Una lettera a qualcuno da “Italia De Profundis”

italiadeprofundis[da Italia De Profundis, minimum fax]

“Carissimo,
la tua idea della letteratura mi fa schifo. Neanche: siccome non hai un’idea della letteratura, non posso nemmeno detestare qualcosa che non esiste. Il che significa che odio te, direttamente te, personalmente e nello specifico. Nonostante non ti incontri di persona da anni, conosco quanto dici e quanto fai, insistentemente, sempre – questo ronzio del moscone sulla merda e questo silenzio della merda davanti al calabrone sono, insieme, la medesima cosa: cioè te. Nonostante tu non abbia alcuna idea della letteratura, pensi di averla e propali il tuo credo imbecille che è praticamente ovunque. E’ un credo che è un’allucinazione collettiva e trascina tutto nell’abusata situazione di una ripetuta sodomia: politica, lavoro, musica, televisione, cinema, nutrizione, gioco – non c’è àmbito in cui questo credo non si sia spalmato e abbia mutato i rapporti che correvano tra queste espressioni umane e gli uomini. In praticolare, però, ai tuoi occhi tu incarni il messia di questo credo in àmbito letterario.
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2014: l’anno luce dello scrittore Genna

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Piccolo spazio pubblicità. Ecco l’anno luce dello scrittore Genna: come si articola e come si propone. A maggio 2014, per la collana Strade Blu di Mondadori, esce il nuovo romanzo, “La vita umana sul pianeta Terra”. Intorno alla stessa data viene pubblicata l’edizione Oscar Mondadori del “Dies Irae”, da tempo fuori catalogo. Intorno a settembre dovrebbe essere disponibile la versione tascabile minimum fax di “Italia de profundis”, titolo attualmente introvabile. E’ stato sottoscritto il contratto per la riedizione Oscar di “Non toccare la pelle del drago”, che verrà intitolato secondo quanto originariamente era: si chiamerà “Gotha” e verranno inseriti tre piccoli capitoli inediti (rimarrà come sottotitolo il titolo attuale, perché lettrici e lettori non riacquistino il libro, se già ce l’hanno). Sono stati firmati contratti per le edizioni Oscar di “Grande madre rossa” (attualmente introvabile) e “Le teste”. Sono stati depositati i contratti per l’edizione e-book Mondadori di “Catrame”, “Nel nome di Ishmael” e “Hitler”. Ringrazio tantissimo Mondadori e Luigi Sponzilli, che dirige gli Oscar, per questa opportunità: i libri passati ritornano disponibili, la backlist è viva – so bene che è un impegno non da poco per una casa editrice, in questi anni. Parimenti ringrazio molto, davvero molto, il mio agente Piergiorgio Nicolazzini di PNLA, per essere riuscito in un’impresa che giudicavo impossibile.

I libri di Giuseppe Genna

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Io penso che esistono tre libri che sono stati pubblicati dove minimamente mi avvicino a ciò che ritengo essere ciò che mi chiama dal testo, cioè un silenzio di certa specie. Hitler (che si intitolava e si intitolerà Io Hitler) è per me a tutt’oggi un oggetto inidentificabile e ininterpretabile, comprendo che lì tentavo di strappare me stesso in una zona in cui non c’è il mio io, c’è il silenzio opposto al silenzio di quella data specie.
Il Discorso fatto agli uomini dalla specie impermanente dei cammelli polari è che mi avvicino a una certa intensità che chiama me affinché non sia più me, dappertutto è accesso istantaneo al silenzio.
Fine Impero è il lavoro più prossimo a quanto è che chiama me attraverso il testo, ma è insufficiente in quanto avrebbe dovuto essere più secco ed esile, più carbonizzato.
Ritengo invece fallimentare Nel nome di Ishmael perché c’è la meccanica del genere a frapporsi tra me e ciò che chiamerebbe dal testo; idem a riguardo di Dies Irae, che vedo che chi legge ciò che scrivo più predilige, ed è proprio per questo che è fallimentare, in quanto mi accorgo che è un contenitore proiettivo, con la sua retorica delle storie, degli spostamenti, dell’immaginario in cui io e altri siamo venuti fuori in questo strano oggi; Grande Madre Rossa è fallimentare in quanto ancora è in dialettica con ciò che proprio non chiama dal testo, lo rifiuto e scrivo che lo rifiuto; e lo stesso vale per Le teste, da cui vanno estirpati i 5/6 dei testi di apparato dal “digesto”.
Non esistono proprio Catrame, Non toccare la pelle del drago, L’anno luce, Italia De Profundis e nemmeno le tre versioni di Assalto a un tempo devastato e vile e . Ciò non significa che non significhino o che siano brutti. Se fossero testi scritti da altri, li giudicherei più che buoni. La questione è altra qui.
Utilizzo questo mezzo per esplicitare a me stesso questo che pensavo oggi, mi serve scrivere per pensarlo. Non serve per dire “io”, non è la questione.
Cosa mi chiama dal testo è La Cosa, che si faccia o meno, la quale non è un libro.

