differenziazione psichica o psicologica.
Fatta salva l’intensità (una sorta di qualità e di quantità) del sentimento puro di essere, non esiste una differenza sostanziale (in termini assoluti di qualità) tra il sentire di essere che appercepisce svegliandosi un individuo umano e quello che avverte un altro individuo umano.
Nell’istante coscienziale è abolita la psiche.

Nell’istante coscienziale si è una cosa sola: io e un altro siamo questa cosa unica, coincidiamo in essa, essa non è più mia che di altri, è davvero la stessa unica cosa.

Concretamente non c’è un profilo psichico del sentimento di essere. Qualunque profilazione psichica o fisica o di altro ordine qualificato avviene “all’interno” del sentimento di essere.
Si manifesta in questo punto, nel disallineamento che la psiche opera rispetto alla coscienza, la radice metafisica della questione coscienziale: se non sento di essere, non sono: non sono in senso assoluto e, dunque, non sono psiche.
E ciò vale non soltanto per l’estensione psichica, ma anche per l’estensione temporale: in ogni momento si percepisca semplicemente di essere, si avverte la medesima indifferenziazione: si è, semplicemente. L’istante coscienziale non è nel tempo.
E’ in ragione della temporalità e delle qualificazioni che sono inerenti al fenomeno psichico umano che tempo e qualificazioni psichiche si avvertono come esistenti. Nell’”istante” della coscienza (un istante dilatabile quantitativamente solo se confrontato con la temporalità della psiche) non esistono tempo o qualificazioni psichiche.
E’ pura e nuda coscienza la sensazione di essere inqualificatamente, che concretamente si avverte al risveglio.
Nella sensazione di essere, che è coscienza, tutto quanto è qualificato per il fenomeno umano non è sentito, non è pensato: è di qua o di là da venire, si direbbe, se non fosse che dicendolo si è già fuori della semplicissima sensazione di presenza che è il sentimento di essere.
Da questo punto di vista, concretissimo, sentito e non saputo, esperito direttamente senza possibilità di discernere dove inizi un soggetto dell’esperienza e dove termini l’oggetto dell’esperienza, la coscienza è onnipervasiva: trascende le limitazioni che sono psichicamente definite come trascendente e permane al di là della qualificazione temporale che è definita come permanenza. Questo fatto avviene concretamente e non è un obbiettivo distinto dal sentire di essere in chi sente di essere e dopo pensa che quel fatto è altro da se stesso.
L’onnipervadenza del fatto coscienziale è di fatto l’unica persistenza continua e assoluta di cui il fenomeno umano disponga per dire, in stato psichico, che qualcosa è differente da altro.
La differenza avviene infatti per limitazione o, secondo altre metafore, per movimento o qualificazione.
Quando si percepiscono i differenti fenomeni interni (mondo psichico) o esterni (mondo oggettivo) come realmente esistenti, in base a quale esperienza non differente ci si appoggia per avere la percezione della differenza?
Stabile, indifferenziata, fin quando si è “in vita” identica a se stessa sempre, che non cresce e non diminuisce, perennemente evocabile attraverso un atto semplice, onnipervasiva, è la coscienza in quanto sensazione puntale e semplice di essere.
Questa stabile onnipervasività è tale (stabile e onnipervasiva) per l’atto coscienziale percepito dal vivente fenomeno umano. La sua persistenza sempreguale è tale all’interno di qualunque atto di vita del fenomeno umano, psichicamente inteso.
Questa coscienza, concreta e sempre alla mano per il vivente che è il fenomeno umano, è atta a condizionare il lavoro psichico, in senso appunto coscienziale.

Questa sostanza è un fenomeno stabile per il vivente umano? Oppure essa muta? E muta anche la qualità della percezione che è istantanea nella sensazione di essere?
Si è fatto riferimento a un istante concreto, quello del risveglio dal sonno, per indicare l’intimità immediata ed effettivamente sperimentabile e sperimentata della coscienza. E tuttavia lo stato di sonno e lo stato di veglia sono qualificazioni e limitazioni e relatività della mente umana: sia della psiche sia del corpo sia di ciò che pare eccedere e psiche e corpo (si pensi all’attenzione ai fenomeni di sogno, che le psicologie esercitano in modo privilegiato).
Qualcosa di inqualificato accade in uno stato qualificato: e in altri stati qualificati? Questo stesso esperire il senso di essere si qualifica in altro modo in stati differenti? E quali sono gli stati differenti e generici a cui si potrebbe fare riferimento per il fenomeno umano, oltre la veglia e il sonno?
Sul piano della generalità, o universalità, quanti stati effettivamente sperimenta l’umano?
E’ necessaria un’ulteriore evocazione della prospettiva metafisica, per comprendere la prospettiva psichica in cui si inscrive il discorso sulla coscienza e rispondere alla domanda sugli stati qualificati che il fenomeno umano sperimenta.

