Tra concetti fluidi e analogie creative, tra esperienze di canoni disciplinari e determinismi, tra idealizzazioni dell’esame universitario o di maturità ed emergentismi, tra analisi e sintesi, io non ho altra possibilità che il fare. Il mio fare è, in qualche modo, il fare un testo. Da decenni sono automaticamente avvilito al pensiero e alla consapevolezza di conoscere davvero poco, e dico nozionisticamente, quasi che io dovessi essere ciò che non sono, ovvero un critico, e non uno che, il libro, lo scrive. Non mi è ancora riuscito di “coscienzializzare” il fatto che la mia comprensione del mondo e di me stesso avviene nel fare un testo. Non sono mai riuscito a raggiungere il livello del piacere di leggere un testo: l’ho sempre letto per rubare meccanismi, parole, flussi, per costruire teorie e decostruirle appena venivano accennate o rese implicite o esplicitate. Ho in pratica sempre letto da scrittore: in pratica, letteralmente: facendo una cosa, facendo prassi, praticando. Mi è stata data in sorte una fortuna, che era quella di operare in un mondo che considerava il testo un’evenienza necessaria o perlomeno importante. Ciò significa avere avuto la buona sorte di esperire un magistero intorno a ciò che è il leggere e comporre un testo, poetico o prosastico, artistico o saggistico.
Mi rendo perfettamente conto che oggi non è più così. Incontro pochissime persone interessate al testo e, se si scende a un livello di reificazione del testo stesso e cioè il libro, ho a che fare con pochi soggetti che attribuiscono al libro un valore veritativo. Il momento e la situazione che stiamo vivendo, con la sua perenne e troppo intensa stimolazione del sistema nervoso centrale e di quello periferico, mentre il tempo è eroso e non si trovano spazi di pace e sentimento di se stessi, questo panico generalizzato a intensità più o meno bassa, che è un adattamento agli stimoli imposti dal mondo stesso – questa congerie che si chiama Italia 2016 è del tutto disinteressata a inserire tra gli stimoli la lettura di un libro. Il piacere della novità, di una “scena” artistica che regala passi in avanti nello sviluppo delle arti, progressivo e sociale, sembra un esotismo che appartiene a un secolo andato, laddove si ha memoria di un tempo più calmo. Come occuparsi di se stessi, di sentirsi, di essere visti e ascoltati è, a mio avviso, un problema determinante di chi vive insieme a me un simile contesto storico. Per questo ritengo che la cura di sé sia un affare da scrittori e propongo uno spazio in cui il sentimento di se stessi sciolga ciò che impedisce un pieno contatto con la propria mente, il che significa anche con il proprio corpo, con la propria storia, con il proprio apparato emotivo. Questo filtro ostativo è la psiche. La psiche non è la mente. Essa simula un’autonarrazione che è oggi generalmente fallace, perché non restituisce senso a ciò che si fa e che si vive. La psiche manifesta la difficoltà a stare in contatto con la mente, la quale è la potenza di sé, è vasta molto più della funzione psichica. L’ansia generalizzata è risolvibile agendo sulla mente, sul sentimento di sé, molto più che sulla psiche e non sto nemmeno a dire del tentativo di soluzione attraverso il corpo, per esempio con la cura psicofarmacologica. Non che non servano gli psicofarmaci a mettere tranquilli, se la situazione del soggetto è quella sismica e panica. Ciò che sfugge in questo intervento attraverso la chimica cerebrale è il senso di sé, e quindi del mondo, che non risiede nel piano psichico, ma in quello mentale, che laicamente definiamo “esistenziale”. Serve un intervento sul senso, sul senso di sé. Da scrittore posso dire che questo problema del sentimento di se stessi è identico a quello che colpisce il sentimento immersivo della lettura riuscita. Ciò accade anzitutto perché qualunque piano di qualunque umano vivente nell’attuale contesto si presenta in forma di testo e tenta di trascendere la testualità, facendone continua esperienza. La volatilizzazione dell’esperienza testuale mette in crisi l’intero sistema percettivo, non la testualità, che persiste come funzionamento del mondo e di se stessi. Nel saggio “Io sono” (è edito da il Saggiatore) espongo i principi di una terapia della mente, intesa come nuda attività di coscienza e percezione di sé. Tale terapia enuncia la possibilità di un rapporto di cura di sé e della propria vita, che può essere interpretato come counseling, cura coscienziale o esistenziale, auditing attivo, ascolto trasformativo, neopsicologia.E’, insomma, la premessa a un’alleanza concreta che sciolga il problema del senso, ovvero lavori su un’eziologia coscienziale del complesso psichico. E’ dunque anche la premessa per un intervento concreto: è un lavoro ed è identico alla scrittura di un libro, praticata insieme – io, lo scrittore e terapeuta, insieme al cliente o paziente, a sua volta scrittore e terapeuta di se stesso. Il dipinto di scuola tantrica del XVII secolo, allegato qui accanto, significa di fatto la situazione esterna e interna di tale terapia Quando parlo di testo o testualità, del resto, non intendo esclusivamente qualcosa di scritto, bensì la trama e l’ordito e il vuoto interiore ed esteriore in qualunque manifestazione che venga percepita dall’umano, con qualunque senso, specificamente con il senso interno, che sintetizza e restituisce appunto una testualità. Il dipinto tantrico è dunque un testo ed è la situazione terapeutica a cui mi riferisco. Questa situazione è uno spazio in cui avviene il testo, tra due persone, all’interno delle due singole persone. Ciò si dice, nel momento in cui appare la parola: letteratura. La letteratura non è intaccata dal momento storico, mentre ne siamo intaccati noi, il che definisce un problema non letterario, che la potenza del testo è in grado tuttavia di risolvere a pieno.
Il buco nero della consapevolezza: in vista della #A.I. Forte
Uno dei punti ciechi dell’immane movimento umano, in questi anni protagonista di un trascinamento verso l’emersione di un’intelligenza non umana, e cioè suppostamente macchinica, è che non viene pensata o discussa la questione della “consapevolezza della consapevolezza”. Si tratta della metafisica pratica. Da un lato, la convergenza scientifica a cui assistiamo invera come storica la prassi metafisica; dall’altro, manca la variabile fondamentale, cioè “la consapevolezza della consapevolezza”, non in termini di semplice intelligenza. Questo è un fatto che era prevedibile, in quanto la tradizione occidentale umanistica, o latamente culturale, non ha compreso nulla da secoli, quanto alla consapevolezza. Assisto quindi a un paradosso interessante: non si fa altro che stare a vedere quando emergerà l’autoconsapevolezza di un’intelligenza suppostamente artificiale, ovvero non umana o “biologica”, e, d’altro canto, nessuno si occupa realmente della consapevolezza. E’ un paradosso facile da sciogliere: l’inorganico è cosciente, a priori. Tutto ciò che esiste è cosciente. Di qui, immense prospettive materiali e prossimamente storiche, che vedo nessuno vedere. Ciò mi allibisce, come sempre, come da sempre mi capita nell’esistenza. Una volta ritenevo che l’allibimento fosse il rovescio della medaglia di una mia irregolarità patologica, probabilmente psicopatologica. Oggi non penso più in questi termini. Constato semplicemente che non si sta sul fatto più naturale che esiste. Pensiamo a una migrazione in un’intelligenza massiva di ordine oggi detto “virtuale” e pensiamo che quell’intelligenza calcoli, esorbitando il calcolo umano, il fatto che il silenzio e la potenza non configurata in atto è ciò che va fatto. Avremo un universo in meditazione, che è quello che già abbiamo. Tutta la singolarità tecnologica e i futuristi più interessanti non considerano minimamente il fatto che la consapevolezza non è ciò su cui stanno lavorando. Ciò non espone ad alcun pericolo. Qualunque pericolo si affronti o rispetto al quale eventualmente si sia spazzati via, infatti, avviene soltanto nella consapevolezza che è coscienza che è essere presenti, anche se non c’è nulla che si vede, anche se non si è frontali. E’ comunque una riflessione che meriterebbe almeno un lab in cui alcune menti ragionano di questa cosa, ovviamente secondo configurazioni disciplinari e risultati anche pratici. Sto cercando un finanziatore? Sì, anche.
Marco Belpoliti su tuttoLibri: su “Io sono”
Una lavagna nera perla critica della ragion impura di Genna
di MARCO BELPOLITI
[La Stampa, ttL, 30 maggio 2015]
La copertina è fustellata in modo che si apra una «finestra» quadrata. Dentro c’è un’immagine: un riquadro nero racchiuso da una cornice, su cui è scritto «Et sic in infinitum». Si tratta di un dettaglio della pagina nera di Robert Fludd, tratta da un’opera intitolata: Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,physica atque technica historia, e pubblicata da Oppenheim nel 1617. Nessuna immagine definisce meglio l’opera di Giuseppe Genna, sia questa su cui compare (Io sono), sia la sua opera narrativa in generale. Genna è un discendente di Fludd, medico teosofo e alchimista, vissuto nel corso del Rinascimento e l’inizio dell’età barocca. E alchimista è anche Giuseppe Genna, che prova qui a fondare una teoria e una pratica della coscienza.
Cosa sia Io sono non è facile da dire. Un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, uno studio sulle origini della medesima, un saggio letterario, un’esperienza estatica in forma di riflessione, una pratica di ricomposizione del trauma?
Tutto questo, ma anche un saggio di epistemologia condotto da un autore coltissimo e insieme meravigliosamente dilettante, quel dilettantismo che è proprio solo dei poeti e degli scrittori che prescindono da tutto e tutto affrontano. Io sono è un modo per scagliare il proprio Io al di là del muro del narcisismo corrente, elevarlo nel Regno che si apre oltre le identificazioni personali. Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un gigantesco sforzo d’ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde. Incanalate nelle elucubrazioni di quest’opera singolare, le parole di Genna costituiscono un viaggio dentro la mente estatica, uno dei pochi viaggi oggi possibili ai lettori in lingua italiana. L’estenuazione filosofica degli «istanti coscienziali», opera dell’autore di Fine impero (minimum fax), è perfettamente rappresentata dalla copertina: la «lavagna nera» di Fludd.
Scrivendo la sua «critica della ragion impura», Genna ha cancellato sulla superficie della sua mente tutto quello che c’era prima, e vi ha inscritto un nuovo segno calligrafico, in verticale e in orizzontale: cardo e decumano del suo pensiero zizzagante. Sul fondo bianco elegantissimo della collana «La Cultura» dell’editore il Saggiatore, la «lavagna» di Fludd appare come uno spazio altro, remoto e insieme vicino, dove «io sono». Per sempre, e al nero.
Giuseppe Genna
«Io sono»
il Saggiatore, pp. 326, € 18
Da “Io sono”: in quale senso è la coscienza
Un ulteriore capitolo di Io sono (il Saggiatore) sulla determinazione concreta dell’atto di coscienza, che è la premessa a una terapia effettiva e pratica che non si occupa più della psiche, ma “pulisce” la psiche dai suoi conflitti e disagi, a partire dal “momento coscienziale”. Si tratta della premessa alla sezione del libro che, da quella relativa allo statuto concreto della coscienza (che è pura sensazione di essere, molto semplicemente e realmente), passa a occuparsi della declinazione terapeutica e iatrogena (un capitolo di quella parte del libro è stato pubblicato qui). Storia, metafisica, coscienza, terapia e testo: sono le sezioni che compongono l’itinerario di “Io sono”, un percorso che cerca di delimitare perimetro e modi di un intervento neopsicologico antichissimo, descritto e praticato dalle tradizioni metafisiche, cioè quelle varianti della scienza interiore che, con ovvie diversificazioni di metodo, da sempre nella storia umana si offrono come orientamenti per lavorare al reintegro dei conflitti somatici e psichici nell’unità semplice della coscienza: nello “stare”.
In quale senso è la coscienza
Nell’istante in cui dal sonno ti svegli e accedi allo stato di veglia
ecco
che senti che sei, che si sente che si è: senza nome ancora, senza genere sessuale, in una privazione di qualunque qualificazione, si sente soltanto che si è, per pochissimo, nell’atto stesso di svegliarsi, non si ascolta e non si vede niente, sembrerebbe un niente, eppure non è un niente, perché si sente che si è, qualcuno è consapevole.
Di cosa si è consapevoli? Del fatto che si è.
Questa nuda esperienza è un’esperienza. La si vede? La si sa? Sì.
In quale modo? E’ un oggetto? No, si sa per identità: è un atto di identità.
Quale identità? E’ connotata psichicamente, emotivamente, fisicamente? Sì, ma soltanto un attimo dopo averla sperimentata.
In realtà, quell’avverbio isolato, “ecco”, è un’analogia, è un fatto linguistico, potrebbe e dovrebbe connotarsi soltanto con un silenzio e il silenzio esorbita il linguaggio.
Ecco: ecco che mi sono accorto, ecco che so che, ecco che non dico altro che “ecco”.
Questo “ecco” ha il medesimo valore metafisico del simbolo “So di non sapere”, come si è visto nei frammenti di discorso metafisico: la mente dialettica non c’è, sento solo che sono, sento che sono senza alcun sapere.
Sembra un minus linguistico, invece è un surplus: il linguaggio, che è separativo e limitante, non è assolutamente adeguato a dire l’esperienza unitiva, cioè l’esperienza di consapevolezza.
L’esperienza unitiva è alla mano, prima di ogni linguaggio.