Tommaso Pincio: del Miserabile

di Tommaso Pincio

da minimaetmoralia

[Durante la presentazione di Assalto a un tempo devatato e vile. versione 3.0 a Libri Come, domenica 28 marzo a Roma, Tommaso Pincio è intervenuto all’incontro leggendo questo “Omaggio a Giuseppe Genna”, in cui racconta il suo rapporto con il libro e con l’autore. Trattasi di un futuro autore minimum fax che parla di un autore minimum fax; pubblicarlo in questa sede potrebbe apparire una scelta alquanto egocentrica, ma il testo è bello a prescindere, e forse queste parole Pincio le ha scritte soprattutto per chi Giuseppe Genna non lo conosce e non l’ha mai letto, e dunque concentriamoci sugli scrittori. Buona lettura e buon inizio di settimana.]

È da diverso tempo ormai che Giuseppe Genna perturba le nostre lettere. In rete e sulla carta stampata. E dico perturba non perché sia per vocazione un agitatore. È il suo semplice esistere che scuote.
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E’ in libreria ASSALTO A UN TEMPO DEVASTATO E VILE (versione 3.0)

E’ in tutte le librerie, nuovamente disponibile dopo anni, il libro Assalto a un tempo devastato e vile, nella sua terza versione. L’editore, che immensamente ringrazio, è minimum fax. Il numero di pagine, quasi raddoppiato rispetto all’ultima edizione, ammonta a 323. Prezzo: 15 euro. La copertina è un’illustrazione di Riccardo Falcinelli. Sotto l’immagine, un estratto dalle prime pagine delle nuove sezioni.

Dalla sezione inedita: RADIAZIONI DALL’EPOCA DEL TRAUMA

Si sfarinarono i libri, la sabbia invase la gola, ottuse l’esofago, mi dissi «Racconta le storie!, agita i ritmi!, la tua lingua che batte sul tamburo e si insinua nelle orecchie degli umani che vuoi colpire, che odi e che ami, che tradisci e desideri spingere oltre se stessi non sapendo te stesso cosa sia, senza padre né madre fingendo uno sguardo complice di omicidio, intenzionale, sparando nella vista interiore i tuoi stili e le tue immagini, e congiungendoli tutti in una comunità che ti abbracci, la madre e il padre che hai supposto di non avere e invece avevi» e la rabbia si estinse, lasciando il posto vuoto del terrore che è vuoto, immensamente vuoto: un intervallo privo di appigli, vitrea pista dentro un etere di gelo, e dentro la sostanza penosamente cristallina vidi il mondo per quanto era: l’ultima barriera la percezione.
Accadde questo.
Da anni io lavoravo a questo: lavora a disciogliere i nodi che il Bambino Interrotto non ha potuto districare al momento – sempre fatale il momento.
Abbandono.
Pianto senza consolazione alcuna.
Inane paura di sconvolgimento, fine, morte, niente, mai.
Statua interiore di te stesso a cui mai tu corrisponderai.
Imprecazione infinitamente trattenuta.
Sete e fame e necessità di sonno sotto il nome cilestrino e violaceo: Amore Mancante.
Infinite piste curve nell’aria dove potere involare i sogni fecero di me l’uomo del pensiero e io lo scrissi: scrissi per questo. Le pagine precedenti, scrissi, con l’energia disperata di chi non ha niente da perdere poiché è all’inizio, che è la condizione umana più simile alla fine.
Ammassi stellari all’inizio tanto simili al risucchio a frammenti abnormi delle cosiddette supernove.
Poiché scrivere mi pareva fosse forse già lavorare su di me stesso, io ritenni indispensabile un alibi all’intelligenza: fu ogni maschera indossata, espressa, esposta nel repertorio e nel teatrino di marionette allestito per conto dei bambini adulti, degli io scioperati, degli orizzonti mobili come schiene di bufalo sulle cui piste immaginali correvo la mia corsa fallimentare, nello sdegno e nell’assenza di riposo, la mente in divaricazione del corpo e l’assalto come unica retorica, così io feci, assalendo organismi a zanne e ossa di frassino e papille esplose: gli armadilli umani…
Leggevo miscredendo: una forma più sottile e insidiosa del credere a qualcosa.
Ciò costituiva la mia finzione; e quella di chiunque…

