“Momento obituario”: una poesia

MOMENTO OBITUARIO

Lo scatto della porta a difesa dell’infanzia
l’uomo nero conosce chi sa e sa che morire è tumefatto
dall’alcool e dal volto che è viola scuro, livido
come un uomo che ha fatto il dovere nella vita:
fare incudine, fare martello, crescere i figli e un figlio segreto
con i risucchi della minestra la domenica investito di luce
dai cortili dei suoi nord privati e stare zitto a dire
che non esiste niente se non un euromissile o il comunismo.
Canone inverso è fare pietà.
Senza stile o metro è di sillaba in sillaba ad andare.
Così porta cadavere il corpo al letto
per fare crepitare andare a portare
un corpo come una volta nel delirio tremens, che portava
a me lamette inesistenti in una allucinazione molto poetica:
“Tieni, – mi diceva – te le dò, sono taglienti” come la mia parola
quando si occupa di te, padre.
Febo che tutto domina ondeggia e si volge a me.
Cinto di salici sono in piazza Martini senza nessuno io.
E’ notte. Fa neve. E’ stanco aere
e fosco. Chiara. E’ qui che crepa e stona
la luce artificiale, nella piazza, senza vita
appariscente. Le persone portano i cani, i latrati.
La radura ha accettato, si avvicenda.
Torno al suo corpo dopo la sigaretta in anticamera, dài.
C’è una polvere medica boracifera tra la sua toeletta fuori luogo.
Che grettezza a restare qui che tu andato vai dove non so.
Perché come se fossero vivi vestiamo i vivi io non so.
Questo era precipitare inerte, dunque: questo.
Compagni amici, denari simbolici
sono i momenti della morte, stati,
e si prende vita in tali stati una luminosità
fatta di miele d’ossa, di catalizzare, di mussola e camola
e sfarinare, che non so dire
incendiario e lento e tale il momento e va
di padre in padre fino a inizio o termine delle umane cose, va.

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