E’ concreta, avvertita come reale e naturale, è qui e ora, la si sperimenta facilmente e non è possibile alcuna limitazione linguistica quando essa è tale: soltanto un attimo dopo, quando quell’”ecco” diventa che si sente di essere un soggetto, si può benissimo dire che si è un soggetto, ci si intende e ci si capisce nel linguaggio, c’è una tradizione comunicativa che fa perno su epoche storiche umane e dice che il soggetto è quella cosa lì: il soggetto. E poi sono un maschio o una femmina, e il mio nome è questo, e mi sento in questo modo, provo queste emozioni, fisicamente sto così. E’ stata cioè attivata una capacità linguistica, ovvero è stata accettata una funzione separativa e tale capacità della mente si può dire: memoria.
Quasi istantaneamente la memoria è in moto in un soggetto organizzato per essere capace di memoria. La separatezza sorge quasi istantaneamente. Quell’avverbio, “quasi”, intende significare che questa consapevolezza separativa non è pienamente istantanea.
Ciò che è pienamente istantaneo è un’esperienza unica, che è unitiva rispetto a tutti i dualismi successivi, il quali si sviluppano appena l’avverbio “pienamente” è degradato in “quasi”.
L’istante non appartiene al tempo, ma, come il punto per lo spazio, è un ente che genera il tempo senza appartenervi. E’ il “quasi” dell’istante che appartiene al tempo: il tempo entra e, “istantaneamente” col tempo, in un’entità organizzata temporalmente per essere mnemonica, accade la memoria.
Istante, ecco, esperienza unitiva: sono tutti approcci imprecisi, affannosamente alla ricerca nel linguaggio di una strumentazione che dica ciò che il linguaggio non può dire. Quell’”attimo” di consapevolezza non è indicabile dal linguaggio se non attraverso una distanza: un’analogia, una differenza.
Questo stato intimissimo che è l’accorgersi, un “accorgersi di” che è indifferentemente un “accorgersi che”, non è realizzabile dal linguaggio, in quanto lo esonda e lo esonda in quanto il linguaggio, come la memoria, è una qualificazione “successiva” a quell’istante esperito come inqualificato accorgersi.
Questo esondare il linguaggio, spesso, è stato detto per analogia con parole relative a stati di mistica e di trascendenza, che per la natura stessa della percezione risultavano dualistici, stati esterni o esotici o esogeni, lontani, altri, da raggiungere o raggiunti da altri, al di là del bene e del male, al di là dell’umano:
Trasumanar significar per verba
non si porìa; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba
è scritto nel canto I del Paradiso dantesco e chi scrive quel canto è costretto a “mimare” linguisticamente quell’esperienza di silenzio, a cui il linguaggio non arriva e che esorbita ogni linguaggio, cioè ogni limitazione linguistica: scrive due infiniti uno accanto all’altro, e non è un caso che il modo verbale si chiami per analogia “infinito”; specifica che questo “significar” è indotto attraverso “verba”, cioè linguaggio, il che rende implicito che il significare non avviene soltanto con un gesto linguificabile, è più esteso di quanto il significato linguistico comunichi, e cioè esiste un significato al di là delle parole; inoltre cita letteralmente che è sufficiente (cioè è totalmente insufficiente, ma basta come indicazione) l’”essemplo”, cioè quanto qui viene detto analogia; infine riferisce che si tratta di “esperienza”, ovvero si tratta di sperimentare quello stato, il che avviene per “grazia” o, letteralmente, “gratis”, cioè senza fatica e non pagando alcun prezzo.
La connotazione esterna dell’istante “transumano” (un istante che è un processo, un salto indefinito, un’infinitudine: è “transumanar”), come se si trattasse di qualche traguardo o un parossismo dell’esotico, si dà appunto per la qualificazione fondamentale dell’atto linguistico, che “mima” un esterno, si costituisce rispetto a un esterno che bisogna sigificare, come se il soggetto che recepisce il senso del linguaggio fosse distinto da una oggettualità assolutamente distante, assolutamente altra.
Il linguaggio è una qualificazione della separatezza come atto che avviene nella qualificazione della coscienza.
Poiché tutto quanto riguarda quell’atto di riconoscimento, cioè
ecco
non è quell’atto: lo “riguarda”, cioè lo percepisce come esterno o altro, lo indica, c’è una distanza che separa chi guarda da quello che è guardato.
Quell’avverbio “ecco” è la coscienza.
Che genere di esperienza è la coscienza? Se è esperienza, per quella forma limitata e limitante, che cioè si qualifica attraverso una limitazione e appartiene a quel regno della limitazione detto “dualità”, deve esserci un soggetto che esperisce e un oggetto esperito: due polarità che, come si è visto, entrano in un rapporto tensivo, in questo caso l’esperire stesso.
E’ un’esperienza particolare quella di coscienza, in questo caso che si dice coscienza, quanto all’umano, in quel microtratto temporale al risveglio dal sonno. E’ un’esperienza in cui il soggetto stesso dell’esperienza è l’oggetto dell’esperire. Soltanto attraverso una esteriorizzazione da quell’identità di sentimento tra soggetto e oggetto, nel senso che si sente indefinitamente se stessi senza che il se stessi possa venire oggettualizzato, è possibile parlare di riflesso di coscienza, come se la coscienza si riflettesse su se stessa, riflettesse su se stessa, riflettesse se stessa.
La coscienza in realtà non riflette, ma all’interno della coscienza sembrano formarsi dei riflessi di coscienza.
Bisogna infatti considerare che cosa stia accadendo nel momento preciso in cui accade che si sente di essere, in quel risveglio dal sonno: chi si accorge che è?
Le risposte a questa domanda sono i costituenti la radice stessa della separatezza tra saperi (e pratiche che da quei saperi derivano) e metafisica (che non è un sapere definito nel senso dialettico dei saperi e che non si identifica in alcuna pratica nel senso tecnico, cioè anche macchinico, del termine). Da un lato parte infatti una riflessione su questa “persona” che si accorge di essere, sia pure di essere indefinitamente e in modo privo di qualificazioni. Dentro questo sentimento di essere accade una riflessione. Ciò è proprio del fenomeno umano. Lo sviluppo delle qualità riflessive del fenomeno umano passa attraverso questa separatezza, anche se i saperi tendono in seguito a sconfessarla (un esempio fra molti: il “campo” e l’”osservatore” e l’”indeterminazione” in fisica quantistica).
D’altro canto si può invece stare nello stato identitario di quella coincidenza tra soggetto e oggetto che è l’esperienza di coscienza.
Questo stare è empirico, ma si tratta di un empirismo del tutto particolare. Lo stare nell’esperienza di coscienza è un’esperienza di coscienza. Ogni “momento” è la stessa esperienza del “momento” precedente. La memoria cerca di separare e classificare momento da momento, ma concretamente, lì, nell’esperienza di coscienza, non c’è un susseguirsi di momenti, non si ha in mente nemmeno la successione temporale e ciò perché la coscienza non è psichica, non è memoriale, non è temporale. “Stare nel momento coscienziale” si traduce, per la mente pensativa, in una permanenza temporale in una determinata esperienza. Sembrerebbe dunque un’esperienza temporale e invece non lo è.
Questo stare naturalmente nell’esperienza coscienziale è lo stare della naturalezza: non è dato alcuno stare, se non nella coscienza. Per stare, bisogna essere. Essere significa: sentire di essere, avvertire concretamente la pura e non qualificata sensazione di essere. Essere presenti a questa sensazione di essere non è alcun presente, nel senso che lì, molto praticamente, in quell’esperienza specifica che è lo stare in quell’esperienza di pura sensazione di esserci, non c’è un passato e un futuro da cui desumere eventualmente un presente. C’è soltanto un’attualità, sempre uguale, sempre sperimentabile come uguale, sempre la stessa esperienza di essere, sempre quella, che si sia bambini o adulti, in una forma umana o in un’altra: le qualificazioni personali, che sembrerebbero caratterizzare l’individuo, cioè storia o psicologia o posizione nello spazio o età o genere o fisionomia (e così per indefinite qualificazioni), non sono pertinenti o adeguate al sentimento di essere: lì, nella sensazione di esserci, non esistono tali qualificazioni, non le si ha presenti.
Una prova empirica e simbolica al tempo stesso è sufficiente per essere persuasivi su questo punto. Si immagini quando si avevano otto anni, poi quando si avevano dodici anni, sedici, ventidue, trentaquattro: si era persone diverse, ma quanto alla sensazione di essere? E’ mutata nel tempo? E’ incrementata, decrementata? Si è complicata o semplificata? Semplicemente sentire di essere: è una forza sempre identica, un’esperienza continua.
Che accada di essere questa indifferenziazione, cioè di accorgersi di essere senza altro aggiungere, e che tale percezione possa essere raccolta dal fenomeno umano come una perdita di individuazioni e identità, è contraddittorio al fatto che proprio in questo semplice sentire di essere risieda l’autentica identità.
Ciò che viene ritenuto usualmente identitario (“sono questo corpo, sono questa psicologia, sono fatto in questo modo, queste sono le mie qualità”) è una determinazione umana contraddittoria alla propria reale natura identitaria, che è la sensazione semplice di essere: ed è identitaria in quanto è l’unico elemento che continua a essere identico a se stesso nel corso di una vita. Si scambia per identità una falsa aggregazione di finte identità.
Ciò accade in quanto, per il fenomeno umano in sede riflessiva, cioè pienamente pensativa e interpretativa della sensazione di essere, tale semplice sensazione di essere viene tradotta culturalmente come perdita delle particolarità psichiche, e quindi dell’identità.
L’identità di cui si parla, in seduta psicoterapeutica tanto quanto in sede filosofica, sarebbe un insieme configurato di qualità, assolutamente non presenti nell’atto della semplice appercezione della sensazione di essere, la quale sarebbe una funzione non identitaria.
La coscienza non è una funzione psichica: è la psiche a essere una funzione coscienziale.
Questa misinterpretazione, questa autentica inversione concreta dell’identità alla luce della naturalezza del fenomeno umano che si dice “io”, questa inesperienza della dualità che viene contrapposta come assenza d’identità all’esperienza più qualificata e particolareggiata dal punto di vista psichico: ecco il momento preciso in cui si disallinea l’attività neutrale e indifferenziata e concreta della coscienza dall’attività soggettivamente qualificata e concreta della psiche.
In realtà le cose sono intuite e dispiegate con precisione dalla psiche: nell’attività di coscienza non esiste alcuna differenziazione psichica o psicologica.
Fatta salva l’intensità (una sorta di qualità e di quantità) del sentimento puro di essere, non esiste una differenza sostanziale (in termini assoluti di qualità) tra il sentire di essere che appercepisce svegliandosi un individuo umano e quello che avverte un altro individuo umano.
Nell’istante coscienziale è abolita la psiche.
Nell’istante coscienziale si è una cosa sola: io e un altro siamo questa cosa unica, coincidiamo in essa, essa non è più mia che di altri, è davvero la stessa unica cosa.
Concretamente non c’è un profilo psichico del sentimento di essere. Qualunque profilazione psichica o fisica o di altro ordine qualificato avviene “all’interno” del sentimento di essere.
Si manifesta in questo punto, nel disallineamento che la psiche opera rispetto alla coscienza, la radice metafisica della questione coscienziale: se non sento di essere, non sono: non sono in senso assoluto e, dunque, non sono psiche.
E ciò vale non soltanto per l’estensione psichica, ma anche per l’estensione temporale: in ogni momento si percepisca semplicemente di essere, si avverte la medesima indifferenziazione: si è, semplicemente. L’istante coscienziale non è nel tempo.
E’ in ragione della temporalità e delle qualificazioni che sono inerenti al fenomeno psichico umano che tempo e qualificazioni psichiche si avvertono come esistenti. Nell’”istante” della coscienza (un istante dilatabile quantitativamente solo se confrontato con la temporalità della psiche) non esistono tempo o qualificazioni psichiche.
E’ pura e nuda coscienza la sensazione di essere inqualificatamente, che concretamente si avverte al risveglio.
Nella sensazione di essere, che è coscienza, tutto quanto è qualificato per il fenomeno umano non è sentito, non è pensato: è di qua o di là da venire, si direbbe, se non fosse che dicendolo si è già fuori della semplicissima sensazione di presenza che è il sentimento di essere.
Da questo punto di vista, concretissimo, sentito e non saputo, esperito direttamente senza possibilità di discernere dove inizi un soggetto dell’esperienza e dove termini l’oggetto dell’esperienza, la coscienza è onnipervasiva: trascende le limitazioni che sono psichicamente definite come trascendente e permane al di là della qualificazione temporale che è definita come permanenza. Questo fatto avviene concretamente e non è un obbiettivo distinto dal sentire di essere in chi sente di essere e dopo pensa che quel fatto è altro da se stesso.
L’onnipervadenza del fatto coscienziale è di fatto l’unica persistenza continua e assoluta di cui il fenomeno umano disponga per dire, in stato psichico, che qualcosa è differente da altro.
La differenza avviene infatti per limitazione o, secondo altre metafore, per movimento o qualificazione.
Quando si percepiscono i differenti fenomeni interni (mondo psichico) o esterni (mondo oggettivo) come realmente esistenti, in base a quale esperienza non differente ci si appoggia per avere la percezione della differenza?