Assegnato a ITALIA DE PROFUNDIS il Premio Corrado Alvaro

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxSono estremamente disinteressato ai riconoscimenti letterari, ma devo ammettere che l’assegnazione del premio Corrado Alvaro per la Narrativa mi onora per alcuni motivi. Anzitutto il premio viene conferito per Italia De Profundis, e quindi per un’operazione letteraria in cui ha creduto molto l’editore, minimum fax: è allo staff editoriale tutto di minimum fax che il premio è dedicato. Inoltre, si tratta dell’unico riconoscimento pubblico che sia mai stato assegnato a un libro da me scritto. Infine si tratta di un’iniziativa legata al nome di uno scrittore che mi è molto caro e a un luogo che reagisce con la cultura a una situazione sociale tragicamente nota.
Ringrazio la giuria e l’organizzazione del premio Corrado Alvaro, che andrò a ritirare di persona – come da statuto – il 14 novembre.

Letteratitudine su ITALIA DE PROFUNDIS

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum fax[Sul blog Letteratitudine, gestito da Massimo Maugeri, che ne ha fatto un indispensabile crocevia di discussione umanistica sul Web italiano (tanto che qui è sempre segnalato nei feed in basso a destra, nella terza colonna), è apparso uno speciale su Italia De Profundis, che mi ha lasciato allibito: e per la struttura e per la qualità delle cose scritte e del dibattito nei commenti – ma soprattutto per l’intercettazione a cui viene sottoposto IDP da parte di Subhaga Gaetano Failla. Io non so, francamente, se sia buona cosa che le intenzioni dell’autore, anche quelle che emergono chiare a lui soltanto quando il testo è già stato scritto, siano così totalmente viste. Per certo, so che questo non è un criterio di valutazione letteraria. E’ tuttavia altrettanto certo che a me importa poco del criterio di letterarietà. Non credo di essere mai stato visto così tanto attraverso un testo dallo sguardo di un altro, se non in pochissime eccezioni, spesso molto private e qualche volta anche pubbliche. Vorrei esprimere a Massimo Maugeri e Subhaga Gaetano Failla tutta la mia gratitudine per lo speciale e avanzo decisamente l’invito a inserire Letteratitudine nei vostri blog preferiti e a visitarlo spesso. gg]

Italia De Profundis di Giuseppe Genna
recensione di Subhaga Gaetano Failla

Italia De Profundis di Giuseppe Genna è un libro molto bello, un libro importante.”

Così più o meno ho detto a molti amici. Nient’altro. Perché è difficile parlare d’un libro che ha un’anima. Temevo –  e temo – di dire qualcosa sull’indicibile. Perché d’un’anima non si può parlare. Proverò dunque a dire qualcosa di marginale, che rimane ai margini,  al limite d’un territorio indicibile.

Dono. Compassione. Autocontrollo.

Shantih shantih shantih

Con queste parole “mutuate dal finale del saggio di Wu Ming 1”, presente nel libro del collettivo Wu Ming intitolato New Italian Epic, si conclude Italia De Profundis

Datta. Dayadhvam. Damyata                                                  Shantih  shantih  shantih

Con queste parole si conclude The Waste Land di Eliot, a imitazione della chiusura rituale delle Upanishad.

