Il critico Carlo Baghetti su “Archivi900” pose nel 2014 alcune domande abbastanza decisive, a proposito di letteratura, avanzamento dei generi, trasformazione antropologica compiuta o imminente. Ecco il testo dell’intervista in integrale, tra “True detective” e Cormac McCarthy, Micheal Mann e David Lynch (nell’immagine), Don DeLillo e Philip Roth, Walter Siti e Wu Ming, Tommaso Pincio e Michele Mari. E la mediatizzazione che precedeva l’avvento dell’intelligenza cosiddetta artificiale, oltreché della pandemia e di ciò che ne è conseguito. Un’intervista dall’era precedente, dunque: tutto ciò che vi è chiesto e asserito è ormai terminato e consegnato definitivamente a quel tempo e soltanto a quello.

1) In che modo la parola narrativa è condizionata dal regno dell’immagine e della serialità?
Anzitutto bisognerebbe stabilire se, a oggi, esiste una “parola narrativa”. L’immensità del rumore di fondo, che mi pare non essere più tanto di fondo, costringe a riflettere su quale parola sia adatta a narrare o, addirittura, se la parola narri tout court. La mia posizione personale, tutta giocata sul presente e quindi priva di connessioni con la tradizione dei canoni letterari, è che la parola si sia fatta ubiqua, rarefatta, atmosferica, al pari della narrazione. La narrazione stessa, per come la si intende oggi in Italia, ma direi anche oltre l’Italia, nell’occidente in senso geografico, mi sembra avere raggiunto estensione enorme, perdendo in intensità. Provo a fare un esempio, che è puramente emblematico. La parola narrativa sta all’origine dell’esplosione dei serial televisivi, britannici e statunitensi (la fiction televisiva all’italiana non ha consapevolezza né della parola né della sceneggiatura né della riuscita filmica, quindi è distante anche dal sembrare un prodotto creativo). La parola narrativa è in questo caso la parola della sceneggiatura e dei dialoghi. Assistiamo a un notevole rilancio, apparentemente umanistico, della tragicità e della sentenziosità dei dialoghi, in contesti seriali e televisivi. Certi serial appaiono come riprese, almeno quanto ad ambizioni, di grandi narrazioni. Tuttavia la dimenticanza, l’oblio istantaneo, la pervicacia di queste parole a non risultare che memorabili in una transitorietà assoluta segnala il logoramento estremamente veloce di questa finzione di umanismo. In una ottima serie recente, True Detective, prodotta dalla HBO, uno dei protagonisti, l’attore Matthew McConaughey, ridotto come una comparsa di una narrazione a firma Cormac McCarthy, domanda a due poliziotti, che lo stanno interrogando, se abbiano dei figli e, alla loro risposta positiva, parla come un Isaia o un cattivo maestro tibetano: “Avete dunque ceduto alla ybris di trascinare le anime dormienti dei vostri figli in questo universo di carne”. C’è qualcosa di eschileo, ma manca Eschilo. L’attenzione difetta, la memorabilità crolla verso un’indistinzione, la parola sembra impotente a marcare il momento significativo. Non che a tutto il contesto sia sottratta un’oncia di bellezza. L’esasperazione e l’enfasi della narrazione, la quale divora la parola, ha condotto a una secondarietà della parola stessa. La parola narrativa o è parola poetica o non è. Per stare al nome fatto, quello di Cormac McCarthy, basterà constatare l’andamento poematico di uno qualunque fra i suoi romanzi, per sperimentare la potenza di una parola che descrive e che si sottopone a serialità: si pensi a quanto accade ne Il buio fuori o in Figlio di Dio. La narrativa che si sfrangia progressivamente, approfittando dell’usura della propria parola, e va a innestarsi nel poematico, trattenendo zone di universalità che pertengono alla tragedia classica o all’epos o alla lirica, è l’unica narrativa che mi sembra vivente e innervata in una lingua, oggi. C’è una parola di finzione che sta determinando l’impallidimento delle suggestioni letterarie provenienti dagli Stati Uniti, da Chabon a Franzen, per fare due nomi di scrittori un poco cresciuti (ma fuori dagli States il discorso non muta: basti considerare Murakami). Poi c’è una parola che si installa in un ribaltamento delle strutture narrative, dei calcari a cui i generi narrativi hanno sottoposto la narrazione tutta: penso al DeLillo post “Underworld”, a Houellebecq, a Vollmann, a Littell, a certo Enard. In Italia il discorso è più difficile a farsi, poiché qui mi sembrano perdute sensibilità alla poesia e al lavoro sulle strutture interne del romanzo.
2) Come il romanzo riflette il mondo della produttività e del consumo? Quali possibilità d’intervento restano oggi agli autori di narrativa?