Stabile, indifferenziata, fin quando si è “in vita” identica a se stessa sempre, che non cresce e non diminuisce, perennemente evocabile attraverso un atto semplice, onnipervasiva, è la coscienza in quanto sensazione puntale e semplice di essere.
Questa stabile onnipervasività è tale (stabile e onnipervasiva) per l’atto coscienziale percepito dal vivente fenomeno umano. La sua persistenza sempreguale è tale all’interno di qualunque atto di vita del fenomeno umano, psichicamente inteso.
Questa coscienza, concreta e sempre alla mano per il vivente che è il fenomeno umano, è atta a condizionare il lavoro psichico, in senso appunto coscienziale.
Questa sostanza è un fenomeno stabile per il vivente umano? Oppure essa muta? E muta anche la qualità della percezione che è istantanea nella sensazione di essere?
Si è fatto riferimento a un istante concreto, quello del risveglio dal sonno, per indicare l’intimità immediata ed effettivamente sperimentabile e sperimentata della coscienza. E tuttavia lo stato di sonno e lo stato di veglia sono qualificazioni e limitazioni e relatività della mente umana: sia della psiche sia del corpo sia di ciò che pare eccedere e psiche e corpo (si pensi all’attenzione ai fenomeni di sogno, che le psicologie esercitano in modo privilegiato).
Qualcosa di inqualificato accade in uno stato qualificato: e in altri stati qualificati? Questo stesso esperire il senso di essere si qualifica in altro modo in stati differenti? E quali sono gli stati differenti e generici a cui si potrebbe fare riferimento per il fenomeno umano, oltre la veglia e il sonno?
Sul piano della generalità, o universalità, quanti stati effettivamente sperimenta l’umano?
E’ necessaria un’ulteriore evocazione della prospettiva metafisica, per comprendere la prospettiva psichica in cui si inscrive il discorso sulla coscienza e rispondere alla domanda sugli stati qualificati che il fenomeno umano sperimenta.
Da “Io sono”: un capitolo sulla terapia psicologica della coscienza
Il saggio Io sono (il Saggiatore) si concentra sulla domanda: cos’è la coscienza? Si dà un profilo storico e filosofico della questione, una descrizione di ordine pratico metafisico, un perimetro sulla coscienza per come è avvertita dal fenomeno umano, linee generali di una terapia psichica basata sull’attività semplice di coscienza e, infine, una lettura dell’apparizione del momento coscienziale in certi testi letterari (da Hölderlin, Kafka, Melville, Lovecraft, Burroughs e i tragici). Riproduco un capitolo dalla sezione che concerne la terapia, che è il momento concreto qualificante del testo: si cerca infatti di stabilire come è attuabile una psicoterapia a indirizzo coscienziale, a partire dall’etimologia e dalla sistematica metafisica.
Che cos’è la terapia
L’etimologia è una forma del sentire piacere, che pone il soggetto in stato di gioco: il soggetto gioca nella storia. Non essendo storica la coscienza, è possibile approfittare di questa condizione che è sentita come intimità e identità: la situazione ludica approntata dalla ricerca dell’etimo non permette soltanto di dire il significato, la cui enunciazione è un rapporto con l’esternalità, bensì di avvertire esperienzialmente il punto di perno in cui la possibilità di dire manca e non resta che sentire.
Terapia proviene dunque dal greco antico: therapeía, sostantivizzazione del verbo therapeuō.
Essa è sicuramente cura, nel senso più complesso e intenso (il prendersi cura di), ma segnala anche uno spostamento semantico che rimane implicito nel termine traslato. Significa anche servizio, rispetto, culto e assistenza alla deità. Questo slittamento è determinato dall’oggetto del servizio, ovvero la deità.
Il discorso platonico è estremamente esplicito su questo punto:
Socrate: Ma allora che specie di cura degli dèi sarebbe la santità?
Eutifrone: Quella cura, Socrate, che i servi hanno per i loro padroni.
Socrate: Capisco. Sarebbe all’incirca, da quel che comprendo, l’arte di servire agli dèi?
[1]
La deità è l’emblema testuale della pura coscienza personale, del sentimento d’essere, in questo caso. Non è un problema, si sa, di religiosità, per quanto concerne le dottrine platoniche: è invece una questione di orientamento metafisico, di prospettiva metafisica, cioè di pratica metafisica.
L’indicazione sulla pratica terapeutica è in questo caso inscritta in un percorso metafisico.
Il rapporto terapeutico tra se stessi e se stessi, cioè tra “io” e “paziente”, è un’adeguatezza per cui il rapporto è possibile: è la possibilità di unità. L’assolutamente altro, l’impercepito in quanto impercepibile, non contempla rapporto. Soltanto l’adeguatezza permette rapporto: la luce è adeguata alla percezione ottica del composto biologico umano – e viceversa.
Questa adeguatezza terapeutica si dice, quanto alla psiche, la quale è una struttura possibile della mente, con il termine empatia, sul quale bisognerà chiarirsi e ci si chiarirà, più avanti in questo testo.
Questo “stare all’altezza di”, questo rapporto che tiene presente il dato fondamentale dell’unità, questo consentire, nel caso della terapia, è qualificato come “servire”.
“Servire a” e “servire per” è un’etimologia che serve a chiarire l’aspetto più rilevante della qualificazione terapeutica, cioè la distinzione polarizzante tra soggetto che terapeutizza e oggetto terapeutizzato.
Nel rapporto terapeutico sembra essere il soggetto presumibilmente attivo ad assumere su di sé il portato semantico dell’etimo.
E’ dunque da indagare l’occorrenza del derivato theràpōn: il terapeuta è anzitutto il soggetto attivo della terapia, più che il soggetto che riceve la terapia stessa.
E’ nel greco evangelico che il theràpōn dispiega la sua più intensa e interpretabile significazione, laddove si legge:
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!». Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: «Sràdicati e vai a piantarti nel mare», ed esso vi obbedirebbe.
Chi di voi, se ha un servo (theràpōn) ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”.
[2]
Come deve accadere secondo il richiamo che la parabola esercita, questa occorrenza deve essere interpretata – ecco l’adeguato rapporto terapeutico che si esplica in sede testuale (o sottotestuale: la parabola è un sottotesto, così come il pensiero consapevole è un sottoprodotto della psiche).
Chi è il theràpōn che è qui servo? E’ colui che deve prendersi adeguatamente. Se si prescinde dal quadro di riferimento culturale, che in termini di psicologia evoca immediatamente le coppie dovere/colpa e proprietà/lavoro e censura/paura, esprimendosi in termini di legislazione e imposizione (il che è adeguato alla finitezza e alla natura dualistica del linguaggio stesso), bisognerà collocare le azioni e i ruoli di questa scena, che come tale è sempre intima e cioè è tragica poiché emerge nella coscienza, all’interno della potenza che qui si esprime e che qualifica la scena stessa con l’azione e i ruoli medesimi: tale potenza qualificante è l’adeguatezza, è l’adeguazione.
E’ precisamente ciò che nella metafisica scolastica diverrà il movimento unificante per analogizzare la linguificazione del mondo da parte del fenomeno umano: adaequatio rei et intellecti. Tale impiego è significativo.
Il theràpōn si adegua a una situazione: sta in un quadro di riferimento e compie ciò che il quadro di riferimento implica.
Appena il theràpōn soddisfa le esigenze adeguate al suo compito, egli è detto “servo inutile”. Ciò ha un duplice significato: il quadro di riferimento scompare, non è più effettivo; il theràpōn non è più tale. Il servo senza padrone e il padrone senza servo sono uguali: sono due persone libere. Essi sono unificati.
Sotto questa luce la terapia è un processo di unificazione in una scena a due, dove la scena stessa è il campo tensivo tra soggetto e oggetto, con l’azione di adeguatezza che conduce la scena stessa al collasso, o, come si dirà, all’azzeramento, cioè a una situazione inutile, laddove l’inutilità è la traccia in negativo dell’indifferenziazione stessa.
Questa situazione di adeguatezza unificante ha forse qualche riflesso se si considera la radice etimologica del verbo principale therapeuō, che viene identificata in questo modo:
THER-, THAR-, = sser. DHAR- tenere, sostenere (cfr Fermo) [3]
E’ qui evidenziato il legame etimologico tra theràpōn e servo.
E’ però effettuato un passo ulteriore. La determinazione della radice greca nel senso del “sostenere” fa richiamo al verbo greco ìstemi, da cui deriva “stato”.
Questo sostegno è uno stato. Il servire è relativo a uno stato. Il terapeutizzare è stare in uno stato.
Ciò che regge gli stati è la sostanza.
Sono qui esplicite le indicazioni di ordine metafisico a partire dal gioco testuale, cioè linguistico.
L’indagine etimologica scopre un ulteriore apparentamento, che fa luce sui rapporti tra lavoro psichico e lavoro coscienziale. E’ infatti recepita la radice DHAR- che è comune al sanscrito, ovverosia alla lingua in cui viene enunciata la prospettiva metafisica Advaita, che qui si è considerata quale momento espressivo per coniugare il lavoro coscienziale con l’orientamento nondualistico.
L’immediato riferimento che la radice DHAR-, o DHR-, esercita sull’espressione metafisica è il sostantivo sanscrito dharma, che viene quindi a essere connesso, per identità tanto quanto per analogia, con therapeía.
L’intensità semantica, e quindi storica e storico-linguistica, di questo sostantivo sanscrito è attestata dalle sue occorrenze in testi metafisici, sacri e di operatività psicologica.
L’etimologia del sostantivo dharma deriva dalla radice verbale DHAR- o DHR, che ha il significato di sostenere, trattenere, rendere stabile.
Dharma è dunque “ciò che è stabile”, lo statuto e lo statuito nella loro unità indifferenziata, e può essere inteso in modo polivalente, quale fondamento che si esprime nell’ordine sociale o in quello morale. Più precisamente, dharma è anche la conformità con la norma, cioè l’adeguatezza nel senso della sintonia e dell’accordo con la natura inqualificata o qualificata delle cose.
La posizione dharmica è conseguentemente espressione di uno stato devozionale che non ha nulla dell’inquinamento emotivo che si è soliti attribuire alla devozione: è un accordo di nota, è un’armonia, la statuizione dell’adeguatezza d’onda.
Per quanto concerne la significazione spirituale del termine dharma, “cammino” e “dovere” risultano accezioni frequenti, laddove il “cammino” è il sentiero che sostiene e costituisce il supporto, cioè la base stabile sulla quale ci si muove.
Alla radice della terapia è il movimento di unificazione che adegua l’accordo tra due distinti, producendo uno stato più inqualificato di quello in cui appariva assolutamente reale la distinzione.
Un’occorrenza del termine theràpōn, decisiva per il discorso sulla terapia qui in discussione, restituisce senso a questo movimento che si sussume in uno stato sempre meno inqualificato rispetto a quello in cui si è identificati.
L’occorrenza in questione determina la struttura stessa, se così si può dire, della dinamica del processo terapeutico coscienziale – cioè mosso dalla e verso la coscienza, per sintesi dal dualismo psichico, velante e identificante.
Si tratta dell’origine stessa della testualità testuale occidentale. E’ il mito di Orfeo, determinato quale theràpōn.
E’ il momento in cui il mito si qualifica in tragedia, assumendo la qualificazione tragica del mito stesso. Questo passaggio, osservato nel suo momento di ritorno, è oggetto di discussione in un capitolo a parte di questo testo.
L’andamento del mito orfico è emblematicamente il movimento stesso dei passaggi e dei “salti” in una terapia mossa dall’autoriconoscimento coscienziale.
Orfeo è detto theràpōn di Dioniso. [4]
In questo caso è theràpōn colui che è emblema e rappresentante del dio: lo qualifica nel rito che è il reale a uno stato di manifestazione più fenomenica e individuata di quella natura in cui vive il dio. Il rito è la carnificazione dell’inqualificato, il quale a sua volta è una determinazione dell’inqualificata unità, che è la coscienza pura.
E’ evidente che ci si muove qui in un duplice senso della testualità: il testo assoluto come prospettiva sulla dualità (la possibilità di leggere, cioè percepire, la dualità, in modo da autoveicolarsi in stati riassuntivi della dualità); e il testo che è fabula del mito orfico.
Sono da considerarsi effettivi, in quanto strutture veicolari verso stati di coscienza meno qualificati dello stato psichico, due miti che concernono il mito superiore: due momenti coscienziali del mito orfico.
Il primo e più facilmente leggibile, nel senso dell’interpretazione dialettica della mente separativa che è la psiche a matrice testuale, è ciò che accade alla fine del mito orfico, ovvero lo smembramento di Orfeo. Qui si ripete efficacemente il movimento di Dioniso sub specie di Zagreo: così come il dio viene fatto a pezzi per rinascere, sperimentando una “passione” che in molti esegeti hanno sottolineato nelle similitudini con quella cristica, ecco che Orfeo incarna il dio stesso ripetendo la struttura del processo di rinascita, attraversando la notte oscura.
Tale notte oscura rappresenta il “salto” tra stati ontologici diversi, il quale è avvertito effettivamente come nero.
La substantia nigra è la sperimentazione psichica delle fasi che preparano a un salto coscienziale.
Il terapeutizzato, tanto quanto il theràpōn, sperimenta l’identificazione psichica come distruzione della falsa identità: come smembramento.
Vivendo questa fase temporale la coscienza si autoriconosce come atto presente inqualificato.