Shantih. Dal sanscrito: Assoluta pace interiore e serena imperturbabilità. Mi lascia dubbioso il significato dato a Damyata: Autocontrollo. Un paradosso: la mente che controlla la mente. I mistici parlano di osservazione senza giudizio. Essere un puro testimone.
Poi si scorrono le pagine, fino alle ultime, fino ai ringraziamenti e all’indice, e perfino ai Titoli di coda, e troviamo, prima dell’indirizzo elettronico della minimum fax, queste estreme parole:
Non la finisco più di non iniziare.
Vi è forse in questo libro l’intuizione profonda d’una finzione: quella della definitiva conclusione. La finzione della morte. La finzione dell’inizio.
E la quarta di copertina riporta una frase estratta dalla prima pagina:
“Un luogo che ho disimparato ad amare.”
Molti anni fa avevo frequentato un corso di psicologia umanistica, che nelle intenzioni doveva essere costituito da sette incontri, guidati da una donna meravigliosa, Letizia Comba, psicologa e traduttrice di Gurdjieff, dal titolo I sette inizi. Ogni passo è il primo passo? E dunque qual è il primo passo? C’è un primo passo?
Nell’antica pratica buddhista, come ricorda anche Genna,  il discepolo, nella sua strada iniziatica, aveva il compito di contemplare le diverse fasi del disfacimento d’un cadavere.
Genna osserva il disfacimento d’un organismo chiamato Italia. Un luogo che ha disimparato ad amare. Con compassione. Nell’anelito del raggiungimento di shantih. L’io narrante Giuseppe Genna, come si legge nella prima parte del libro,  rimane per molto tempo accanto al cadavere del padre morto per infarto. Chiunque abbia assistito alla morte d’un genitore sa che quella morte è anche la sua personale morte. E Giuseppe Genna intuisce la finzione d’una estrema conclusione, della morte, perché intuisce la finzione di io.
“Io: chi sono?” chiede nel libro l’io Giuseppe Genna. Una domanda del tutto assurda. Una vertigine. Chi chiede a chi? Di questa vertigine è impregnato questo libro coraggioso.
Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti, un libro di cui dire dunque: mi importa.
La Diceria di Bufalino, l’eterea presenza di Pereira, Il vicolo blu di Bonaviri, la voce e il passo di Rigoni Stern nel suo Altipiano.
“… proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire.”
Così dice Pasolini nel suo Petrolio, così Genna, che utilizza in epigrafe queste parole, si avventura coraggiosamente verso “la buia notte dell’anima” di cui parlano i mistici. Quando l’oscurità sembra essere senza scampo, profondissima e infinita, e tutte le speranze d’una nuova alba ci abbandonano, allora, solo allora, giungerà il primo  (il primo?)  raggio ad illuminarci. La libertà più grande, la libertà da sé stessi.
Genna parla di io non disgiunto dall’io dell’Italia. Sa di essere sangue e carne dello stesso disfacimento. E non vi è disprezzo, ma compassione. C’è la contemplazione dell’organismo Italia in decomposizione.
“Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?” gli chiede Luca Vaglio in una recente intervista.
“Davvero restituisco questa impressione?” risponde Genna. “Non è una cosa in cui mi riconosco, certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo.”
Italia De Profundis è percorso da due ombre dense, due ombre letterarie che accompagnano il lettore nella discesa e nell’ascesa, mentre ciò che non è né io né Genna cerca né discesa né ascesa. Queste due ombre si chiamano Burroughs e il Fantozzi di Paolo Villaggio. L’incubo dei mondi e dei corpi che diventano vortici di terra e di carne in mutazione oscura, e il grottesco di minuscoli uomini di Gogol, così penosi, così orribili nell’odierna trasformazione in insetti kafkiani. Comprendo l’irruzione di personaggi fantozziani nelle pagine di Genna – Fantozzi, la  maschera che maggiormente rappresenta questi nostri anni italiani, una maschera ancora non del tutto riconosciuta nella sua grandiosa esemplarità. Ma Burroughs? Perché è tornato Burroughs nella nostra letteratura, e anche nelle pagine di Genna?
Burroughs ha saputo contemplare il suo stesso cadavere, e da esso ha riconosciuto la finzione della morte; dalla carne disfatta  – del suo corpo, del corpo dell’America – ha intravisto un bagliore.
“Hai mai letto Il paese dei ciechi di H.G.Wells?” chiede Burroughs in una lettera (raccolta nel libro Le lettere dello Yage) indirizzata al suo carissimo amico Allen Ginsberg. “È la storia di un uomo che rimane bloccato in un paese dove tutti gli abitanti sono ciechi da tante di quelle generazioni che hanno perduto il significato del concetto della vista. Perde le staffe. ‘Ma non capite che io posso vedere?’ ”.
Così Giuseppe Genna. Giuseppe Genna?