Il mondo del consumo non è un mondo, ma una fase dell’immaginario, che collide con il politico, fino a coincidervi. Non esiste – almeno per quanto riguarda la mia sensibilità – né una forma rigida “romanzo” né una declinazione mimetica come fu quella di “romanzo industriale”. Non so, mi pare un dibattito, di cui osservo la permanente esistenza in vita, viziato da categorie paracritiche molto italiane, gemellare all’equivoco con cui si è affrontata, in un dato tempo, la situazione del postmoderno in letteratura. Allora “L’arcobaleno della gravità” è un romanzo di guerra? E poi: è un romanzo? Oppure “Tempi difficili” di Dickens è un romanzo di romanzi di genere “industriale”? Non regge. Mi pare proprio che ciò derivi dalla povertà culturale del dibattito italiano nei Sessanta e Settanta. C’è una comica dichiarazione di Alberto Arbasino, rinvenibile oggi su YouTube, il quale, durante la premiazione col Campiello alla carriera, a una domanda sulla differenza tra la letteratura di quando era giovane e quella odierna, risponde che oggi è tutto penoso, prova disagio, una volta c’erano Gadda e Palazzeschi, oggi non c’è cultura. La verità fattuale si è dimostrata questa: la generazione di Arbasino non è stata capace di intercettere umanisticamente gli smottamenti e le evoluzioni plurime dell’immaginario collettivo, è risultata inefficace nel fornire strumenti di comprensione circa la fisica e la metafisica della tecnologia (compreso l’allunaggio), non ha saputo definire lo spazio di un continuum o di un discreto tra poesia e prosa, ha discusso in maniera molto astratta sugli stili che sono esattamente ciò di cui oggi non esiste la benché minima consapevolezza. Non è l’orbe terracqueo e la storia umana che sono andati male; è proprio quella generazione di intellettuali italiani che è risultata deficiente rispetto all’interpretazione del mondo. E’ stata consegnata alle generazioni italiane successive una situazione di confusione e moralismo abietto circa l’idea e la pratica del romanzo. Hanno coltivato una passione viscerale, o piuttosto automatica, per lo strutturalismo e il post-strutturalismo, senza vedere che le strutture avrebbero forato la storia della televisione, del cinema, dell’emersione di nuovi schermi e inediti rapporti. Si tratta delle medesime persone che hanno abolito qualunque tratto metafisico inerente al dibattito critico o alla composizione di scritture, poetiche o prosastiche. L’equivoco circa la mimesi e la rappresentazione del mondo lavorativo o del consumo nasce lì, per quanto riguarda noi italiani. Allora diranno sempre: “Eh, Volponi…”. La traccia mitografica è al momento affidata a uno spontaneismo piuttosto diseducato, anche grazie alla collusione che si verificò tra intellettuali o artisti e universo produttivo capitalista. Ovviamente sto dando una lettura di quanto avvenuto in Italia. Se parlassi da scrittore statunitense, il discorso sarebbe davvero differente.
3) Come è cambiata la letteratura nell’impatto con la mediatizzazione?
E come è mutata a fronte dell’aumento di velocità e quantità di informazione? Si è trasformata con l’avvento del treno, dell’automobile, del teratocapitalismo? Ravvediamo una risposta o un adeguamento all’oggi in “Europe Central” di William Vollmann? Come mai in “Vineland” di Thomas Pynchon appare, in una sagra dell’immaginario collettivo e gergo mediale degli Stati Uniti dell’epoca, la figura neomelodica e transustanziata di Claudio Baglioni nella scena di una festa nuziale? Oppure si consideri il genere saggistico narrativo del biopic: c’è differenza strutturale, immaginativa, ritmica, stilistica e sociologica tra la narrazione di Gilles de Rais e quella di Steve Jobs? In pratica, mi pare che la questione non si ponga. Si pone soltanto attraverso i filtri della sociologia della letteratura, una disciplina per me poco appassionante e che incredibilmente ha preteso, in certe sedi accademiche, di fare la voce critica, la voce grossa. Sono ingenuità che la letteratura non percepisce nei suoi canoni poliformi e sempre varianti. Ricordo Valerio Magrelli, in epoca predigitale (“epoca”!), leggere a una presentazione di un monografico “Panta” (la rivista edita da Bompiani) una poesia sul fax. Anche in questi giorni Valerio Magrelli replica la mossa, pubblicando in copertina della sua ultima raccolta einaudiana di poesie, “Il sangue amaro”, versi in cui ricorrono, oggetto di ironia abbastanza facile, parole della neolingua, che viene unilateralmente considerata un’antilingua: i codici PUK e PIN, per esempio. Non credo si tratti di una preoccupazione autentica per il farsi autentico di una letteratura autentica. Davvero William Vollmann è oggi, insieme a Michel Houellebecq, lo scrittore che meglio e più al mondo mi pare attingere dal pop del nostro tempo e non mi sembra che la sua letteratura risenta dell’impatto della mediatizzazione, o dell’ipermediatizzazione, quando racconta degli eschimesi o dei vichinghi o dei mujaeddin afghani. Inoltre si può riflettere circa l’impatto che la meccanizzazione dei processi produttivi e personali sortì sull’opera di Franz Kafka: ispirò forse il complesso apparato da tortura mortale di “Nella colonia penale”? E’ ovviamente un processo paradossale, a cui ricorro. Non intendo davvero affermare che la letteratura non ha rapporti con tutta la storia e, quindi, anche con quella presente, però mi pare che sia tutto fuori fuoco, formulando domande del genere. C’è una continuità che inquieta e vibra nel lavoro cinematografico di Micheal Mann, il quale è autore di un film predigitale come “Manhunter”, che è del 1986, e anche di “Collateral”, che è del 2004. La rincorsa a una retorica di specie mediatica presuppone sempre e comunque la questione di una mimesi del reale, antica e vexata quaestio, certamente, che però si declina in un modo decisivo se si segue la pista aristotelica, la quale conduce a determinare origine e sviluppo ed esiti del tragico, mentre è fuorviante quando si dà per scontato il “frame” novecentesco, per cui la struttura si insinua nei rapporti tra “reale” e “immaginario”: è proprio quest’ultima climatologia psichica, l’“immaginario”, a essere messa in forse dal nostro presente.