Non è evidentemente qui l’orfismo che interessa, quanto la struttura stessa del mito, che è possibile metabolizzare interiormente, rendendola efficace in quanto esperienza reale. Il mito propone una struttura dinamica realizzabile interiormente. La ripetizione della struttura mitica, effettuata interiormente, non è una ripetizione che si limita a un’orizzonatlità: non ci si muove nello stesso stato ontologico in cui ci si trova nel momento in cui si conosce intellettivamente il mito. La struttura mitica è un fattore esperienziale che veicola in stati meno qualificati di quello in cui la fabula appare ed è leggibile, ascoltabile, percepibile.
Questo passaggio è il movimento della cosiddetta guarigione: è il movimento alla guarigione.
Il secondo momento qualificante del mito orfico è costituito da ciò che si dice: “discesa agli inferi”. Orfeo discende a recuperare Euridice. Ciò significa: una parte che è fuori dagli inferi discende nel buio perturbante per recuperare un’altra parte di sé che non è naturale che stia lì. Si tratta di recuperare un riflesso psichico che si trova in un fondaco oscuro. Ciò implica l’esperienza che si qualifica in due stati individuati, cioè due movimenti che si interpenetrano nel momento in cui ci si rapporta al fondo perturbante: la “discesa” e la “tenebra”. E’ questa avventura, cioè questa esperienza effettiva, che la psiche è costretta a compiere per adempiere all’opera di reintegro.
L’opera di reintegro coscienziale è effettuata dalla psiche come propria “opera al nero”, per utilizzare un termine iniziatico che, in quanto tale, è anche psichico.
Si scioglie una componente di sé dalla tenebra: la si riporta alla luce, dove avviene l’unificazione amorosa.
In questa unificazione si dà lo stato luminoso, non buio, in cui la dualità viene trascesa dalla psiche.
Vengono indicate [5] due varianti del mito che illuminano l’operazione di riattivazione di una parte di sé che sembra morta, dimorante nella tenebra.
La prima variante: Orfeo deve discendere nel regno tenebroso e, con le sue arti, convincere gli dèi a rilasciare Euridice, per riportarla alla luce. Lo fa e non riesce.
La seconda variante: Orfeo discende agli inferi e le deità comprendono che egli non riuscirà nell’opera, quindi proiettano un fantasma che ha forma di Euridice, ma non è lei. Orfeo sbaglia.
Vengono qui indicate tre condizioni psichiche.
La prima è l’opera effettiva di risoluzione dell’identificazione psichica, che ha da essere riportata in uno stato in cui non c’è alcuna identificazione, poiché c’è soltanto identità, cioè unità. Questo processo di unificazione, se fallisce nonostante le qualificazioni della psiche, che la rendono adatta a tale operazione, introduce a una situazione di lutto alla luce e di smembramento, come da momento di processo coscienziale sopra esaminato. Questo lutto alla luce indica uno stadio successivo nell’ordine delle esperienze coscienziali: si passa a quella che potrebbe definirsi, con ardita analogia, “opera al bianco” della psiche. E’ uno stato di mezzo che segue alla nigredo psichica: la psiche, avendo fatto esperienza non stabilizzata della sua identità coscienziale, prova un lutto, una mancanza, che si risolve con il processo a cui è sottoposto Orfeo in quanto theràpōn del dio: lutto, ascesa sulla vetta, rapporto con il minerale e il vegetativo e l’animale, canto ininterrotto, smembramento, rinascita. Questo percorso indica fasi di realizzazione coscienziale effettiva da parte della psiche. E’ importante comprendere che il momento infero non è lo smembramento, secondo testualità letterale.
La seconda condizione psichica che viene indicata dalle varianti del mito è quella in cui consiste la difficoltà più formale e concreta del lavoro psichico orientato dalla sensazione pura di coscienza: il soggetto ritiene di compiere un’opera che non sta realizzando, poiché la zona tenebrosa rimanda una proiezione che acconta la psiche, cioè una più sottile e insidiosa proiezione con cui essa si identifica. E’ in questo momento psichico che si dà la necessità di una disidentificazione altrettanto sottile quanto il fantasma che viene proiettato dalla zona oscura. In questo benessere temporaneo che la psiche prova, essendo convinta di compiere la propria “opera al nero”, si annida un dolore più radicale per la psiche stessa. E’ come se la psiche si sentisse “alla luce” non essendolo. L’intervento disidentificante, in questo segmento del lavoro coscienziale, richiede un’intensità pericolosa. Serve cioè una qualificazione psichica, per adire a un’opera di sussunzione nell’esperienza di pura coscienza: il soggetto psichico non può essere fratturato in senso strutturale. Il soggetto psicotico, se iniziasse questo movimento di discesa e recupero, deflagrerebbe, per esempio. E’ normativo assicurarsi che il soggetto che intraprende una terapia coscienziale sia in un range di coerenza, cioè di identificazione stabile e di costanza della richiesta implicita di disidentificarsi, che il terapeuta coglie come previo motorie dell’intero lavoro coscienziale.
C’è infine una terza condizione, che viene indicata dalle due varianti del mito orfico. E’ estremamente penosa per il sentimento di disagio psichico che ne sortisce. Accade che, nonostante le qualificazioni per compiere il movimento di discesa mirato al recupero, se non dell’identificazione in genere, di un’identificazione in particolare, tale opera fallisca, poiché il campo psichico non è di fatto ancora “pulito”, rischiarato a sufficienza. E’ un momento che accade sempre, in qualunque terapia. Trascina il theràpōn verso il rischio di identificazione con il soggetto terapeutizzato. Dal punto di vista iniziatico, questo rischio di fallimento nella discesa e nel reintegro è una “caduta” ulteriore. Ciò viene enunciato in termini di “purificazione” nel gergo platonico:
Questa emigrazione, che è ordinata ora a me, non è senza dolce speranza anche per chiunque altro il quale pensi di essersi a ciò preparato lo spirito come con una purificazione. […] E purificazione non è dunque, come già fu detto nella parola antica, adoperarsi in ogni modo di tenere separata l’anima dal corpo, e abituarla a raccogliersi e a racchiudersi in se medesima fuori da ogni elemento corporeo, e a restarsene, per quanto è possibile, anche nella vita presente, come nella futura, tutta solitaria in se stessa, intesa a questa sua liberazione dal corpo come da catene?
[6]
E’ un passo emblematico, per analogia sostanziale, e funzionale rispetto a qualunque terapia in genere, e nello specifico rispetto a una terapia che sia orientata all’esperienza della coscienza quale sentimento puro d’essere, verso cui si muove la psiche nelle sue richieste di autotrascendimento, intese come bene psichico.
Il passo va reinterpretato, sotto questo risguardo, ricollocando la semantica, che non è altro che una solidificazione e una determinazione di grado più formale e individuato, rispetto all’istruzione platonica.
Si leggerà dunque così: questo movimento di discesa e reintegro della psiche duale in esperienza unificante e inqualificata della coscienza come puro sentimento di essere, che è una morte apparente della psiche in quanto muore il sentimento della dualità, e che io sono costretto a fare, non è privo di dolcezza (ānanda) come base stabile di ciò che vado a esperire, e ciò per chiunque abbia a sufficienza rischiarato il campo psichico, ottenendo solide qualificazioni per compiere quest’opera. […] E tale rischiaramento del campo psichico è, come su altri livelli di esperienza interiore, un’adeguatezza del movimento tra identificazione psichica e sentimento puro d’essere, laddove la psiche riesce a “stare” nel sentimento pulito di se stessa, in un raccoglimento intenso del sentirsi coscienza individuata, che nulla ha a che vedere con i coaguli psichici che danno una forma apparentemente identitaria alla psiche, cioè un’identità psicologica all’individuo. Sentendo la sostanza inqualificata che fa la psiche, la quale sostanza è il sentimento d’essere, il tempo cronologico e psichico, cioè emotivo e cognitivo e somatico, non è presente: è un nunc stans. E’ da qui che la psiche si disidentifica in modo definitivo dalla configurazione che la costringe a provare disagio, in quanto non è pertinente alla sua propria natura.
La terapia è un movimento di due che si fanno prima unità e poi zero.
La terapia coscienziale è una terapia. Significa che la psiche chiede di accedere alla possibilità di sperimentarsi in momenti di unità, avvertendosi come sentimento della coscienza pura, ovvero semplice sentimento di esserci, priva di qualificazioni; e questo è preparatorio a una risoluzione del complesso psichico, il che significa trascendimento dimentico del dolore psichico che è il motore della domanda di terapia da parte della psiche medesima.
[1] Platone, Eutifrone, 13d
[2] Vangelo di Luca, 17-7
[3] Ottorino Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua Italiana, 1907
[4] Gregory Nagy, The Best of the Achaeans – Concepts of the Hero in Archaic Greek Poetry, The John Hopkins University Press,1979
[5] Raphael,Orfismo e Tradizione iniziatica, Edizioni Āśram Vidyā, 1985
[6] Platone, Fedone, 67 b
La coscienza oltre la ragione
Sta per uscire nelle edicole e nelle librerie il nuovo numero di Reset, bimestrale di politica e cultura diretto da Giancarlo Bosetti. Grazie a una sorta di think tank inglese, Vision, sono stati raccolti interventi di scienziati, storici, economisti sociologi, psichiatri e scrittori di provenienza internazionale (tra questi, Amartya Sen), circa il tema La crisi della ragione. Per l’Italia, tre interventi: quello di Gianni Riotta, quello dello psicologo e teorico cognitivista Fabio Giommi e il mio – che riproduco integralmente qui.
Più si studia l’attuale configurazione dei saperi, siano essi letterari o artistici o psichiatrici o fisici o mediatici, più ci si rende conto che esitono barriere non inesplicabili tra àmbiti che, in fondo, trattano il medesimo oggetto: che è l’uomo. A partire da questa prospettiva, viene implicitamente operata una forzatura. Se si sostiene che l’oggetto della fisica della particelle non sono affatto le particelle, bensì l’uomo, è chiaro che una forzatura è stata impressa alla questione. Non si svela un trucco tanto complesso se si ammette quale forzatura: si sta semplicemente esercitando una pressione sul problema, spostando il fuoco dei saperi, dal loro oggetto, a chi tenta di esercitarne il sapere – cioè lo sperimentatore, cioè l’uomo. E’ un antico argomento preplatonico ed essenzialmente antioccidentale (se per Occidente si intende la categoria tramandataci dalla tradizione filosofica, non soltanto quella della modernità).
Un punto di vista del genere, a tutti gli effetti, risulta per un contemporaneo una bizzarria (non per un contemporaneo di Giordano Bruno, però). E però se si assume una prospettiva simile, al di là dell’esotismo d’apparenza, si rivoluzionano i saperi. Il che hanno ben imparato alcuni grandi fisici (penso soprattutto all’ormai arcaicissima e mitologica affermazione sulla “ricerca della costante assoluta” di Planck), alcuni grandi sperimentatori (la categoria di “osservazione partecipativa” è di dominio scientifico ormai comune) e alcuni grandi psicologi. Per non dire dei saperi artistici: lì non si discute, la supposta autonomia dell’oggetto è messa in discussione a priori e nessuno si sogna di dire che un’arte è il sapere di un oggetto preciso (incrociamo le dita, ma finora nessuno ci ha ancora propinato l’ipotesi di una scultura delle particelle).
Questa boriosa e noiosa premessa mi serve per parlare, essenzialmente, dell’Unico Oggetto di tutti i saperi. Sembra un teorema altrettanto borioso e noioso, ma forse vale la pena di ragionarci. Mi sono sforzato di apparire finora equilibrato e il più possibile cauto. Consentitemi a questo punto strappi e accelerazioni. A partire da ora.
L’Unico Oggetto di tutti i saperi è la coscienza. La coscienza è ciò di cui è fatta ogni percezione, ogni idea e ogni fenomeno psichico. Il linguaggio è fatto di coscienza: è un sistema di forme in cui precipita (proprio come precipita un sale) la coscienza, rendendosi percepibile. Non evoco tutta la tradizione fenomenologica per asserire principi tanto elementari quanto controversi. Piuttosto, continuo ad accelerare. La coscienza non è umana. Tutto l’universo è fatto di coscienza. Una zona ancora non scoperta dello spazio interstellare, per esempio, non cade soltanto sotto le coordinate di spazio e di tempo, ma anche di coscienza, cosa che rende possibile scoprire e, in un remoto futuro, esplorare questa zona. Questa zona esce, cioè, dal buio di un inconscio (non era percepita) e viene illuminata dalla coscienza. E’ un dato naturale e per nulla sconvolgente: nessuno si sogna di pensare che lo spazio e il tempo non esistano là dove ancora la nostra percezione non è giunta.
I filosofi storceranno il naso, gli psicologi faranno spallucce tacciando questi argomenti di superficialità, gli scienziati arriveranno forse a etichettare l’idiozia di affermazioni non rigorose. La verità è tuttavia duplice. Anzitutto, io sono uno scrittore: un narratore e un poeta – quindi non ho l’ardire di andare a portare il mio verbo in zone in cui la mia percezione, per l’appunto, ancora non è giunta. Mi astengo da apodissi in campo filosofico, psicologico e scientifico. In quanto scrittore, però, ho il diritto e il dovere di occuparmi del sapere umano: certo, da un’angolatura particolare, come particolare è lo scorcio da cui guardano i colleghi di altre discipline. In seconda istanza, faccio quest’osservazione: io conosco un sapere che si opponga al sapere dell’uomo? No. Quindi, chiamo tutto il sapere umano così: Sapere. Tra gli altri vantaggi, questo ragionamento mi permette di evitare la più banale tra le accuse che vengono formulate contro un antiriduttivista come me: di essere un metafisico. Se le percezioni sono relative, cangianti e transitorie, la Percezione no: è una forma stabile, per quanto ci riguarda. Sto parlando in termini assoluti soltanto di questo “per quanto ci riguarda”. E sto avanzando precisamente non tanto un’ipotesi di lavoro quanto una certezza inverificabile: esistono forme di un assoluto senza forma che è la coscienza.