Carol Wilson: Impermanenza

“Quanto più profondamente riusciamo a vivere nella verità dell’impermanenza, tanto più ci apriamo a uno stato di non agitazione del cuore e della mente. Tuttavia per ottenere veramente questo stato dobbiamo poter andar oltre tutti gli strati dei nostri condizionamenti e processi mentali.”

di CAROL WILSON | da Insight, autunno 1999, traduzione di Erica Ongaro

Mi vengono in mente due domande quando penso all’insegnamento dell’impermanenza rispetto alla mia vita. Crediamo veramente che le cose sono impermanenti, che tutte le esperienze sono impermanenti, che tutti i fenomeni che sorgono poi passano? Ci crediamo veramente? L’altra domanda derivante dalla prima riflessione è la seguente: qual è l’effetto sulla nostra vita quotidiana del vivere alla luce di tale verità? Riflettere su queste domande comporta un esame degli strati più sottili della meditazione per vedere quale rapporto abbiamo coll’impermanenza ai diversi livelli.
Prendiamo in esame la prima domanda: crediamo veramente che tutto quello che sorge poi passa e che tutti i fenomeni che sorgono non sono destinati a durare? Di tutte le diverse verità di cui il Buddha parla quella relativa all’impermanenza – come sono le cose – è la più facile da capire intellettualmente. È un’idea accettata anche dall’uomo della strada che non si occupa troppo di questioni filosofiche: “Sì le cose cambiano”.
Concettualmente tale verità è facilmente comprensibile, non ci sono problemi. Ma è così che viviamo? Tutti noi saremmo forse qui se riuscissimo a vivere con agio in una perenne danza col fluire dell’esistenza? Questo è quanto m’interessa veramente scoprire.
Io so di aver effettivamente sperimentato che tutto sorge e tutto passa e che non c’è alcun luogo dove fermarsi e riposare. Tuttavia, prendendo me stessa come esempio – e presumo di non essere la sola – tutte le volte che nella mia vita qualcosa che apprezzo e che mi piace cambia dico forse: “Bene, le condizioni che permettevano tale esperienza sono mutate ed essa sta passando.”? Può darsi che alla fine arrivi a questa conclusione, ma essa non è certamente la mia prima reazione spontanea alla perdita di qualcosa che mi piace.
Dico forse “Mio padre è affetto dal morbo di Parkinson e non ci vede più, ciò è dovuto solo al fatto che le cose sono cambiate?”. Certamente no, perché sento il dolore di vederlo soffrire; e questo è normale. E provo compassione per lui. E avverto anche la paura e mi chiedo: “Come posso fare perché ciò non accada? Come posso porvi rimedio?”.
È così che reagiamo verso il nostro corpo, le persone che amiamo, i rapporti che cambiano, la perdita di un lavoro e perfino col ginocchio che comincia a dolere nel bel mezzo di una seduta. La nostra prima reazione, pur sapendo che tutte le condizioni sono soggette a cambiare è: “Qualcosa è andato storto ed ecco il cambiamento. Se riesco a capire cos’è che non ha funzionato, posso intervenire”. Non è forse così che finiamo col rispondere? E tale risposta è spesso accompagnata da grande sofferenza.
Anche se l’ho sperimentato migliaia di volte, non mi risulta ancora facile accettare che la sofferenza non riguarda il cambiamento stesso. La sofferenza, se la guardo proprio fino in fondo, è legata alla mia reazione al cambiamento; è insita nella mia negazione, nella non accettazione, nel mio fondamentale rifiuto a sentire il dolore o la perdita.
Paradossalmente, sono affascinata dal fatto che, pur sapendo qualcosa così lucidamente, vivo spesso la mia vita come se non lo sapessi affatto. È vero, sotto sotto vogliamo che le esperienze piacevoli non se ne vadano, ma che permangano e non vogliamo che ci accadano cose spiacevoli. Possiamo investigare tale paura nella nostra pratica meditativa come pure nella nostra vita e di nuovo troveremo che a un certo livello rifiutiamo ancora che tutte le esperienze piacevoli sorgano e passino e che tutto ciò che è spiacevole vada e venga. È proprio fuori dal nostro controllo. Se solo potessimo fluire con le esperienze piacevoli e con quelle spiacevoli al loro sorgere e scomparire, non avremmo difficoltà a vivere la nostra vita.
Perché siamo condizionati in tal modo? È un’abitudine mentale, ricerchiamo il piacevole e non sopportiamo quello che non ci piace, e qui ci blocchiamo. Non è la verità, ma una nostra abitudine, un’abitudine profonda.