4) La diminuzione dell’importanza della parola scritta nei confronti dell’immagine è vissuta con imbarazzo o è una possibilità nuova per l’espressione narrativa?
Mi pare che sia necessario chiedersi fino a che punto ciò sia vero. Prendo spunto dal dato sociologico dell’impazzimento di scritture (ideografiche, brachilogiche, addirittura atestuali) nel tempo della comunicazione digitale, che grazie ai device molteplici e ai plurimi effetti di Rete (Web, social, mail) viene massivamente utilizzata, distorta, abusata forse. La temperatura della parola è oggi alta tanto quanto l’immagine. Un sms fa da contenitore a un’intensità egoica almeno pari a quella che arroventa un selfie. Queste sono parole narrative? E quelle immagini sono davvero immagini? Apparentemente no. C’è una delocalizzazione di sedi normativizzate, tra cui quella della testualità artistica, che pare confondere le idee. Tuttavia, da scrittore, mi sento spinto e perturbato dalla potenza di narrazioni per immagini quali, che so?, i film di David Lynch o di Nicolas Winding Refn o di Béla Tarr. Credo che la deriva dell’approccio fenomenologico in quello warburghiano sia un’ottima chanche critica per apprezzare le interazioni e i rimbalzi tra parola e immagine al giorno d’oggi. A me interessa però ciò che trascende il linguistico, il poematico, la narrazione. Sono interessato alle immagini, da scrittore, almeno quanto poteva esserne attratto Constantin Brancusi o Mark Rothko. C’è un delirio genealogico che appare spettralmente nel fracasso quotidiano occidentale, mentre c’è un registro del silenzio, che non è né genealogico né semplicemente mnemonico, nel canone pratico dell’arte, inclusa la letteratura, e questo secondo me avviene sempre, a prescindere. Poi è chiaro che ci sono influenze temporali, di temperie, geografiche, sociologiche, politiche, congiunturali…
5) Finzione, realismo, auto-fiction, non-fiction? Quale delle tre forme narrative ha vita più facile oggi e domani? Perché?
Ecco dunque ancora il nodo novecentesco che, come ultimo parto, diede alla luce certa “filosofia della differenza”, a fine Settanta e inizio Ottanta: si tratta ancora del rapporto tra realtà e fantasma, tra vero e falso, tra oggettività e finzione. Sembra che l’identità o, meglio, l’autoidentificazione facesse da perno a tutta questa piattaforma, basculante tra esistenzialismi per nulla assoluti o assolutori. L’autofiction in Italia è un paradigma istantaneo che certa critica italiana, davvero molto ingenua, ha desunto dall’incontro con un testo che le è parso “autentico” sul piano artistico, e cioè “Troppi paradisi” di Walter Siti, col suo incipit emblematico e frattale, peraltro desunto da Satie (“Je m’appelle Érik Satie comme tout le monde”). Se allargo l’attenzione a un più significativo orizzonte storico e geografico, cosa diremo di testi come quelli di Tom Wolfe o Norman Mailer tra i Sessanta e i Settanta? Come reagiremo all’“Operazione Shylock” di Philip Roth, la cui pubblicazione data 1993? E cosa diremo del fatto che la critica americana lo ha premiato con il premio PEN/Faulkner per la fiction, l’anno successivo? E il journal impazzito che è lo “Zibaldone di pensieri” di Leopardi, autentica germinazione della prosa italiana, con la sua autonarrazione tutta vera, tutta veridica? Stando all’Italia, basti pensare a certi titoli apparsi intorno al 2000, come “M.” di Tommaso Pincio, “Tu, sanguinosa infanzia” di Michele Mari, oltre a tutta l’operazione “Luther Blissett” del collettivo bolognese divenuto poi Wu Ming – la questione occasionale, forse scatenante, è identitaria e confusiva rispetto alle categorie stesse di narrazione consolidata per “generi”. Mi pare che già in quella stagione la questione del realismo finzionale e dell’autofinzione risultassero superate, in maniere profondamente diverse tra loro, comunque rovesciando i paradigmi immediatamente precedenti.
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