Cos’è questa coscienza? Dio? Un vecchio barbuto che ci guarda da fuori dell’universo? Come ci viene quest’idea che esista qualcosa fuori dall’universo, dallo spazio, dal tempo? Che statuto ha questa fantasia? Qui gioco in casa: è precisamente la tecnica del mio sapere, quello letterario, a essere deputata all’esercizio della fantasia. La coscienza non è niente ed è tutto. E’ un non-qualcosa o un qualcosa che sta “prima” delle forme. Ogni forma è fatta di coscienza. Valga una metafora attinta dal cerchio della scienza fisica. Il tavolo su cui è appoggiata la tastiera del pc su cui sto scrivendo è fatto di elettroni, esattamente come la tastiera stessa o le dita che stanno battendo sui pulsanti. C’è una costante elettrica che permette azione, scambio e reazione tra i corpi solidi. Ecco, trasciniamo i termini della questione in un àmbito che, finora, pare non essere precisamente elettrico: il pensiero. Di cosa è fatto? Boh. Come si trasmette. Boh. Superiamo questa rozza sorpresa: diciamo che è fatto di una sostanza non ancora identificata (e non lo sarà mai, identificata, se i termini dell’identificazione cadono sotto la premessa dualista di ogni riduttivismo). Dobbiamo per forza parlare di una sostanza, anche se proprio non pare essere una deità metafisica: perché altrimenti infrangeremmo un dogma molto prezioso, soprattutto per i riduttivisti: dovremmo sostenere che qualcosa nell’universo nasce dal nulla. Eresia della ragione. Provo a prenderla da un’altra direzione, con un’ulteriore metafora. Nasce un bambino; tre anni fa non c’era; esercita un’attività di coscienza ora, e tre anni fa no; da dove viene questa coscienza che tre anni fa non c’era?
Può sembrare che uno scrittore non abbia la patente per porsi simili domande e ammetto che la questione, posta in questi termini, assomiglia da vicino alle questioni filosofiche della tradizione occidentale. Assomiglia ma non è la stessa questione. Tutta la letteratura parla di questo: ne parla per arrivare a praticare questo. Questo cosa? Questa sostanza che definisco coscienza, che si solidifica in forme stabili e via via in corpi e, probabilmente, in supercorpi. Non c’è da scandalizzarsi: tutta la letteratura è allegorica (a intensità diverse, certo, ma la sostanza, appunto, non cambia). L’allegoria, per come gli scrittori di ogni tempo l’hanno conosciuta e utilizzata, non è che una premessa all’anagogia. Ogni grande scrittore pratica questo sapere, che è il Sapere, e che insegna a uscire dal linguaggio per praticare ciò che, costituendo materialmente il linguaggio, non è linguificabile – esattamente come non è linguificabile lo stato di tre anni fa della coscienza di quel bambino nato ora. La formulazione esplicita, da parte di uno scrittore, di questa banalità di base della scrittura tocca forse il proprio apice nello Shakespeare di Victor Hugo, il cui incipit fa così: “Esistono uomini oceano” e il cui svolgimento altro non è che una spiegazione di cosa significhi “esistere”, “uomo” e cosa gli scrittori davvero intendono quando parlano dell’“oceano”. Non sto inerendo assolutamente a pratiche esoteriche o ritiratesi misteriosamente dall’orizzonte del sapere letterario umano di oggidì: chiunque legga l’opera omnia di Thomas Pynchon o di Don DeLillo sa perfettamente di cosa parlo. Chiunque vada a vedersi Fight club, dal romanzo di Chuck Palahniuk, se non si fa prendere dal noiosissimo discorso basso-sociologico, si rende perfettamente conto, anche se non riesce a esprimerlo, dello sbalzo che il film (e, ben più del film, il romanzo) gli fa compiere verso uno stato che si sente, si esperisce e non si riesce a dire cosa sia. Non si tratta certo della coscienza allo stato puro (il regista Fyncher è bravo, ma non è affatto il Dalai Lama). Si tratta, invece, dell’esito più immediato del lavoro allegorico di un artista, che è riuscito a farci oltrepassare la “durezza” dell’allegoria per farci rimbalzare in quel luogo verso cui la fionda allegorica spara chi la pratica con sapienza (in termini di critica letteraria si parla di passaggio dall’allegoria all’anagogia). Questa è incontestabilmente la retorica letteraria: che poi non tutti sappiano praticarla è un altro conto.
Che cos’è la ragione? Un’attività coscienziale. La ragione è perlomeno metà della psiche (questa è un’affermazione allegorica; lo dico per i non avvertiti). La psiche è una delle indefinite (indefinite: non infinite) possibilità di cui dispone la coscienza per rendersi percepibile e vivibile (“percepibile” e “vivibile” sono qui aggettivi impiegati secondo un’intenzione riduttivista; anzi, materialista tout court). Ecco dunque in che senso io concedo credibilità a una “crisi della ragione”. Non credo che esista una crisi storica della ragione: esiste semmai una crisi della ragion storica – cioè entra in crisi una delle forme storiche che la ragione ha assunto per un certo periodo di tempo in un determinato spazio. Esiste poi una crisi ontologica della ragione, che potrei stupidamente riassumere così: la ragione non è tutto. Fa male imparare che non si è tutto: e la ragione va in tilt. Anzitutto perché scopre di avere fratelli che non immaginava esistere (pensiamo a quando Freud impose il paradigma dell’inconscio: crisi culturale, crisi della ragione – poiché l’inconscio non è l’inesistenza della coscienza, è semmai ciò in cui la ragione non arriva ancora a portare luce; motivo per cui la metafora spaziale e interstellare prima utilizzata può definirsi di matrice spenceriana nella modalità e anche nella sostanza, ma non nell’esito, che è il contrario della fede spenceriana nell’inconoscibilità ontologica). C’è poi un ulteriore motivo di disagio, una sorta di apostolato naturale che diviene fede incarnata in un senso ben distante dal dogma cristiano: c’è la morte. La morte, sospetto, ha a che fare in qualche modo con la coscienza, esattamente come nel parallelo sueffettuato con la coscienza del bambino non ancora concepito. Mi chiedo: il bambino non concepito, dal punto di vista coscienziale, è un morto? Mettiamo quindi al mondo cadaveri? Adrenalinizziamo esseri coscienzialmente putrefatti? E, quando lasciamo le spoglie mortali, se pure possiamo prevedere cosa succede alla nostra ragione, come mai non riusciamo a immaginare cosa succede della nostra coscienza? Se in morte non si parla della coscienza, in vita sappiamo di cosa si tratta? Oppure la riduciamo semplicemente alla ragione? La coscienza è la ragion sufficiente della ragione?
Sposto ora ogni considerazione su un piano più prossimo al nostro fare quotidiano – dico “nostro” di noi scrittori. Da anni si dice che la letteratura è in crisi: ce lo si dice come ci si chiede se sia in crisi la ragione. Vicinanza sospetta di due sospetti problemi. La cultura scientifica evolve, progredisce, mangia, divora, immensamente cresce, si allarga. Il sapere mediatico, si dice, sottrae spazio allo sviluppo delle discipline umanistiche, essendo questo in drammatica contrazione. Non si dice la cattiva parolina, “decadenza”, per sacrale rispetto ai propri lari. Di fatto, però, Alighieri è già in barile: non come i merluzzi, ma proprio come i rifiuti. Rifiuti tossici, per di più. Tutto questo è falso. La psicologia appare oggi in fase anale, ritentiva: resiste al proprio balzo quantico, fatica a riconoscersi, più che scienza, quale studio della coscienza e interazione coscienziale. I fisici brancolano cercando di strappare lembi dagli stracci spettrali del fantasma dell’Unificazione. Oppure scendono in profondità, alla ricerca del minimo, del fondamentale, in palese disconoscimento che sotto sotto c’è vuoto. Non parliamo delle scienze sociali: ancora non abbiamo esaurito la grassa risata esplosaci in bocca davanti alla bufala dei memi. So perfettamente che parlo un gergo grezzo e lo sto utilizzando apposta: per comprendere e fare comprendere quanto irrisorio sia il Sapere e quanto risibile sia la psiche se messa in scala con l’abisso coscienziale. E’ proprio in questa prospettiva che, dunque, sono davvero le discipline artistiche quelle messe meglio. Non è questa la sede più opportuna per dare criticamente conto di certe affermazioni, che comunque non mi astengo dal fare. Il lavoro di William Vollmann, di Donna Tartt, di Andrea Zanzotto, di Jean Starobinski, dei suddetti Thomas Pynchon e Don DeLillo, di Michel Houellebecq, di Victor Pelevin, di James Ellroy e di Bruce Sterling – tanto per pescare in alto e in basto, a est e a ovest, un po’ a caso, e soltanto in letteratura – testimonia di quanto sia penetrante e profetica la capacità dello sguardo letterario di sprofondare nell’abisso laico della coscienza. Servono certo aggiornamenti: anzitutto critici. Ma sono difficoltà di organizzazione, di società culturale, di sovrastruttura: non è in discussione la produzione artistica in sé, che dà attualmente la polvere agli altri comparti in cui si esercitano i saperi umani. Ironico baratro che spalanca la crisi della ragione storica: ciò che durava da sempre, continua a durare, mentre crollano ed entrano in metamorfosi i “paletti” che avevamo posto con tanta solerte solennità. Non è che simili “paletti” non crollino anche in letteratura. Ecco, per esempio, un “paletto” letterario destinato non al crollo, però certo a una profonda metamorfosi: la fantascienza profetizza il futuro in maniera esatta ed è un’avanguardia letteraria. Solo la ragione storica che ci si chiede se è in crisi poteva porre un simile truismo interpretativo. Non che non fosse vero che la fantascienza era avanguardia nell’individuazione delle configurazioni psichiche individuali e collettive che, bene o male, avrebbero preso storicamente corpo. E’ che quanto sta accadendo, per chi non avesse gli occhi fissi su ciò da cui emerge il linguaggio, ha dell’incredibile: accade che tutta la letteratura – ma proprio tutta – è diventata fantascienza. Tutta la letteratura è allegorica, si è detto; oggi, tutta la letteratura è fantascientifica. Per restare ai numi a cui ho fatto già ricorso: Vollmann, Tartt, Zanzotto, Pynchon e DeLillo (quest’ultimo in The body artist più che ovunque e più di chiunque altro) ha mutuato la propria allegoresi dalla strumentazione fantascientifica. Fa quindi sorridere l’ascolto di certi impropri e improbabili giudizi critici, che sono riduttivi oltre che riduttivisti, come quello che segue: il futuro si è avverato e la fantascienza ha immaginato ogni futuro possibile, quindi la fantascienza è in crisi. E’ invece vero che, a differenza della psicologia, la fantascienza è uscita dalla propria fase anale e ha compiuto il salto quantico, divenendo tutta la letteratura. La ragione in crisi parla di crisi. La fantascienza non parla di crisi: la supera.
Come è chiaro, non pretendo di giungere a nessuna conclusione necessaria. Pretendo al contrario di giungere a parecchie conclusioni arbitrarie e, possibilmente, di fuoriuscirne al più presto per cogliere, al di là del linguaggio, di che cosa siano effettivamente fatte queste benedette conclusioni. Del resto, è vero anche che, essendo entrambi coscienza, io e voi non ci siamo mai parlati – se non altro dal punto di vista della coscienza stessa.
Hölderlin, ovvero il tragico come vuoto
Prima di questa riflessione, vorrei dare notizia di alcune eventualità attuali e prossime.
Da qualche giorno, con esercizio di pudore che corrisponde a un semplice sospiro di sollievo (che sarebbe poi la natura naturante del respirare autentico e cioè del respiro dell’autentico), tento di andare disciogliendo nodi teorici attraverso piccole sincrasie: scrivendo note che non ambiscono a nulla, se non a farmi pensare mentre scrivo, cioè a non farmi pensare – a mantenermi in un silenzio puro per me prima molto raro, poiché assai rarefatto. Tali interventi si articolano in meditazioni (e non utilizzo casualmente il sostantivo) intorno a gangli che considero fondanti per una forma a venire – mia anzitutto, e non è detto che sia forma di scrittura. I gangli concernono: la letteralità, l’epico, il tragico, la narrazione aperta, la retorica ultimativa, lo sguardo e l’ascolto, lo spazio assoluto, la secondarietà dell’eroe, l’essere da cui emergono per fluida condensazione e subitanea apparizione il divenire e l’accadimento, l’approccio al testo secondo categorie stilistiche e psichiche e un po’ oltre lo psichico. Tutto ruota intorno a un perno semanticamente impreciso, che è detto “vuoto” e corrisponde alla non linguificabile sensazione di essere che ogni umano sperimenta, intatta e irriconducibile alla psicologia (sebbene la psiche non sia possibile senza quella sensazione di essere). Tale sensazione di presenza è posta come qui e ora sempre sperimentabile attraverso attenzione autoconsapevole. Essa è, a mio avviso, il fontale sorgivo da cui emerge l’attenzione stessa e, via via, la percezione delle cose. Andrebbe ripreso, e molto più rigorosamente di quanto faccio con l’esercizio implicito di queste idiosincrasie, il magistero testuale e non solo testuale di Edmund Husserl, le cui Meditazioni cartesiane non sono state meditate: sono state pensate e ragionate, il che è parecchio distante dalla meditazione.
