Gloria al corpo intatto dal tatuaggio umano,
se l’incarnato ordina io rispondo.
La metrica mi pretende.
L’antica musica effonde la parola
“parola”, va a fondo di Vesta.
Musica che simula e levità sinuosa
era andare aria in aria a Nimis con te tra i posti
dove muoiono per sempre bambini sloveni
cadendo nel trattore ostentatamente.
Le cirase sono rosse. I luvìni si sciolgono nel sale.
I monti freddi e distanti non sono noi
non sono noi. Arido niente è niente.
Fraternità, oh!, dove sei innata?
Sono come bronzo che risuona, cembalo che tintinna.
A colui che può fare assai di più e immensamente
al di là di che noi domandiamo e pensiamo
per la sua potenza operante in noi a lui la gloria.
“Trasbordo”: una poesia del 1994
E’ stato ritrovato un mio testo poetico che pubblicò la rivista “Poesia” (Crocetti Editore) nel 1994. Faceva parte di un libro, intitolato “Libro bianco”, che andò purtroppo perduto. Ecco la poesia, con la foto che illustrava la sezione dedicata ai miei testi:
TRASBORDO
Il mio battesimo di solo è stato
nel tuo nome che dice: pace
Abitando nel vento i corpi stanchi,
i nostri, saranno tuniche, non più dolori
e che il dolore e questo nocciolo
puro che ci viene incontro e ci spalanca
nelle mani di chi mi viene incontro dice:
abita una parola piccola, una casa piccola
dove il dolore è smesso
Abitiamo insieme la nuova casa dell’amore
ma questa mente che abita non conosce il passo
e i sabati del dolore, le ore bianche
(davanti al suo libro bianco pronuncio i loro nomi:
desiderio, accaduto, basta)
Insieme, mano nella mano, con lacrime, nel sonno
ho sognato questa notte che mi prendevi
e mi scioglievo in te, scioglievo
questa mente della carta, mente incartata
Funzionami, chiedo, mente
tu che sei la sorella, e quanto amore ha dipinto
con la mia mano la mia stanza bianca
dove coprire il capitolo del giorno prima
Ora che io sono stanco, che io sono questo
– guance, pensieri, sentimento –
preparatemi, stanze, alla chiamata dei trasbordi
come bimbi che si sporgono io sono
piccoli uomini del senso, noi diciamo:
basta, accaduto, desiderio
e un vento buono
di fiori farà il corpo, una strada
bianca, lontana, tutta curve e calma
ma con dita bambine capaci di segnare noi siamo
cifre grandi, lacrime, finestre appannate di fiato.
“Sospiro”: una poesia
Sospiro dove requie ha i morti: chi sospira?
Doloso è sentimento dattorno i morti: di chi è dolo?
Vanno, vaporano, vanno via
i cigli artefatti e le scoscese
dei corpi di sanità in sanità riduplicandosi
e il cielo è un bioma e è male
l’immenso cielo che ci è madre e padre
traslucendo, nucale, il dio
di tutte le materie create, sono create
tutte le materie e gli anni sono i visibili:
crea me un furore, un sebo, legni-ossa
e un intelletto attivo di papaveri e di storia
come ultimo cinghiale preda di nobili
trappole, quando giungono a finire aristocratici
e finzionali silenti i passatori
e le navi sono gelide
e io grafite faccio, io respiro faccio grafite.
“Entrare in una evoluzione”: una poesia
Entrare in una evoluzione
era sentire la brina di aprile muovere sentire e muovere
verso lo stadio di nessuna istituzione
e essere, semplice essere,
come profumi tu, morto nel 2006,
urlo altissimo la sera
di tutte le sere, stelo altissimo,
lancio nomi contro me che pure vivo
o padre, o figlio, o dei brividi di aprile.
Tu componi le membra, o padre,
gli sono morti i figli, tutti,
con enfasi a sparire era un pianeta,
tra steli altissimi compivamo il padre
privi di immagine, di sillaba, di atto
e della regina colpa e grafia
sui cuori, colpa e grafia
su duri sassi, su massi oscuri
dipingere era spingere di sé in forma a andare
male, con enfasi la terra, male
fare, spezzare, lo stelo, padre,
altissima forma, padre,
ode, solenoide, sodale,
padre che niente è se non a niente guida
e niente è sicuro, ma vivi.