Qualcuno oggi mi ha detto: “Mi sono accorto che non cerco mai di stare male. Cerco sempre di stare bene”. Ecco come ci muoviamo nella vita. Nessuno è triste quando il mal di testa se ne va o quando il cattivo tempo diventa bello e non diciamo mai: “Oh uffa, è ritornato il bel tempo!”. Invece pensiamo: “Ora che tutto va bene mi sento in armonia”. L’impermanenza è dunque un problema solo quando è il piacevole a mutare, quando scompare il luogo che cerchiamo dove riposarci. Ci attacchiamo al bello anche se tutti noi sappiamo razionalmente che il problema non sta nel cambiamento. Il problema è il nostro attaccamento.
È nostro compito esaminare tale tendenza all’attaccamento. Perché continuiamo a perpetuare tale attaccamento, a ripeterlo all’infinito?
Se ci fermiamo a guardare vediamo che sotto il desiderio c’è l’attaccamento al piacevole. Da qualche parte sotto quel desiderio noi crediamo, anche se non lo diciamo, che esista la possibilità di trovare un luogo dove trovare pace, sentirsi a proprio agio e provare piacere e che questo luogo sia fondamentalmente permanente. È così infatti che ci muoviamo nella nostra vita, alla continua ricerca di questo luogo dove riposarci e nell’attaccamento a quel senso di sicurezza.
Quello che più ci turba del carattere inevitabile e assoluto dell’impermanenza è il fatto che non prevede alcun luogo dove poter riposare. Per noi che desideriamo un luogo dove riposare (e chi non lo desidera?) tutto ciò sembra spaventoso, tremendo, ed è motivo d’insicurezza e d’inaffidabilità. In realtà è proprio il nostro voler afferrare qualsiasi esperienza fenomenica – esteriore come pure interiore – l’eterna ricerca di un luogo dove trovar rifugio, che è all’origine della sofferenza nella nostra vita ed è molto difficile vedere tutto ciò.
Vi siete mai trovati in mezzo a un terremoto con tante scosse d’assestamento? Io sì, una volta; il terremoto faceva paura, ma era anche divertente. C’era la meraviglia per quello che stava succedendo, ma eravamo anche sconvolti per le scosse d’assestamento che si susseguirono per tre giorni di seguito; non era possibile rilassarsi sulla terra, a letto o a tavola. Appena ci si rilassava, la terra cominciava a tremare di nuovo, ogni cinque minuti. Naturalmente la radio trasmetteva in continuazione: “C’è il venticinque per cento di possibilità che la grande scossa avvenga nei prossimi tre giorni”. Così non era nemmeno possibile pensare: “È solo una scossa d’assestamento”. Il pensiero fisso era: “Eccola? Devo correre fuori da casa? Dobbiamo stare lontani dalle finestre? No, si sta assestando”. Non appena ci si lasciava andare e ci si rilassava, ecco che i termosifoni cominciavano a tremare in mezzo alla notte e bisognava saltar fuori dal letto, afferrare la torcia e correre all’aperto, e così per tre giorni.
Tale esperienza mi ha fatto provare il massimo senso d’insicurezza. Avevo sempre creduto che la terra fosse solida, immutabile e pronta ad aiutarmi. Poi scoprii che le cose non stavano esattamente così e che non potevo fare proprio nulla per cambiare tutto ciò. Per molti anni le scosse d’assestamento del terremoto hanno rappresentato per me una metafora. Tale esperienza mi ha rivelato l’effetto che l’incertezza di un continuo cambiamento può avere sulla mente e sul cuore che cerca la felicità di una stabilità immutevole. È proprio il nostro attaccamento a qualsiasi esperienza fenomenica che sta passando, sia essa esteriore che interiore, la nostra eterna ricerca di un luogo dove fermarci per riposare, che produce la sofferenza nella nostra vita, anche se può essere molto difficile riconoscerlo. La libertà proviene invece non tanto dall’aver trovato un luogo dove riposare, quanto dal non aver più bisogno di cercare un tale luogo.
C’è un bellissimo passo del Sutta del Diamante che dice: “Dimora nella pace colui che non dimora in alcun luogo”. Il trucco sta nella rinuncia a cercare di dimorare o riposare o arrestare il flusso da qualche parte, una ricerca che in realtà non fa altro che perpetuare il senso d’angoscia. È proprio la ricerca di un luogo dove riposare, di solito nel piacevole, che è così profondamente sconvolgente.
Anche quando ci addestriamo a essere consapevoli e osserviamo come tutte le esperienze sembrino andare e venire, possiamo non accorgerci che noi stiamo ancora guardando il tutto. Il noi (o l’io) è vissuto come un’entità immutabile che osserva, ma così non va ancora bene. La nostra ansia diventa allora: “Vedo veramente che tutto è mutevole e ciononostante non sono libero? Perché continuo a soffrire?”. Tale ansia è molto sottile e molto profonda.