Precisazioni su ITALIA DE PROFUNDIS

C’è un punto in Italia De Profundis, un punto che sta nell’incipit, in cui accade una consecuzione di tre frasi, che pongono termine al primo paragrafo del libro:

“Vedo l’Italia. Vedo me. Non sono io.”

coveridpprecDal punto di vista metrico si tratta di un alessandrino – cioè un’unità. Da un punto di vista sintattico si tratta di un tipico movimento triadico – cioè un’unità. Da un punto di vista logico si tratta di un entimema, sia che lo si voglia considerare all’interno del sistema aristotelico sia in quello di Port Royal – cioè un’unità. In ogni caso si tratta di un’unità non moncabile, ma divisibile in astrazione mantenendo sempre il continuum.
A volte al testo viene fatta violenza. Una giornalista, recentemente, per parlare della supposta autofiction in Italia De Profundis, ha affermato che nel testo si legge:

“vedo l’Italia, vedo me”

Questa è un esempio di violenza al testo. Ciò che, immediatamente, per quanto mi concerne, squalifica in maniera definitiva le ambizioni critiche di chi compie un’operazione simile. E non perché in questo caso si tratti di qualcosa che ho scritto io. E’ che proprio percepisco, e poi vedo espressa nel corso del tempo, un’attitudine antimorale in questo cancellare perché non si capisce. Poiché, in casi come quello che sto prendendo qui in senso emblematico, non è in gioco l’esito letterario di un testo, bensì la capacità basale di sentire e comprendere di un lettore che non è tale, in quanto ha una sede pubblica in cui spettacolarizzare la sua lettura. Non è in gioco nemmeno l’ignoranza di tale lettore spettacolarizzato (che, assicuro, comunque non coglie l’inversione da Leopardi, ma nemmeno la citazione da Plotino): poiché non è che il testo si faccia per nozioni e per algebre, attività che il lettore spettacolarizzato invece propugna nel mentre la contesta. No: qui è in gioco la risonanza di un’indole linguistica che non riguarda lo scrittore, ma la comprensione elementare del lettore spettacolarizzato stesso. Viene applicata una sintomatica censura del testo, per ragioni ideologiche, ragionando e agendo immediatamente nel modo che segue: non comprendo (il che non significa: “non apprezzo”, poiché il gusto è gusto – qui siamo proprio alla basilarità letterale e cognitiva), cioè capisco parzialmente quello che già sono disposto a capire, dopodiché divulgo quello che ho capito come se fosse una prospettiva integrale. E così si perpetra il ghigliottinamento del testo. L’attacco al testo in forma di censura è indice di una violenza che risiede in ciò: un’incapacità, una falla, un disordine, un disguido, una neurosi nel flusso empatico. Dal cognitivo all’emotivo il passo è addirittura invisibile. Tale è la malattia occidentale, patologia che evidenzia un ammanco di autoconsapevolezza integrale e dunque di consapevolezza integrale.
Spezzare un’unità testuale comporta conseguenze, se si è lettori spettacolarizzati. Per esempio, in questo caso, abradere la sintassi e ignorare il corsivo sul complemento oggetto pronominale significa già derapare nella comprensione di tutto ciò che segue. Addirittura sopprimere l’opposizione interna tra “me” e “io” fa deragliare in partenza la normale attività della lettura. Leggere male significa pensare male. Poi uno è liberissimo di pensare quel che vuole – a meno che non si tratti di un lettore spettacolarizzato, quale sono io in questo istante per esempio. C’è una certa responsabilità che coinvolge il lettore spettacolarizzato, così come lo scrittore, con le conseguenze che un testo ha nei confronti e di chi lo ha scritto (nella scrittura si dà infatti un profondo rapporto con se stessi, a patto che si sia conquistato l’io) e di chi lo legge. Il che, naturalmente, non evita la possibilità di fare la critica alla critica, se la critica è avvertita come un gioco inutilmente misconoscitivo del testo e dell’autore che viene erroneamente identificato col testo. Questa identificazione è una malattia critica che corrisponde a una stupidità metastorica, talmente frequente da essere divenuta banalità di base, pur ammettendo che di base non si può correttamente parlare in questo caso, poiché la base manca del tutto.