“Il tempo redento”: una poesia
Il tempo redento
Più vasta orma stampare
voleva tredicenne chinando
il capo sul capo
del padre, chino, con il sondino nasogastrico:
“Più vasta mi ferisce la fronte una bellezza
azzardando lo sguardo oltre l’olmo
e la boreale al padiglione Granelli
è è di te e della colonia Mennen
e le mille aure e i momenti silenti
di dì in dì ad andare a fare male
a se stessi e alla gentrificazione
futura: fu un’avventura, vero?, tra me e te?”
al che rispose la figlia in forma di ombra velata
scostando i paramenti del futuro apparsa
onda di lamento, fantasia ai campi
d’onda: “Voi non siete
se non un tempo leggere e abbandonare
come teste di vati.
Senza ricordare, bianca forma a me cara tanto,
so che tempo è schianto e stare
in un lievissimo trapassare
disunitamente stare”
e dicendo svaniva
e nell’amorosa giornata allieta
trascolorare, disunitamente, andare
fine, feconda, vita, gemma
vertiginosamente.
“Alleanza!”: una poesia
Alleanza! Alleanza!
Chi meditò il fato, chi l’inferno.
Non i nomi vivono della custodia
delle forme, delle morti, Federica.
Crisi sorella a noi è un’arte panica
e la sorella storia, i suoi nichel, i mandamenti, i chili
e quanto fu dato in sorte ridere a noi, o cuore.
Si avanza Stalin nella Neva avvinto
da non so che rancore, nella neve avvolto,
la neve, avvolta, pallida strega, la storia, pallida
di antichi eventi e la neve
canta tra i venti.
Voluminoso io
sta dove viene un canto, fervidamente,
severo, un inverno fa una rivoluzione,
rivolta ai medici miei la voce quando si chiusero le chiese.
Alleanza! Si chiese amore e quasi febbrile si ebbe fremito
che si sa non dura. Venne neve dura,
avverto febbre, il mio stare male, e, dio mio,
io svanisco.
Niente ha di spavento la voce che chiama me proprio me.
“La prosa non serve a niente”
Nella domenica dopo le palme stagliate contro il cielo di un falso colore, un’aberrazione, è grave il pensare, trascorso a bere tra i pensamenti gravi e i falsi colori mentali a barlumi, il tempo è santificato, il tempo è sanato, noi siamo dispersi. Crediamo in un amore che regge le esseità. Chi procede verso la carne è metallo. I pontefici hanno abolito i limbi. I bambini trasformano la carne in metallo. Cade neve dove non c’è luce. I poeti furono santi, non lo sono più, ogni tempo è caduto, ogni buio è santo. La luce mutata è laica, io non è sacro momento di immagine crepata in immagine bruciata, carta velina, carta chimica, rimuoviamo le tracce e ripetiamo una poesia di Yves Bonnefoy, scritta su pietra, donata aperta, chiusa e serrata in sé come le poesie di un tempo di metallo non sanno di essere sempre, le poesie sono in un sempre più corto, commisurato alla sedia che travalica l’età dell’uomo, legno lavorato e nudo, nel campo, dopo la fine degli uomini tutto esiste nudamente stando in sé, serrato e aperto, privo di seduzioni, il tempo seduceva e noi andammo a cecità e, morenti, eravamo inchiostro e pietra scritta, eravamo carne e carnevale, festa della mente davanti ai giocattoli antichi nelle sentine, avevamo paura, il poeta ci consolò, proferì parole metalliche, la carne tremula in fuga, l’astro spietato, le geometrie, i dittatori e la prosa che non serve a niente. Disse:
“La luce, mutata”
Non ci vediamo più nella stessa luce,
i nostri occhi e le mani non sono più gli stessi.
L’albero è più vicino e più viva la voce delle sorgenti,
i nostri passi risuonano più profondi, fra i morti.
Dio che non sei, posa la tua mano sulla nostra spalla,
abbozza il nostro corpo col peso del tuo ritorno,
completa l’unione delle nostre anime con gli astri,
i boschi, le grida degli uccelli, le ombre e i giorni.
Rinuncia te in noi, come si lacera un frutto,
cancella noi in te. Rivelaci
il senso misterioso di tutto ciò che è semplice
e, senza fuoco, seme caduto in parole senza amore.
“La lumière, changée”
Nous ne nous voyons plus dans la même lumière,
Nous n’avons plus les mêmes yeux, les mêmes mains.
L’arbre est plus proche et la voix des sources plus vive,
Nos pas sont plus profonds, parmi les morts.
Dieu qui n’es pas, pose ta main sur notre épaule,
Ébauche notre corps du poids de ton retour,
Achève de mêler à nos âmes ces astres,
Ces bois, ces cris d’oiseaux, ces ombres et ces jours.