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Francisco Varela: la conoscenza nelle neuroscienze
[da Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche]
L’argomento della nostra conversazione sarà la coscienza nelle neuroscienze. Ci può delineare la situazione del dibattito odierno su questo tema?
Vorrei cominciare con una breve retrospettiva storica, che secondo me è importante per capire quello che sta succedendo. Lo studio della coscienza come oggetto di scienza è collegato evidentemente con le neuroscienze cognitive, come si dice oggi. È un tema che come una malattia nevrotica è stato rimosso, è ritornato, è stato rimosso una seconda volta e adesso ritorna di nuovo. Ci sono periodi in cui viene messo completamente da parte e altri in cui suscita una vera e propria infatuazione. All’inizio del secolo è stato appunto una passione in Europa e in America, soprattutto in Germania, ma anche in America con William James, considerato che la psicologia, che a quel tempo era l’equivalente delle neuroscienze, era interessata essenzialmente al problema della coscienza. Ma era anche in voga quello che si chiama oggi metodo in prima persona, l’accesso fenomenologico, diretto, introspettivo ai contenuti della mia propria esperienza. Si può osservare che tra il 1890 e il 1930-1940 circa, l’interesse per lo studio scientifico della coscienza per ragioni diverse, che non avremo il tempo di sviluppare oggi, ha subito un’eclisse e mentre dopo la Seconda Guerra Mondiale la scienza europea è rimasta bloccata, per riprendere negli Stati Uniti, negli Stati Uniti si è avuto il ciclo inverso della rimozione totale del tema, ed è cominciato il periodo del comportamentismo, il periodo skinneriano, il periodo in cui solo oggetto di scienza era il comportamento. Il comportamentismo – per il quale lo studio scientifico della mente poteva prendere come oggetto solo la manifestazione esterna del comportamento, del movimento, la percezione, l’intensità della percezione ecc. – ha segnato un’epoca, ha dominato per un lungo periodo la psicologia certamente, ma anche lo studio dei sistemi neuronali. Per un lungo periodo di tempo – dunque non è stato un fatto episodico – il comportamentismo ha costituito una specie di dogma, che ha dominato gli ambienti scientifici degli Stati Uniti ed ha avuto un influsso anche in Europa. È vero che ci sono sempre delle eccezioni nella storia, ma adesso sto parlando delle tendenze dominanti. Quello che ci interessa sapere è che negli anni Sessanta, e all’inizio dei Settanta, comincia quella che si chiama oggi retrospettivamente la rivoluzione cognitiva.
Che cos’è la rivoluzione cognitiva? La rivoluzione cognitiva consiste nel dire che l’approccio puramente comportamentista non sembra sufficiente a rendere conto di tutto quello che si osserva nella vita degli animali e degli uomini, e bisogna fare l’ipotesi – l’ipotesi cognitivista, appunto – che da qualche parte ci siano strutture interne, contenuti propri alla vita della mente, processi mentali non riducibili a meri comportamenti, come la memoria, la pianificazione, l’associazione, e via di seguito. Così è cominciato negli anni Settanta con grande successo e un rapido sviluppo il ritorno ai contenuti della mente attraverso la nozione di “cognizione”. Dal termine “cognizione”, che è diventato centrale a quel tempo – stiamo parlando degli anni Settanta – ed è ancora oggi molto molto importante, prendono nome le scienze cognitive, in cui elementi provenienti dalla psicologia, dalla linguistica, e beninteso dalle neuroscienze, concorrono alla creazione di una disciplina che si sforza di studiare i contenuti cognitivi in quanto tali. Anche qui ci sono molte scuole, molte differenze, tendenze diverse: per esempio c’è un approccio che considera la cognizione come un sistema computazionale, come dei moduli computazionali; poi c’è un approccio più dinamico che si chiama connessionismo. Non intendo parlare di tutto questo. Resta comunque il fatto che quando ho cominciato a lavorare come ricercatore negli anni Settanta, quando ero attivo come ricercatore, era permesso, anzi era al centro dell’interesse lo studio della cognizione, mentre era vietato – dico bene: vietato -, scorretto, in un certo senso, parlare di coscienza. La coscienza restava come qualcosa di mistico, di pertinenza dei filosofi, più che un tema scientifico. È stato necessario attendere l’inizio degli anni Novanta, perché ancora una volta, in questo ciclo maniaco-depressivo della storia della scienza, tutt’a un tratto, per l’intervento di una serie di fattori che si potrebbero eventualmente analizzare, si facesse strada finalmente l’idea che si potevano apprendere molte cose sulla cognizione: come nasce un’idea di movimento, come si costruisce un ricordo, come funziona l’emozione e così via, tutti i moduli in cui si articola la vita cognitiva di un animale o di un essere umano. E finalmente fa la sua comparsa qualcosa che mancava ancora e che sta in relazione di prossimità assoluta con la vita dell’uomo: la coscienza, il vissuto. È nata allora quasi improvvisamente una nuova ondata di quella che si chiama oggi scienza della coscienza. E tutt’a un tratto è diventato accettabile, anzi auspicabile, parlare di coscienza e chiedersi qual è l’apparato cognitivo che rende possibile l’esistenza di un vissuto, l’esistenza di un mondo fenomenico [phénoménal]. Beninteso si parla sempre di animali – certi direbbero che [la coscienza] si trova soltanto nell’uomo, altri direbbero che è presente anche nei primati superiori. Ma, in tutti i casi, sotto determinate condizioni, l’apparato cognitivo, di cui sappiamo ormai parecchie cose, rende possibile l’apparizione di questo fenomeno unico nell’universo che è avere un vissuto, o per usare l’espressione del filosofo americano Thomas Nagel, autore di un famoso articolo: “Che effetto fa essere un pipistrello” (1974), potersi porre la domanda “che cosa significa essere qualcuno?” e, per implicazione, “che cosa vuol dire avere un’esperienza?”. Da questo momento comincia il gran boom della coscienza e nel boom della coscienza c’è una fashion, una fascinazione del mistero, per quello che è considerato lo zoccolo duro nello studio della coscienza, che non consiste nello spiegare un fenomeno o una capacità o un’abilità cognitiva qualsiasi, considerata difficile, ma essenzialmente a portata di mano per la ricerca scientifica. Il problema duro è: che cosa ci permette di dire che c’è un’emergenza della coscienza? Che cos’è la coscienza? Si vede bene che questo problema apre tutta una serie di discussioni filosofiche estremamente agitate, a volte addirittura violente. Si organizzano dei convegni. Per esempio il mese di aprile sono stato invitato a un grande congresso che costituisce un momento di incontro, biennale, su questi problemi, all’Università di Tucson in Arizona, sul tema “Verso una scienza della coscienza”, a cui hanno partecipato centomila persone e si sono confrontate tutte le opzioni filosofiche in un dibattito veramente assai largo.
Ma adesso vorrei passare a un altro capitolo.
Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul tema della coscienza oggi?
Anche se il panorama è assai vasto, si possono individuare certe preferenze. Non è difficile immaginare le ipotesi dominanti, perché negli scienziati, nei ricercatori continua a prevalere uno spirito, una tendenza un po’ riduzionista – non lo dico in senso peggiorativo -, nel tentativo di ricondurre il problema della coscienza a una spiegazione puramente materialista. Questo è il programma delle neuroscienze, anzi delle neuroscienze cognitive. Parlo di neuroscienze cognitive perché non si tratta soltanto dello studio del cervello, come nelle neuroscienze, ma dei nuovi metodi di mappatura [imagerie] cerebrale. I nuovi metodi per studiare il cervello in diretta nell’uomo, in maniera non invasiva, permettono di porre questioni cognitive senza toccare la persona e al tempo stesso di avere accesso ai correlati neuronali. Dunque per la prima volta si può mettere un uomo sulla macchina IRM funzionale, dirgli: chiudi gli occhi e immagina il tuo cane che che passa per strada e simultaneamente registrare l’attività [cerebrale], vedere che risultato dà, e poi confrontarlo con il risultato che si ottiene mostrandogli la fotografia del cane per vedere che differenza c’è tra l’immaginare e il percepire. Tali questioni, che fino a qualche anno fa non potevano né meno essere poste, in quanto riguardano l’immaginazione e la vita mentale, sono assai vicine all’esperienza vissuta.
Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti nella sperimentazione avvenuti recentemente? Quali nuove tecniche, in particolare, li hanno resi possibili?
Quando ci si riferisce a queste tecniche, in generale si pensa a dei metodi di mappatura [imagerie] cerebrale, capaci di prendere il cervello come un tutto e di usare diversi tipi di segnali, che permettono di ricostruire l’immagine di quello che avviene all’interno del cervello, senza toccare la persona. Ce ne sono essenzialmente tre. La prima, la più nuova è la risonanza magnetica, la IRM [imagerie par résonance magnétique], e in particolare la IRM funzionale, che ci mette in grado di misurare i cambiamenti nell’alimentazione emodinamica delle diverse parti del cervello, che si accendono nella realizzazione di un compito. Si ottengono così le immagini che il pubblico ha già potuto vedere: un cervello con piccole macchie di colore, come un albero di Natale, che corrispondono per esempio all’atto di alzare un braccio o di avere un ricordo. Queste immagini erano impensabili fino a qualche anno fa. Secondo metodo: abbiamo immagini un po’ più pesanti, immagini ottenute con un’emissione di positroni, iniettando una sostanza che libera particelle radioattive. È come uno scanner, di quelli che si usano per le analisi cliniche, che serve a ricostruire l’emissione delle particelle e a restituire un’immagine dell’attività del cervello. E infine, last but not least, lo studio delle attività di superficie del cervello dispone oggi di apparecchi per fare magnetoencefalogrammi, che permettono di misurare i minuscoli campi magnetici che si trovano alla superficie della testa. Questi campi magnetici, estremamente precisi, mediante un trattamento matematico dei dati, forniscono un’immagine dinamica dei processi cerebrali, che possono essere osservati da un’angolatura nuova. La combinazione di questi tre sistemi, la magnetoencefalografia, il PET [Positron Émission Tomographie] e l’IRM [Imagerie par Résonance Magnétique], Mappatura di Risonanza Magnetica, è l’insieme delle tecniche che rendono possibile la nuova mappatura [imagerie] cerebrale. Evidentemente si continuano a praticare le tecniche in uso già da lungo tempo, come la registrazione delle cellule per cui si inseriscono degli elettrodi all’interno del cranio. Questa è la neuroscienza classica, che si avvale della neurochimica e della neuroanatomia. Le nuove tecniche invece appartengono alle neuroscienze cognitive, perché permettono appunto di porre questioni propriamente cognitive su un substrato neurologico o, più precisamente, neuronale estremamente concreto. La distanza tra coloro che lavoravano sul versante della psicologia e coloro che lavoravano sul versante delle neuroscienze è molto diminuita, è divenuta pressoché inesistente: si lavora contemporaneamente sui due versanti. È questo uno dei motivi per cui si assiste alla rinascita degli studi sulla coscienza, ed è anche la ragione per cui le neuroscienze hanno un ruolo centrale nei dibattiti sulla coscienza. Le persone più influenti, le voci più ascoltate sono proprio quelle come la mia e di molti altri che facciamo ricerche di laboratorio, operando sulla base delle neuroscienze cognitive, che sembrano fornire gli argomenti più diretti per legare l’esperienza e la coscienza al loro substrato biologico e cerebrale. Il problema è che la maggior parte dei miei colleghi scienziati, come dicevo poco fa, propendono per il programma riduzionista, e sono mossi dal desiderio di trovare la coscienza da qualche parte, di trovare i circuiti o il luogo della coscienza o, per usare la parola-chiave, i correlati neuronali della coscienza – in inglese the neuronal correlates of consciousness, per cui viene universalmente usata l’abbreviazione NCC – sempre in base alla speranza che i correlati neuronali della coscienza siano a portata di mano e che, magari con un duro lavoro, sia possibile trovarli. Per esempio uno scienziato del più alto livello, come Sir Francis Crick, premio Nobel, scopritore con Watson della struttura del DNA, che ha dedicato una vita allo studio del cervello, è convinto di aver identificato i circuiti responsabili dei fenomeni di coscienza, e ha scritto un libro intitolato L’ipotesi misteriosa, in cui si dice tra l’altro: abbiamo scoperto che noi, con la nostra vita, la nostra esperienza, non siamo che a bunch of neurones, un fascio di neuroni. Ecco un pensiero decisamente riduzionista. Non sto facendo una caricatura, riprendo le parole e le scelte di uno scienziato di grande statura, non di un tizio qualsiasi che non ha dato nessun contributo alla scienza. Dunque la nozione di un correlato neuronale della coscienza è veramente la posta in gioco essenziale. In che cosa consistono i correlati neuronali della coscienza? Sono stati trovati, o li dobbiamo ancora trovare? È possibile o impossibile? Questo è il dibattito fondamentale.