Il rifletterci non ci aiuta a uscirne fuori, tuttavia il pensarci ci stimola a investigare. Possiamo imparare a rivolgere un’attenzione sollecita a tutte le diverse manifestazioni dell’io-mio. Può sembrare che esista un’entità stabile da cui posso osservare come il mondo cambia, ma sembra così solo per mancanza d’investigazione, mancanza d’attenzione. Di solito, non pensiamo di rivolgere la nostra attenzione all’io-mio, a quel punto di stabilità a cui cerchiamo di aggrapparci.
Possiamo diventare così coinvolti nella ricerca di una dimora pacifica, nella ricerca della felicità, che ci sfugge la possibilità di lasciar semplicemente andare tale ricerca. Lasciar andare quella continua altalena tra il piacevole e lo spiacevole, tra il provare simpatia o avversione; semplicemente lasciare andare lo sforzo continuo di manipolare l’esperienza. Siamo così coinvolti nei nostri giudizi, reazioni, valutazioni, interpretazioni, riflessioni su tutto ciò che accade, che spesso non siamo neppure in contatto con ciò che ci sta veramente accadendo. Non ci accorgiamo che l’ostacolo alla pace non è l’esperienza stessa ma il fatto che siamo identificati nelle nostre stesse reazioni. Non notiamo come dice Thich Nhat Hanh che “La felicità è a nostra disposizione, basta servirsene”. È sufficiente cessare di lottare, cessare di voler afferrare.
Una volta qualcuno mi disse che la realtà della vita può essere paragonata allo stare rinchiusi in una prigione in cui siamo così impegnati a risistemare il mobilio per sentirci più a nostro agio che non ci accorgiamo che la porta è aperta e che potremmo semplicemente andarcene. Così facciamo nella nostra vita, rimettendo continuamente a posto i nostri mobili. È sorprendente come non ci accorgiamo di questa verità, o forse non vogliamo crederci. Se però riusciamo ad affrontare con presenza totale, coerenza, prontezza, accettazione e vigilanza assolute solo quello che sta accadendo in questo momento, tutto vi è già contenuto. Questa è l’essenza della non dimora.
Non si tratta però di un luogo che possiamo conoscere concettualmente. È molto difficile parlarne, perché non è qualcosa di concreto. L’essenza della non-dimora è una totale immediatezza di presenza, col mal di testa o senza, in mezzo all’ingorgo stradale o lontani da esso. Non importa affatto quello che sta accadendo. E lo penso davvero. Non è una metafora. Non importa veramente cosa stia accadendo. Non solo sul cuscino ma da un punto di vista assoluto.
È possibile crederci? Non solo crederci ma avere sufficiente fede da cercarlo? La libertà del cuore, della mente, non ha nulla a che fare con il manifestarsi e lo scomparire di una qualsiasi esperienza fenomenica e se essa ci piaccia o no. Ha a che fare coll’immediatezza, con la totalità, con l’apertura e una chiara presenza. E ciò esige in quel momento un’accettazione totale. Accettazione totale non significa rassegnazione. Non significa: “Bene, qualunque brutta cosa possa accadere, io rimarrò seduto qui e lascerò che la gente mi cammini sopra”. Significa piuttosto: “In questo momento accade questo. Non si può cambiare, perché sta già accadendo. Riesco in quel momento a starci dentro con presenza e attenzione assolute, senza resistenza e senza attaccamento?”.
Sì, questa è la pratica della presenza mentale, momento per momento. Non è pensare: “Sarò così per il resto della mia vita”. Questo è solo un altro pensiero. La presenza mentale ha luogo in questo momento, come il respiro entra ed esce dal corpo, è proprio lì; è una presenza vigile, totalmente accettante, senza alcuna discriminazione o preferenza. Naturalmente sono più che consapevole che è più facile dirlo che farlo.
Mi è di gran sollievo ritornare a questa consapevolezza in situazioni difficili, come quando, per andare all’aeroporto, mi trovo bloccata in mezzo al traffico. Tutti abbiamo avuto questo tipo d’esperienza. Possiamo struggerci per la rabbia e far finta di nulla. Possiamo farlo un po’, ma dopo qualche minuto ci chiediamo: “Come mai sto digrignando i denti? Perché mai mi arrabbio con il mio amico?”. Alla fine ammettiamo: “Non c’è nulla da fare, ho perso l’aereo, cosa succederà! Non c’era nulla da fare dall’inizio”.