Renonce-toi en nous comme un fruit se déchire,
Efface-nous en toi. Découvre-nous
Le sens mystérieux de ce qui n’est que simple
Et fût tombé sans feu dans des mots sans amour.
“LA RISORSA UMANA”: una poesia
LA RISORSA UMANA
Distante la sponda, di provenienza, nero e vivo
il corso della fiumana, tu cadavere, o come tale,
ad attraversare la corrente del pensiero fisso.
Mura di case, ampie, in cemento ed egizia
la betoniera nell’infanzia
madre di tutti i diritti, e degli empiti,
è sempre stato precipizio vivere, madre,
poco amore, pochissimo amore
tra le cose ciniche e fitte
finché si arroventò: rovesciandosi.
Da un futuro mi provengono i volti, amari, gli empiti, le cose fitte
e di passato in passato sono stato erede di quanto bastava
e non basta più: evo per evo, e di volto in volto,
un adulto, visto di schiena, cammina, tra le tracce
in una svolta di città deserta
di città ebete
tra fogliame accartocciato in ruggine che brucia
nella pioggia che rende più deserta la pioggia
io, pronominale, tra ammoniaca e fremito,
privo di monili, di lavori, quasi Creso
non avesse nulla. Si fa portatore
di polline la natura
del polline. La terra è i mercati.
Compagni, dove siete? Dove andate, ignoti?
E’ caduto il diritto delle genti
in un disuso, dove piove, sterile sui terrapieni
tra Darsena e me, la risorsa umana:
era Milano un bilanciamento di dominazioni incomplete,
era Milano fisso stellare occhio serrato che spalanca dentro,
era dentro niente, io, me, uomo e prezzo,
salutavamo i nipoti sui prati dietro casa la vigilia assolata e i nuovi bambini,
i nuovi bambini stanno lavorando al guasto.
O dominazione!
“LO STATO DELLA STRAGE”: una poesia
LO STATO DELLA STRAGE
Carriere italiane unite, vi sovviene un’eternità.
L’angelo Tutti viaggiava già unito, sovente, assolato,
nell’autostrada di Sole,
dove le mafie e i terroristi azzeravano
tempo che “fugit”. Azzurri meriggi estivi,
febbri d’agosto io vi ho amato tanto.
E specialmente, e specialmente, quella
ad agosto deflagrazione dei musei intimi rotti
azotati dentro intensi i vapori del dopobomba,
delicate le mutilazioni collettive,
le vostre, i risguardi
del Sole un allibimento e nell’odore
di stagno di zinco di sangue di sole
il due di agosto alla stazione di Bologna dimenticando
organi, catarifrangenti di taxi alla deriva tra le macerie
chiamando me a testimonianza nella tv di Stato
e mia sorella decenne nemmeno, dispersa in dell’acciottolato
che era stata la sala attesa, senza messia o sfoglia
l’acciaio dei travi quasi petalo dopo petalo
non disperando di ritrovare il filo rosso sangue
tra una rovina e una mano dissepolta
che è il nostro tragico memento:
è italiano.
Non disperare in italiano.
E’ una lezione, è un ravvedimento
nazionale che i video rimbalzavano
in frame tra le galosce e i pedali
e le pareti scrostate e magre
erano le insegne bolognesi, i ravvedimenti.
Questo fascismo noi ve lo inculcheremo
secondo voi tragico e secondo noi normale
e lo insedieremo sui troni dove vostri animali
spritualizzano che è famelico
ritenendosi re non italiani
noi, gente sicula, o ubriachezza di azzurri
striati da cirri e deità innumeri
dove la repubblica è olimpo e partenone
è l’occhio di Plotino
fisso tra le Calabrie fantastiche, verdazzurre, e i lincei
del mondo unificato alla radice centrano
lo sguardo non iniquo dei cadaveri prodotti
in pietà ardore malattia
finché non si contino nei calendari altri dì
che il 2, agosto, 1980,
un’esito magistrale, un’azzurrità immensa
è italiana la forma della morte.
“LA PAROLA BLESA”: una poesia
LA PAROLA BLESA
a Mario
E questo era il bene…
Mantenuto a distanza, manutenuto bene.
Come sprofondano le strade i deserti, come hanno
l’anno cattedrale ricordo credito crudezza.
Lo tengono prigioniero, nessuno cuore è disadorno
per me non più. Tu credi uscire nella stanza vasta
mensa di reparto protetto, tra stanza e stanza,
artigliando le giunte, sbagliando i residui
di quanto eri poeta vero, Mario, e sei
non andato tra noi e fuori. Dove non so e non sai.