Qual è la sua posizione personale – che immagino antiriduzionista – in questo dibattito?
C’è una tendenza, un vettore riduzionista, in cui la nozione di NCC occupa veramente la maggior parte dei dibattiti e delle discussioni. Ma alcuni di noi – parlo a titolo personale, ma evidentemente non sono solo, anche se siamo sempre un po’ in minoranza – pensano che la questione posta in questi termini non ha soluzione, per la semplice ragione che il vissuto in quanto tale è per principio logicamente ed empiricamente irriducibile a una funzione neuronale. È quello che si chiama il problema duro della coscienza. Ciò che appartiene al vissuto ha uno statuto o una natura che non è spiegabile in termini di sistema neuronale. Se ne può trovare un correlato, ma questo correlato non cambia assolutamente il fatto che il lato fenomenico [phénoménal] resta quello che è, un’apparizione fenomenica [phénoménal], un accesso fenomenico [phénoménal] alla mia coscienza. Dunque bisogna mettere la discussione in termini diversi, tenendo presente il fatto che il dibattito sulla coscienza è cominciato e si è sviluppato per la maggior parte negli Stati Uniti, dove la filosofia della scienza dominante che si chiama philosophy of mind, è una filosofia di tipo analitico, che si interessa essenzialmente a dare buone definizioni delle categorie e degli oggetti, mentre il mio background filosofico è piuttosto quello della tradizione fenomenologica. Nella tradizione fenomenologica il punto di partenza è la natura del vissuto e la spiegazione materiale del mondo, la spiegazione delle relazioni tra l’elemento fenomenico[le phénoménal] e il mondo. Non si tratta in alcun modo di un tentativo di riduzione o di un tentativo di dissolvere l’elemento fenomenico [le phénoménal] nell’empirico, perché sarebbe un’impresa destinata a fallire. Qual è l’alternativa? L’alternativa è in un certo senso evidente – non direi banale, ma evidente – solo che vi si rifletta adeguatamente. Perché? Perché quando dico che la coscienza è il vissuto, non parlo di qualcosa che esiste solo nella mia testa. Non posso mettermi alla ricerca della coscienza a partire da un tratto di circuito cerebrale. La coscienza non appartiene, per così dire, a un gruppo di neuroni, appartiene a un organismo, appartiene a un essere umano, a un’azione che si sta vivendo. Non è proprio la stessa cosa. Che cosa vuol dire precisamente? Vuol dire che non si può avere una nozione della coscienza e della maniera in cui emerge, se non si prende in considerazione il fatto che il fenomeno della coscienza appare in un organismo ed è legato ad almeno tre cicli permanenti di attività. In primo luogo è connesso in permanenza con l’organismo. Si dimentica troppo facilmente che il cervello non è un fascio di neuroni sezionati in laboratorio, ma esiste all’interno di un organismo impegnato essenzialmente nella propria autoregolazione, nella nutrizione e nella conservazione di sé, che ha fame e sete, che ha bisogno di rapporti sociali. Alla base di tutto ciò che pertiene all’integrità degli organismi, c’è infine il sentimento dell’esistenza, il sentimento di esserci, di avere un corpo dotato di una certa integrità, appunto. Per un aspetto essenziale la coscienza rientra nell’attività permanente della vitalità organismica che, muovendosi sullo sfondo del sentimento di esistere, è continuamente permeata, attraversata, da emozioni, sentimenti, bisogni, desideri. In secondo luogo è evidentemente in collegamento [couplage] diretto col mondo, o in interazione col mondo, attraverso tutta la superficie sensorio-motrice. Io ho coscienza del bicchiere, nel senso che, quando vedo il bicchiere, dico: ho coscienza di questo bicchiere. Ma il bicchiere non è un’immagine nella mia testa, di cui io debba prendere coscienza dall’interno, Si è scoperto che il bicchiere – questa è buona neuroscienza – è inseparabile dall’atto di manipolarlo.L’azione e la percezione costituiscono un’unità e il mondo non esiste, se non in questo ciclo, in questo collegamento [couplage] permanente. Io amo dire che c’è un’interazione col mondo e che il mondo emerge solo grazie a questo collegamento [couplage] che è una fonte permanente di senso. È un’evidenza veramente massiccia, che si è costituita a partire dallo studio dei bambini, dalla neurofisiologia della corteccia motoria e sensoriale, e via di seguito. Ne potremmo parlare per diverse ore. Quando parlo di contenuti di coscienza, e dico di vedere un bicchiere, il volto di un amico, il cielo, non parlo di un tratto di circuito [circuiterie] neuronale che capta un’informazione dal mondo e ne fa un correlato della coscienza, sto parlando di qualcosa che è necssariamente decentrato [excentré], che non è nel cervello, ma nel ciclo, tra l’esterno e l’interno, non esiste che nell’azione e nel ciclo, nello stesso modo in cui il sentimento d’esistenza vive nel ciclo tra l’apparato neuronale e il corpo. Ma c’è ancora una terza dimensione, valida soprattutto per l’uomo – ma anche per i primati superiori – il fatto di essere strutturalmente concepiti per avere rapporti con i nostri congeneri, con individui della stessa specie, l’abilità innata, di un’importanza assolutamente centrale, che costituisce l’empatia, di mettersi al posto dell’altro, di identificarsi con l’altro. Il rapporto tra madre e bambino non è che una faccenda di empatia. Non soltanto nell’infanzia, ma per tutto il resto dell’esistenza, la vita, la vita mentale, la vita della coscienza, la vita del linguaggio o la vita mediata dal linguaggio, l’intero ciclo dell’interazione empatica socialmente mediato, io non posso separarlo da ciò che chiamo coscienza. Dunque ancora una volta non è all’interno della mia testa che tutto questo si svolge, ma in modo decentrato [excentré], nel ciclo. Il problema del neuronal correlate of consciousness è mal posto, perché la coscienza non è nella testa. Per esprimersi concisamente, la coscienza è un’emergenza che richiede l’esistenza di questi tre fenomeni, di questi tre cicli: con il corpo, con il mondo e con gli altri. I fenomeni di coscienza possono esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso comporta. Qual è in tutto questo il ruolo del cervello? Evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché – la cosa si può dire molto bene in inglese, con una espressione difficile da tradurre – è the enabling condition, la condizione di possibilità.
Ripeto ancora una volta che la coscienza non è un segmento di circuiti cerebrali, ma appartiene a un organismo incessantemente coinvolto nei differenti cicli e che quindi è un fenomeno eminentemente distribuito, che non risiede solo nella testa. Il cervello da parte sua è essenziale perché contiene le condizioni di possibilità perché questo avvenga. È meraviglioso. La meraviglia del cervello è che permette per esempio il coordinamento sensorio-motore di tutta l’interazione, la regolazione ormonale che assicura il mantenimento dell’integrità corporea, e così via. Ma la nozione di neuronal correlates of consciousness in quanto tale è, per usare le parole di Alfred Norton Whitehead, “una concretizzazione inopportuna”. Non si può fare questa mossa senza escludere simultaneamente molti fatti importanti. Dunque la mia è una posizione antiriduzionista, ma al tempo stesso una posizione assai meglio fondata.
Questo riguarda la nozione di ciclo, ma come la coscienza emerga dal ciclo è una nozione assai fluida.
Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come funziona questo concetto nelle neuroscienze?
Sì, certo. In effetti la nozione di emergenza in tutto quello che ho detto e in tutto quello che penso riguardo a queste cose – né sono solo a pensarlo – è una nozione assolutamente centrale, in mancanza della quale si continua a restare, come accade nella maggior parte dei casi, in una visione dualista del genere body/mind, e non si arriverà mai a comprendere come un’attività di tipo sia cognitivo, sia cosciente possa essere collegata a una base materiale, senza essere ridotta a un’influenza materiale, come sia possibile un approccio non riduzionista alle basi materiali [della coscienza]. Come dev’essere intesa al nozione di emergenza? Ancora una volta bisogna gettare uno sguardo sulla storia, perché si tratta di una nozione che proviene dalla fisica, che, dall’inizio del secolo, si è sviluppata assieme alla fisica. Proviene dall’osservazione delle transizioni di fase o transizioni di stato o per dirlo più chiaramente di come si passa da un livello locale a un livello globale. Faccio un esempio banale. Sono in circolazione [nell’atmosfera] innumerevoli particelle d’aria e d’acqua e tutt’a un tratto per un fenomeno di autoorganizzazione – questa è la parola chiave – diventano un tornado, un oggetto che apparentemente non esiste, non ha vera esistenza, perché esiste soltanto nelle relazioni delle sue componenti molecolari. Nondimeno la sua esistenza è comprovata dal fatto che distrugge tutto quello che incontra sul suo passaggio. Dunque è un curioso oggetto. La nozione di emergenza ha avuto molti sviluppi teorici e in biologia si trova che i fenomeni di emergenza sono assolutamente fondamentali. Perché? Perché ci permettono di passare da un livello più basso a un livello più alto, all’emergenza di un nuovo livello ontologico. Quello che era un ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, quello che era un insieme di individui può diventare un gruppo sociale, quello che era un insieme di molecole può diventare una cellula. Dunque la nozione di emergenza è essenzialmente la nozione che ci sono in natura tutta una serie di processi, retti da regole locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni appropriate, danno origine a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica identità. Qui la parola identità è importante. Quando si parla di una certa identità cognitiva, si pensa per esempio al fatto di un cane che si sposta, che decide se andare a destra o a sinistra, che ha un certo temperamento o un certo comportamento, una vita individuale. Si può dire benissimo che questa è la vita mentale, la vita cognitiva del cane: preferisce, sceglie, si ricorda ecc. ecc. Dove ha origine tutto questo? Nella visione delle neuroscienze l’origine è in quella serie di interazioni, dunque nelle sue percezioni-azioni, nel collegamento [couplage] con il mondo, che fa emergere il livello transitorio di un aggregato, da una specie di assemblaggio di tutti i moduli particolari che sono la percezione in quanto tale, l’azione in quanto tale, ecc. ecc. mettendoli insieme in una unità coordinata che sarebbe la vita cognitiva del cane. Qui c’è un salto. Per noi è lo stesso. La nostra identità in quanto individui è di una natura del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono: Buongiorno, Francesco, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni con gli altri. Dunque c’è una specie di interfaccia, di collegamento [couplage] col mondo, che dà l’impressione di un certo livello di identità e di esistenza. Ma al tempo stesso questo processo è di natura tale che appunto, come in tutti i processi emergenti, io non posso localizzare questa identità, non posso dire che si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un locus, non ha una collocazione spazio-temporale. È difficile capire che si tratta di una identità puramente relazionale e così nasce la tendenza a cercare i correlati neuronali della coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito 27. Ma non è possibile, perché si tratta di una identità relazionale, che esiste solo come pattern relazionale, ma è priva di esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero che tutto quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e materiale è il modo di pensare più antico della tradizione occidentale ed è molto difficile cambiarlo.
Atomista, dunque?
Atomista se si vuole, ma soprattutto è un modo di vedere che si trova alla radice della filosofia materialista. Il fisicalismo più diffuso pretende che la sola esistenza è quella materiale. Ora il fatto interessante è che proprio in ambito scientifico e non filosofico, prima nella scienza e solo in un secondo tempo in filosofia, è stata scoperta la nozione di emergenza. Che si possano dire oggi molte cose, che si possano impiantare anche delle equazioni su queste transizioni da un livello all’altro, dal locale al globale, per cui de facto la vita è qualcosa di troppo, una maniera d’essere nella natura che non è sostanziale ma, per così dire, virtuale – efficace ma virtuale – è una rivoluzione scientifica della più grande importanza.
Accetta in questo caso di definirsi olista?
Il termine olista è superato, a mio avviso, perché risale all’epoca in cui c’è stato lo scontro tra l’idea che si potesse realizzare un programma riduzionista forte e una nozione filosoficamente motivata dall’esigenza di reagire contro quel programma. Qui non si tratta di olismo, ma di buona scienza. Si tratta di osservare una gran quantità di processi naturali, lo sviluppo e il funzionamento del cervello, l’organizzazione del sistema immunitario, l’organizzazione dei sistemi ecologici, che non possono essere capiti se non si prende in considerazione la dialettica tra i due livelli, che l’olismo non ha mai veramente compreso. Dunque il termine olismo non è veramente appropriato. Quando parlo di emergenza, parlo di qualcosa che è centrale nella ricerca scientifica contemporanea, anche se molti non ne hanno ancora colto l’importanza. È un problema assolutamente essenziale – e con questo chiudo questo piccolo a parte epistemologico – perché ciò che c’è di geniale nella nozione di emergenza è che, se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo danno origine a una attività cognitiva, dall’altro, come in tutti i processi di emergenza naturale, una volta che ha avuto luogo l’emergenza di una nuova identità, quell’identità ha degli effetti, ha delle ricadute [causalité descendente] sulle componenti locali. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il concetto di emergenza ci permette per la prima volta di pensare la causalità mentale. Il mentale non è più un epifenomeno, non è più una specie di fumo che esce dal cervello. Al contrario, si può dimostrare scientificamente, logicamente e anche matematicamente che l’esistenza, l’emergenza di uno stato mentale, di uno stato di coscienza, può avere un’azione diretta sulle componenti locali, cambiare gli stati di emissione di un neurotrasmettitore, cambiare gli stati di interazione sinaptica tra neuroni e così via. Questo vuol dire che c’è un vero va-e-vieni tra ciò che emerge e le basi che ne rendono possibile l’emergenza, che impone di fare una descrizione completamente diversa del posto della coscienza e della cognizione in generale – ma certamente della coscienza – nell’universo, non come livello fluttuante, ma come parte intrinseca della natura, come parte intrinseca alla dinamica del mondo naturale. È questo che mi piace e che ci fa avanzare rispetto alla perenne ripetizione di un dualismo che non porta da nessuna parte, senza dover ricorrere al riduzionismo, e senza che la coscienza perda il suo statuto fenomenologico [phénoménal], il suo statuto proprio.
