Prima di questa riflessione, vorrei dare notizia di alcune eventualità attuali e prossime.
Da qualche giorno, con esercizio di pudore che corrisponde a un semplice sospiro di sollievo (che sarebbe poi la natura naturante del respirare autentico e cioè del respiro dell’autentico), tento di andare disciogliendo nodi teorici attraverso piccole sincrasie: scrivendo note che non ambiscono a nulla, se non a farmi pensare mentre scrivo, cioè a non farmi pensare – a mantenermi in un silenzio puro per me prima molto raro, poiché assai rarefatto. Tali interventi si articolano in meditazioni (e non utilizzo casualmente il sostantivo) intorno a gangli che considero fondanti per una forma a venire – mia anzitutto, e non è detto che sia forma di scrittura. I gangli concernono: la letteralità, l’epico, il tragico, la narrazione aperta, la retorica ultimativa, lo sguardo e l’ascolto, lo spazio assoluto, la secondarietà dell’eroe, l’essere da cui emergono per fluida condensazione e subitanea apparizione il divenire e l’accadimento, l’approccio al testo secondo categorie stilistiche e psichiche e un po’ oltre lo psichico. Tutto ruota intorno a un perno semanticamente impreciso, che è detto “vuoto” e corrisponde alla non linguificabile sensazione di essere che ogni umano sperimenta, intatta e irriconducibile alla psicologia (sebbene la psiche non sia possibile senza quella sensazione di essere). Tale sensazione di presenza è posta come qui e ora sempre sperimentabile attraverso attenzione autoconsapevole. Essa è, a mio avviso, il fontale sorgivo da cui emerge l’attenzione stessa e, via via, la percezione delle cose. Andrebbe ripreso, e molto più rigorosamente di quanto faccio con l’esercizio implicito di queste idiosincrasie, il magistero testuale e non solo testuale di Edmund Husserl, le cui Meditazioni cartesiane non sono state meditate: sono state pensate e ragionate, il che è parecchio distante dalla meditazione.
Le notizie che volevo dare. Da quando ho iniziato questa serie di meditazioni prive di ambizione, i lettori del sito si sono ridotti repentinamente a 1/12 dell’usuale. Ritengo che, poiché se scrittura da parte mia si darà nel futuro, accadrà lo stesso movimento di sottrazione da parte di lettori dei miei eventuali libri. Mi spiace deludere molti Miserabili Lettori, che seguono da anni quanto scrivo in Rete, in carta, in volume: tuttavia questo è l’andamento di un necessarissimo periodo di transizione, affannato certamente, eppure tanto silenzioso, che mi avvicina a un’essenzialità che, evidentemente, non piace. Mi spiace che la questione sia il piacere. E’ però vero che ciò che si cerca è ciò che si cerca – da solo, intendo, e si trova. Questo è. Nei prossimi giorni, probabilmente, intercalerò a queste riflessioni, che sono assolutamente indifferenti all’audience, alcune segnalazioni a cui tengo. Il che non significa che, stanti così le cose e finché così staranno, interventi che comprendo essere affatto ardui da seguire continueranno a comparire qui, finché la spinta che li compone non sarà esaurita.
Non ho molto da dire circa il tragico perché è già detto, solo che oggi non è meditato. C’è molto da meditare. E la meditazione si incanala lungo una via esperienziale: fa compiere esperienza di teoria e di testo. Richiamo qui, pertanto, ciò che a mio parere non è superabile nell’individuazione del nucleo del tragico, nucleo metatemporale perché crolla nel tempo umano ma non appartiene al tempo umano, in quanto non appartiene al piano della temporalità: si tratta di una delle concezioni del tragico enunciate da Johann Christian Friedrich Hölderlin. Dopo averla enunciata, egli dà corpo a tale concezione, con il nome di Scardanelli [a inizio intervento, un ritratto di Hölderlin/Scardanelli].
Nella sua Poetica, Aristotele afferma:
“Rientrano nel dominio della parola tutti quegli effetti che devono essere prodotti attraverso la parola. Sono sue parti il dimostrare, il confutare, il sollevare emozioni”.
Nelle sue Note all’Edipo, Hölderlin definisce simbolicamente la modalità espressiva del tragico: il simbolo, matematico, è “= 0”. Il sacrificio dell’eroe è un’espressione dell’= 0: porta allo zero.
Hölderlin ribadisce la convinzione che l’essenza dell’uomo e l’essenza del tragico coincidono. Per “uomo” si intenda l’umano incarnato e per “tragico” si intenda l’espressione del tragico, che emblematicamente può essere l’apparizione storica della tragedia greca, la quale non esaurisce le forme di espressione del tragico. Sia chiaro: l’uomo e il tragico, per Hölderlin, non coincidono; l’essenza dell’uomo e l’essenza del tragico, invece, coincidono. L’attenzione si sposta quindi sull’essenza: sull’essere in sé, cioè su quella concreta sensazione di essere che ognuno sperimenta sempre finché è.