Padre impietrito, identico a te, andava in un Camerun a miniera
e vedeva la tosse scuotere i resti in futuro poveri: è vero?
Nel silenzio sappi
gioire e soffrire
con una tessera di Ministero della Guerra
nella stanza santuario della madre superiore
all’immaginetta della santa e alla statuina di acqua benedetta azzurra?
O azzerare: grazie.
Grazie, che azzeri.
Lugliena è l’uva a Attimis una parola e caglia.
Guglie svuotate: dove ho sbagliato?
Disgiungo luce da luce con i pensieri della luce, penso: luce.
Penso: sorella. Penso: e questo è il bene…
Grembiale della madre, male di credito
e, ovvio, di creditori, vita dei creditori
che siamo, figli fratelli amici: cosa? Questa era la cosa?
Vado per venire un poco più vicino a niente
e scolpita la statua di me stesso sta e vede
cose sublimi discolparsi le ossa
ascoltare parole non più:
perdono, alma, lontananza, io vado a zero.
A zero di universo è cosa sublime splendente non tanto amata e lo era
lo era assistere, ah!: assisteva.
Scomodo testimone è stare in delle forme
stare delle forme è essere dimenticando se stesso e tutto oltre va
riunito a sé e me privo di immagine profondo
«ADULTA INTENDO SCRIVERE I LIBRI NERI IO»: una poesia
«ADULTA INTENDO SCRIVERE I LIBRI NERI IO»
Su fondamenta instabili tremavo, padre,
e alla figlia indicavo abbagli, lanci d’ossa, cadere
rapido di forze e oscure remore, infanzie, scosse.
Credo nel sepolcro disfavilla.
Salici nei fiumi amabili,
pioggia scrosciare sa di sentire l’uno
e l’altro su due rive posti, l’uno e l’altro, alti e fiorenti,
pensieri che alti non so.
La domanda dei padri fu uomo, quando?, crederai a che non è visibile?
La domanda dei padri dei padri fu: uomo, fumo, quando vedrai che non è visibile?
Torno alla figlia, è favilla. Non è oriente
che sia, non punto, non passer mortuus est!
Indaga la morte privata aggredendo le tracce sui muri, le impronte, un anello
della catena non tiene e corona martìri
di una realtà attorno, indaga.
Quanto verte su di me di esperienza di umano
sentire albe e tramonti insinuarsi tra alba e pensiero
e pensiero e tramonti,
padre, soccorrendo il trauma e lo carezzi.
Carezzare traumi era tanto, era tutto.
Creerò tra battiti di palpebra, creerò?
Crinale, sono alito, non trattieni, io cancello quello
disfacendo che ho fatto male, nella vita, molto male, portando a pena tutto.
“PANICO E’ L’ETA’ PIÙ DOLCE, QUALE?” – una poesia
PANICO E’ L’ETA’ PIÙ DOLCE, QUALE?
Giugno 2016 che cedi
il panico a panico e esiste
l’infanzia e l’anziana, età, e l’adolescenza e la primizia
nella ragazza china davanti allo schermo elettrico e dolcissimo
a fare forme che non esistono senzienti e sento in modo atro, madre.
L’oro non si corrompe, la verità è sovrana, il fumo è senza effetto.
Danza delle madri, delle madri prime
che concepiscono i poteri
ultime. Ultime madri sono le note
e conosciuta la nota le si è madre. E arde.
Panico di tutte le cose è maternità asserita
senza essere di oro, essere aurea e dire solo perde
senso e la materia è di mota, è di morta
sensazione di Canova che fa una madre alabastrina
in una stanza ampia, in piena estate in ombra
un uomo, vuoto, in un posto vuoto fa una statua
piena di estati e gelide le mani vanno a estenuazione
in uno schermo di realtà, in un’erma,
in silenzioso eremitaggio.
Col martello suo grande di nuovo mi percuote, amore.
Nulla ancora e nessuno, occhi, vedeste.
La ragazza è china con una testa che è regale dentro l’oro di forme e forme.
Vado dall’esterno all’interno facendomi vicino ovunque.
Vengo dalla mota, madre, grazie a te: sia grazie a te.
Eremo e panico sono norme umane e periodi di tempo
scaduto a norma, non è era nelle mani gelide e dove
io, forse, un’ombra vidi, un’ombra errante
fasciata d’ombra, armata d’ombra, amata ombra e ero io.
[L’immagine è un frame dell’installazione video Outer space di Federica Intelisano, il quale è visionabile qui]