In questo momento lasciamo andare. Nulla di grandioso vero? Non assomiglia per niente a quello che ci s’immagina quando il Buddha parla di quello stato eccelso di pace sublime che è la liberazione, ottenuta tramite il non-attaccamento. Questo non corrisponde forse alla nostra idea di liberazione. Ma può essere un inizio, bloccati nel traffico, abbiamo perduto l’aereo, impotenti di fronte alla situazione, ciononostante veramente tranquilli. Siamo in pace in quel momento, perché abbiamo lasciato andare tutti i nostri pensieri su come dovrebbero andare le cose e ci stiamo aprendo alle cose così come sono. Uno stato di non-dimora. Non dimora perché il modo in cui le cose sono ora cambierà il momento successivo.
Dunque il massimo che possiamo fare è dimorare in questo momento, così com’è, senza attaccamento, senza resistenza, perché nel momento successivo c’è qualcos’altro. E tutto fa parte del flusso.
Il Buddha ha affermato ripetutamente: lo stato supremo di pace sublime è stato scoperto dal Tathagata, e cioè la liberazione attraverso il non attaccamento. Questo è un modo diverso per esprimere la non dimora. Aprirsi semplicemente al momento, con presenza totale, è la nostra via all’affidarsi. Vivere nella verità dell’Impermanenza, aprirsi a essa, così come la sperimentiamo, che ciò accada quando una persona amata si ammala o muore o nell’osservare la nostra agitazione durante una seduta, che iniziata piacevolmente, diventa improvvisamente spiacevole. Qualsiasi sia la natura della nostra esperienza, quello che possiamo fare è prestare attenzione a quei momenti di resistenza al cambiamento e aprirci alla nuova realtà.
Quanto più profondamente riusciamo a vivere nella verità dell’impermanenza, tanto più ci apriamo a uno stato di non agitazione del cuore e della mente. Tuttavia per ottenere veramente questo stato dobbiamo poter andar oltre tutti gli strati dei nostri condizionamenti e processi mentali. Ci può essere di grande aiuto in questo caso la precisione della pratica meditativa.
Nel praticare la presenza mentale, noi scopriamo maniere sempre più ricercate con cui manipoliamo la nostra esperienza per ottenere qualcosa di piacevole o per ricreare qualche esperienza che abbiamo già avuto o di cui abbiamo letto e che riteniamo sia quello. Sì, ho trovato. In realtà non siamo troppo attenti, perché se guardassimo veramente bene, scopriremmo che sono le condizioni a far sorgere anche tale esperienza. Scopriremmo che stiamo manipolando pesantemente le condizioni per far accadere questo. Ecco perché dobbiamo continuare a investigare e vedere a un livello più sottile. Non c’è nulla per cui dobbiamo giudicarci. Potremmo piuttosto pensare: “Sì, vedo l’inganno. Non mi lascerò ingannare di nuovo. Forse un’altra volta, ma questa non ci casco”.
La nostra pratica di consapevolezza, lo stare semplicemente con il respiro, con le sensazioni, con i suoni, includendo man mano le emozioni e le sfumature delle sensazioni e i pensieri – così come sono – è un luogo dove cominciamo a riconoscere il potenziale di libertà. Non importa di che cosa ci stiamo occupando; è la qualità della presenza mentale stessa a permetterci di vedere la verità. Qualunque sia la natura dell’esperienza, è la nostra volontà a portarci sopra la consapevolezza non-discriminante, partecipe e senza preferenza, che ci permette sempre di nuovo di entrare in risonanza con la pace del non dimorare. Tale momento assomiglia alla situazione dell’ingorgo stradale quando improvvisamente lasciamo andare ogni volontà di controllo. È un rapido momento di vera pace.
Poi la nostra mente concettuale cerca di conoscere e valutare tale esperienza dicendo: “Ecco come ci si sente” oppure “È così che sembra essere” o “È così”. Naturalmente, nel frattempo l’esperienza è passata. Allora ci meravigliamo e dubitiamo e non ci fidiamo veramente. Per quanto mi concerne, mi sforzo talmente tanto a farmi un’idea di come si possa manifestare e come ci si senta quando il cuore è veramente rilassato, come si esprima la mente del non attaccamento che dimentico la realtà, il potenziale di pace qui e ora. Perché in realtà è ovvio ed è sempre disponibile. È così normale che facilmente cadiamo nel cercare qualcosa di più.
C’è una storia nei Sutta Pali che narra dell’insegnamento del Buddha a Bahiya sul vestito di corteccia. Bahiya si era recato dal Buddha mentre questi stava raccogliendo l’elemosina, insistendo che il Buddha si occupasse delle sue ansie. Parte di quello che il Buddha disse a Bahiya relativamente ai sei sensi fu:

Quando in ciò che è visto ci sia solo ciò che è visto, in ciò che è udito solo ciò che è udito, in ciò che è toccato solo ciò che è toccato, in ciò che è conosciuto solo ciò che è conosciuto, allora Bahiya, non sarai in quello, quando non sei in quello, non sarai né qui né dall’altra parte, né in mezzo ai due. Questa è la fine della sofferenza. (Udana 1.10)

Queste parole del Buddha indicano direttamente la fine della sofferenza. Quello che sta dicendo, secondo me, è che non siamo bloccati in questo, non siamo bloccati in quello, come non siamo bloccati da qualche parte tra i due. In quanto esseri umani desideriamo dimorare nella pace, ma i Buddha non hanno alcuna dimora.
In altre parole, non c’è un posto fisso, non c’è un luogo dove arrivare, non c’è nulla da desiderare. Non ci si attacca ad alcuna esperienza. Quando non siamo né in questo né in quello, allora non dimoriamo da nessuna parte. C’è solo la semplicità dell’esperienza, il vedere, l’ascoltare, l’odorare, il gustare, il toccare, il sentire il corpo e l’attività della mente.
Questo è per me l’invito insito nella pratica della presenza mentale. Sembra ingannevolmente semplice. Quando parliamo di portare la pura attenzione, la mente di principiante, su qualsiasi esperienza stia sorgendo nel momento, è proprio questo che stiamo dicendo. Siamo in grado di farlo? Riusciamo a vivere nella comprensione che questo è tutto quello che c’è? Siamo capaci di sperimentare la vita in tale maniera?
Ciò che è interessante è come, spesso, non siamo in grado di farlo, nonostante le nostre migliori intenzioni. E non abbiamo neppure una vaga idea di cosa stia accadendo, dato che aggiungiamo talmente tante cose a livello di percezione e di pensiero. Al funerale di Bahiya il Buddha disse:

Quando un saggio (…) è giunto a conoscere ciò per se stesso, grazie alla sua esperienza, allora egli è libero dalla forma e dal senza forma. Liberato dal piacere e dalla sofferenza.

Liberato dal piacere e dalla sofferenza? Ben poche persone arrivano alla pratica perché vogliono essere liberate dal piacere. Tuttavia è questa la vera libertà a cui allude il Buddha. Liberi da tutti i nostri attaccamenti. E questo è tutto. Questo è veramente tutto. Però è molto, molto difficile portare un’attenzione da principiante sulle esperienze senza conclusioni, preconcetti o pregiudizi. Questo è l’obiettivo della pratica della presenza mentale.
L’invito è alla semplicità. Non è facile. È radicale. In realtà, si tratta della rinuncia più grande, perché ogni qual volta siamo disposti a lasciar andare l’io-mio, il castello crolla. E possiamo lasciare andare. Non dobbiamo por fine a esso; non dobbiamo far nulla, basta lasciar accadere e riportare l’attenzione alla semplicità del sentire, vedere, gustare, odorare, toccare, pensare, immaginare.
È tutto qua. È la rinuncia in un momento, la rinuncia all’attaccamento e all’identificazione che ci permette di vedere attraverso l’intero ciclo del samsara, e che ci permette di interrompere per sempre l’eterno ciclo del divenire.