C’è una coincidenza strutturale tra umano e tragico, che viene rilevata da Hölderlin e che si lega alla citazione aristotelica. Per Hölderlin l’uomo manifesto è un sistema di (auto)percezioni, che viene sottoposto a una tripartizione: rappresentazione, sensazione e ragionamento. La struttura tripartita dell’umano manifesto è per Hölderlin fondamentalmente rispettata dal parallelo funzionale che prende corpo nell’espressione del tragico, il quale tragico esprime in logica poetica ed esistenziale le funzioni di rappresentazione, sensazione e ragionamento. Questa tripartizione è traducibile in quella enunciata da Aristotele nel suo lessico: la facoltà intellettiva rappresentazionale (diànoia), l’emozione sensitiva (pàthos) e la discriminazione dialettica (apòdexis).
Hölderlin in ciò è l’erede della visione del tragico da parte di Aristotele.
Questa affermazione richiede dimostrazione da parte di critici filologici, certo – ma soprattutto di teorici immuni dalla malattia occidentale, quella che vede nel tragico la rappresentazione di qualcosa e il sortilegio degli effetti. Non mi impegnerò ora a ragionare sui passi celeberrimi della Poetica di Aristotele che riguardano il tragico, perché l’ho già fatto in un saggio a tuttoggi inedito. Enuncio, non supportata da prove, la conclusione a cui sono giunto in quel saggio: il timore e la pietà suscitati dalla tragedia secondo Aristotele sono veicoli interiori che una storia preconosciuta e rappresentata induce nell’umano, il quale, se segue la veicolazione, giunge alla pura presenza di sé, la vuota coscienza attenta alla coscienza – il vuoto, appunto.
Hölderlin è esplicito, in tal senso. Scrive Andrea Mecacci in La mimesis del possibile. Avvicinamenti a Hölderlin (Pendragon):
“Si verifica qualcosa, un evento, l’apertura di un altro versante che rovescia l’abituale visione dell’esistente: accade una catastrofe visibile nella disfatta dell’eroe e accade una cesura all’interno del dramma. Questo è il cuore del tragico. Nel frammento Das Weden im Vergehen Hölderlin aveva chiamato questo attimo ‘dissoluzione’, nel Grund zum Empedokles lo aveva individuato nella dialettica tra aorgico e organico, nel frammento Die Bedeutung der Tragödie, nella logica del paradosso, l’originario che si manifesta nel suo essere = 0 tramite il sacrificio dell’eroe: adesso è la nozione di cesura”.
Prima del passo fondamentale di Hölderlin, a cui sin dall’inizio doveva condurre questa meditazione personale, alcune notazioni: l'”attimo” in questione non appartiene al tempo eppure è sempre possibile, poiché è il qui e ora che continuamente è possibile sperimentare e che fa emergere il silenzio del tempo tramite interruzione atemporale – è cioè nel tempo, ma non è del tempo, proprio come Cristo intende che è nel mondo ma non è del mondo; l’idea stessa di cesura enunciata da Hölderlin è il segnale dell’esistenza e dell’inesistenza della lingua, è ciò attorno a cui vibra il ritmo, ed è ciò che presiede al superamento della ora molto in voga idea che esista la paratassi opposta all’ipotassi, mentre non esiste a livello sintattico nessuna di queste nozioni, che non sono proprio sintattiche, bensì dinamiche e cioè ritmiche e cioè energetiche, ovverosia modalità di manifestazione della cesura.
Il passo di Hölderlin in Note all’Edipo, ora, che è l’autentico di questa meditazione: è, intendo, la sua origine, il suo svolgimento e la sua prosecuzione:
“Il trasporto tragico è infatti propriamente vuoto ed è il più sciolto. Perciò nella successione ritmica delle rappresentazioni, nelle quali il trasporto si rappresenta, diviene necessario ciò che nella metrica si chiama cesura, la pura parola, l’interruzione controritmica, così da fronteggiare il trascinante alternarsi delle rappresentazioni al suo culmine, in modo che non si manifesti più l’alternanza della rappresentazione stessa, ma la rappresentazione stessa”.
Questo è ciò che io intendo con il termine “letteralità”.
Esso equivale al termine “vuoto”.
Tutto il tragico, cioè tutto l’umano, allo stato essenziale sta qui.
Il tempo di rappresentare il tragico nel tempo dipende dall’opera artistica di dare forma all’emersione della cesura che è la parola pura – la parola che significa se stessa e quindi è cesura, cioè vuoto.
Ciò significa, per esprimersi con Kafka, “dare l’assalto al confine estremo”. Al di qua del confine è l’umano manifesto e la parola culturale, oltre il confine è l’umano e basta insieme alla parola pura. Tale confine è interno: è qui ed è ora, seriamente, sperimentabile alla mano: qui e ora. Non esiste un fuori dall’umano finché si è nell’umano, ma non è comunque possibile uscire dall’umano perché, scomparsa foss’anche la specie umana, non sarebbe scomparsa la sua essenza, che è qui e ora, cioè qui e ora oltre il prima e il dopo, e però dentro il prima e il dopo.
Il tragico sovrasta, non segue, l’epico. E’ esso l’opera da compiersi – nel senso che si compirà da solo.