L’idea di leggibilità del mondo è sospesa, forse è finita. La declinazione più grossolana della tecnica, ovverosia la tecnologia, ha sostituito il paradigma della storia. Tuttavia, quando parlo, e mi capita, di gestazione extrauterina ed extracorporea, di macchina autoconsapevole e autopoietica, di ibridazione animale e robottica, di sostituzione della parola con la telepatia e di opera d’arte con “stati interiori” esperibili da chiunque si sintonizzi con essi, di proletariato macchinico, di rifondazione del protocollo amico-nemico e fine della (geo)politica, di microstampanti 3D interne al corpo umano che sintetizzano molecole medicinali, fino alla nutrizione luminosa – di fronte a queste affermazioni torna il canone personale che non passa: mi sento bollare come un matto. Invece sarà così, è questione di tempo, più o meno lungo. In tutto ciò, ho due problemi. Il meno grave è: dove metto un testo? Cosa e come scrivo? Imitare la realtà o predirla, eccedere in stilemi o in fughe, davvero, mi sembra un’idiozia: ecco come si viveva nel XXI secolo quando? Praticare il racconto mi avvilisce: quella ama quello, quello non la ama, adesso ti faccio vedere la magia delle svolte e dei ritmi della narrazione: mi disgusta, mi dà la nausea. Varrebbe soltanto la poesia, ma non come gesto notorio, che ferma la lingua e inerisce al vuoto, per trascendimento che pare culturale e invece è naturale. Mi interessa una zona immaginifica, mediana, linguistica e alinguistica, un delirio, in cui lo stile c’è, ma è appunto trasceso. Alla fine, molto concretamente, l’opera per me cruciale, a cui mi è stato dato assistere da vicino in questi anni, è davvero il film di Davide Manuli, “La leggenda di Kaspar Hauser”. Lì sento farsi qualcosa, avverto l’iniezione, Artaud abbraccia Dante e l’immagine è tutto: è il buio, è il silenzio di tutti i suoni che dal silenzio scaturiscono. Il secondo problema è: oltre il testo c’è soltanto la chance metafisica. Ci sarebbe da andare anche piuttosto veloci, quanto alla pratica metafisica, perché tra un po’ si muore e poi la metafisica fa lei al posto mio, del tutto naturalmente. Vado a leggermi “La leggibilità del mondo” di Blumenberg, per scrutare quanto una metafora sia oggi esausta e il suo esaurimento impulsi alla prassi metafisica: non esiste altro.
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