Tuttavia è abbastanza diffusa l’idea che il compito essenziale della scienza, di qualsiasi scienza, è di fare previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è d’accordo? Lei pensa che il suo approccio, che si basa sulla nozione di emergenza e su altri concetti non riduzionisti, può realmente aumentare la capacità o la forza predittiva delle neuroscienze? In caso contrario, questo potrebbe costituire un’obiezione al suo approccio: si potrebbe sostenere che è più verisimile, ma che forse non contiene in definitiva una capacità di previsione più forte dell’approccio riduzionista.
È giusto porre questa domanda e spesso viene posta. Ecco come stanno le cose. Quando dominava il paradigma delle scienze fisiche, veniva qualcuno in un congresso a dire: ho una buona teoria per prevedere la traiettoria degli elettroni. Gli veniva chiesto allora di fare una previsione, di prevedere la traiettoria di un elettrone e mostrare di conoscerne esattamente la posizione [in un dato momento]. Eccellente metodo fondato sull’anticipazione e la previsione. La fisica, con Einstein e la teoria della relatività, lo ha sfruttato in modo geniale. Ma attenzione! Sarebbe un riflesso puramente fisicalista pensare che questo è il solo metodo con cui la scienza procede. Perché? Perché appunto nel campo delle scienze della natura diverse dalla fisica, per esempio nelle scienze del vivente, non è questo che ci interessa. Poniamo che io dica: ho una perfetta comprensione di come questo cane cammina. Che interesse ha prevedere in che istante muoverà la zampa destra, se nell’istante t o t1. Sembra qualcosa di assolutamente banale. Qual è la prova che ho ragione, che la mia teoria è buona? È il fatto che posso ricostruire un cane capace di muoversi. Ci sono nella scienza due approcci: l’approccio predittivo e quello che possiamo chiamare l’approccio costruttivo. Per avere ragione dovete essere in grado di costruire un apparecchio capace di movimenti come quelli del cane. È qualcosa di assai più convincente che anticipare il movimento della zampa destra del cane. Questo è il punto: non bisogna dimenticare che è questo il modo con cui procede oggi la scienza. Si procede così nell’interfaccia tra le neuroscienze e [le teorie del]l’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale è in gran parte la prova costruttiva delle teorie nate nel campo delle neuroscienze: per esempio, fare dei robots capaci di orientarsi in un mondo. Gli scienziati che costruiscono questo tipo di automi si ispirano alla biologia, ma la prova che la teoria è buona è che il robot cammina. Non è interessante tanto prevedere il punto esatto in cui effettuerà un certo movimento, quanto che la capacità qualitativa di compierlo emerga e si manifesti. Dunque la prova mediante l’emergenza, la prova dell’emergenza è la costruzione, non la previsione.
Ma si può veramente costruire un vivente, – dato che un robot non è un vivente – si possono ricostruire realmente degli organismi viventi a partire dall’inorganico?
Assolutamente sì. Ci siamo molto vicini, molto, molto vicini, precisamente perché esistono teorie dell’emergenza della cellula. Ci sono in questo campo risultati recenti assolutamente straordinari, come la produzione di cellule di sintesi, diverse dalle cellule storiche perché impiegano componenti diverse. Per la stessa ragione si può tentare di riprodurre tutto lo sviluppo di un animale multicellulare, sulla base di cellule disaggregate. Se si ha una buona teoria dell’emergenza, della forma di un embrione, la si può applicare. È sempre esattamente lo stesso ragionamento e dunque in questo tipo di prova non c’è assolutamente meno rigore che nel vecchio tipo di prova che è proprio della fisica. Dunque si tratta veramente di cambiare campo.
Il costruttivismo è dunque una conferma del determinismo più stretto, o al contrario fa posto, come mi sembrava di aver capito all’inizio del suo discorso, a una specie di indeterminismo evenemenziale?
Tutto dipende da che cosa si intende con “determinismo”. Se “determinismo” vuol dire che si conoscono le leggi fondamentali dell’universo, che ci permettono di comprendere come certi fenomeni – tra cui mettiamo la coscienza – emergano, allora sì effettivamente da questo punto di vista si tratta di un approccio determinista. Ma non è determinista nel senso laplaciano del termine, perché la previsione non è interessante e né meno possibile. Sono fenomeni complessi: la maggior parte dei fenomeni emergenti sono detti “non lineari”, perché funzionano appunto su basi che non permettono la previsione, sono di tipo caotico. In questi casi la previsione in quanto tale non è interessante. Io non posso calcolare quello che un dato individuo penserà in un istante successivo, perché questo fa parte appunto della logica, della legge di emergenza del suo pensiero.
Lei ha detto di essere stato influenzato filosoficamente dalla fenomenologia, ed ha accennato ad una specie di va e vieni tra fenomenologia e neuroscienze. Ci può spiegare meglio la sua storia intellettuale?
Sì. Evidentemente quando ci si interessa, come mi sono interessato io, a questo genere di problemi, concernenti la cognizione e la coscienza, si è sempre sostenuti anche da un interesse filosofico. Assai presto ho subito una marcata influenza della filosofia continentale e in grande misura proprio della fenomenologia…
… per questo ha scelto di lavorare in Francia, piuttosto che negli Stati Uniti o in Inghilterra?
Ci stavo arrivando. Dopo mi sono recato negli Stati Uniti per completare la mia formazione e lavorando parecchi anni in quel paese mi sono reso conto che l’orientamento continentale o, se si preferisce, europeo, che avevo appreso nella mia giovinezza, non era l’unico. Ho dovuto iniziarmi a un approccio completamente diverso alla filosofia, che gli americani chiamano philosophy of mind, filosofia della mente, una filosofia di tipo francamente analitico, improntata a uno spirito del tutto diverso, in antagonismo, in guerra con la filosofia continentale. Ci è voluto del tempo perché mi abituassi a questo tipo di pensiero e, man mano che il tempo passava, mi sono reso conto che quel tipo di filosofia non mi si addiceva affatto, anche se a quel tempo era francamente dominante nel campo delle scienze cognitive. I filosofi, i grandi filosofi, che dominavano la scena, Daniel Dennett, John Searle, venivano dalla tradizione della philosophy of mind, che a me non diceva molto, anche perché ormai avevo deciso di lasciare gli Stati Uniti per venire in Europa. Una volta installato in Europa, mi sono accorto che era effettivamente molto più interessante per me a livello dei miei incontri, delle mie partnership, quella filosofia che non avevo trovato negli Stati Uniti, dove lavoravo molto più solo. C’era infatti in quel momento una vera rinascita della fenomenologia. La fenomenologia era stata considerata per anni dal pubblico – non certo dagli studiosi, ma dal pubblico – come una filosofia che consisteva soprattutto nel commento di testi specialistici, di libri polverosi, che nessuno leggeva. Ma in realtà la fenomenologia è soprattutto – a partire da Husserl, che ne è il fondatore – uno stile di lavoro, una maniera di lavorare completamente aperta a nuovi dati, a nuovi orientamenti. Bisogna sapere che c’è tutta una nuova generazione, che prende la fenomenologia come uno strumento di lavoro, per lo studio di questioni cognitive …
… nella scienza?
… nella scienza, appunto. Perché? Perché serve, è di aiuto. Mi permetta di fare un esempio. Si parlava prima della riconcettualizzazione della percezione, degli oggetti del mondo. Fino a poco tempo fa si aveva un’idea rappresentazionista della percezione. Là c’è il bicchiere e dentro di me ho un’immagine. L’idea fondamentale che attualmente abbiamo di questa esperienza è di una inseparabilità dell’atto e della percezione. Adesso si scopre, tra l’altro che Husserl e Merleau-Ponty hanno esaminato a lungo questi argomenti e hanno estesamente tematizzato l’inseparabilità di percezione e di azione. Se si legge, per esempio, quello straordinario libro di Husserl che s’intitola Ding und Raum, Cosa e spazio, dove descrive in tutti i particolari il modo in cui le cinestesie del corpo vanno a costituire un oggetto, si vede l’incredibile finezza d’osservazione, propria del fenomenologo, con cui mostra cose che oggi vengono confrontate – e concordano perfettamente – con i risultati delle neuroscienze. Lo stesso non si può dire dei filosofi analitici, che si sono formati su un’analisi puramente esterna e non sono mai entrati in un confronto diretto con i dati empirici. Ne consegue che c’è sempre più la tendenza a fare della fenomenologia una fonte di riflessione, tanto più se ci si interessa alla coscienza, che è per così dire lo zoccolo duro della fenomenologia, alla descrizione delle strutture della coscienza, alla maniera in cui, con il metodo della riduzione fenomenologica – che non ha niente a che vedere con il riduzionismo fisicalistico -, con il metodo di osservazione e di analisi fenomenologica, si può cogliere l’elemento centrale nelle strutture dell’esperienza umana. Oggi nel boom della coscienza, delle scienze della coscienza, c’è un ritorno molto forte al metodo “in prima persona”, che un tempo si chiamava introspettivo, metodo capace di prendere in considerazione i dati del vissuto personale, per portare avanti un esperimento. È quello che si fa nei laboratori. A chi ha questo tipo di interessi la fenomenologia viene incontro in laboratorio come partner naturale della sua ricerca.
Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La crisi delle scienze europee. Lei pensa che le scienze europee possono superare la crisi denunciata da Husserl. Lei pensa che il progetto delle neuroscienze cognitive sia più forte?
Ascolti. Husserl è un pensatore multiforme e certe sue opere sono state pubblicate solo recentemente. C’è ancora una grande quantità di inediti, e secondo me, se si legge un libro come Analisi delle sintesi passive, che è stato pubblicato nel 1966, si può evitare di prendere alla lettera il pessimismo dell’Husserl che scrive La crisi. Io non sono – e lo stesso vale per la nuova generazione di coloro che si interessano alla fenomenologia – un Husserl’s scholar. Husserl è un uomo che detto delle cose geniali, che fatto dei lavori geniali, ma ci sono molte altre cose sue meno interessanti. Non importa. Quello che importa è il suo stile, l’impulso che ha impresso alla ricerca, a cui altri contribuiscono. Dunque non si può essere d’accordo o in disaccordo con tutto quello che ha detto, perché ha detto tante di quelle cose che c’è spazio per l’uno e per l’altro atteggiamento. Bisogna mettere da parte l’idea che i filosofi siano monolitici. Secondo me filosofi come Husserl o Merleau-Ponty devono darci delle ispirazioni per il nostro lavoro.
Allora Lei crede che c’è una rinascita della fenomenologia anche nelle scienze? In quale dominio scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita o è in qualche modo disseminata?
Questo rinnovamento della fenomenologia, che si interfaccia con la scienza, riguarda molti campi, ma in modo prioritario il campo delle scienze cognitive e lo studio della coscienza.
Da per tutto?
Sia negli Stati Uniti che in Europa. Sono stati pubblicati recentemente dei libri, si sono tenuti convegni e seminari a Parigi, dunque c’è già una letteratura abbastanza considerevole. La fenomenologia si interfaccia anche con la matematica e la fisica matematica. È un fatto, in un certo senso, comprensibile. Ma la sua penetrazione nell’universo delle scienze cognitive è molto interessante, e sta cambiando i dati del dibattito. Adesso nei convegni americani si sente dire: bisognerebbe invitare anche scienziati con un background fenomenologico. Si comincia a capire che la filosofia della mente non è l’unica opzione, e che la sua egemonia è stata scossa. È una cosa che fa riflettere. I giovani sono sempre più interessati.
Ci sono fenomenologi viventi a cui si sente vicino?
Sì, ce ne sono.
Lei ha citato finora solo Husserl e Merleau-Ponty, che sono …
… dei classici.
Potrebbe citarne qualcuno di più recente, di più “cutting edge”?
Ce ne sono di molto noti come Eduard Marbach, in Svizzera, di formazione husserliana, che si interessa molto all’interfaccia e che ha scritto su questo tema un libro molto interessanteintitolato Mental representations. Su un’altra linea, di un’altra scuola è l’americano Hubert Dreyfus, che ha avuto un grande successo per le critiche che ha mosso, da un punto di vista fenomenologico, alle scienze cognitive. Tra i giovani, c’è un tipo negli Stati Uniti che mi sembra già molto importante. Si chiama Shaun Gallagher, studioso sulla trentina, con una buona formazione come fenomenologo e al tempo stesso come filosofo analitico, che conosce molto bene il campo della ricerca empirica ed è molto attivo. Un giovane filosofo canadese con cui lavoro molto, Evan Thompson, ha anche lui una doppia formazione, come fenomenologo e come filosofo analitico, ma conosce anche i problemi della scienza. Infine c’è un giovane filosofo danese molto competente, Dan Zahavi.