Vengo alla spiegazione dell’abc cognitivo di quel movimento triadico, ma metricamente sintatticamente logicamente e filosoficamente unitario. Se io vedo me stesso, introduco una dissociazione: io vede me, cioè io non è me. Me non sono io: agisce un me che non sono io. Agisce, cioè, un ologramma. Io non è un personaggio. Personaggio è il me. Quale personaggio è il me? E’ il personaggio io, solo che non è io. E’ la mimesi più piena che si possa rappresentare, perché conduce alla domanda essenziale: “Che cosa è io?”.
Ora, qui c’è da intendersi: in questo caso, “io” non va interpretato come un io psicologico, per cui io sono un maschio trentanovenne di nome Giuseppe Genna che ha determinate caratteristiche fisiche, emotive, psichiche. Il motivo della citazione da Plotino risiede proprio in ciò: si mira all’attività nuda dell’io, cioè al sentimento della coscienza, che nulla ha di psicologico e tantomeno di biografico. L’io inteso riduttivamente (non concedo nemmeno la patente di riduzionismo a tale acerbissima posizione) come qualificato da rapporto con il somatico, fibrillato dalla scossa emotiva, colmo di qualificazioni psicologiche è in realtà il me: quell’io qualificato in quel modo non è l’io, che è vita continua, poiché è continuamente cadavere, in quanto risulta oggettificabile e oggettificato di fatto. E’ una valva fossile.
Non esiste un momento in cui chiunque legga queste righe non abbia sentito nella propria vita il suo io privo di psiche (la semplice attività di presenza c’è sempre); esistono molti momenti, invece, in cui chiunque ha sentito il proprio io privo di psiche (per esempio: svenendo, dormendo senza sognare…).
Quale autofiction è, dunque, quella in cui il me è distaccato dall’io? Quella in cui l’io dice solamente “Non sono io”? Non è una autofiction. E’ fiction e basta. Non capire questa elementarietà non è attribuibile all’opera dello scrittore, poiché non si tratta di un fatto letterario – è piuttosto imputabile a uno scotoma che definisce lo status (quello sì e psichico ed emotivo e finanche somatico) del lettore in questione.

Una scrittrice che stimo, a proposito di quanto accade all’io in Italia De Profundis, ha affermato, in un momento in cui si è trovata a essere una lettrice spettacolarizzata:

“Poi esistono casi come – per me – quello di Genna, dove la stessa modalità [di utilizzo dell’io nel testo, ndr] è convincente in alcuni libri come Assalto a un tempo devastato e vile (scritto negli anni novanta) o nelle potentissime parti autobiografiche di Dies Irae, mentre ho trovato l’io di Italia de profundis troppo caricato di significati che non riesce a reggere e soprattutto piuttosto di maniera, alla maniera degli scrittori che a un certo punto fanno il verso a se stessi, il che è una cosa assai comune.

Un’analisi perfetta, in quanto l’io in questione non è l’io: è il me, che è per l’appunto di maniera e fa il verso a se stesso (quando il me è solo, è puro verso di se stesso: significa che un distacco è avvenuto). Italia De Profundis non c’entra nulla, ma davvero nulla con Dies Irae: laddove l’io coincideva con il me, e perfino con l’egli nei momenti in terza persona (in Dies Irae, le componenti autenticamente autobiografiche ristanno nel personaggio “Paola C.” e non in quello “Giuseppe G.”). Peraltro, ma è questione di critica di gusto, le potentissime parti autobiografiche di Dies Irae non sono a mio parere per niente potenti: anzitutto perché non sono autobiografiche e in secondo luogo perché fanno scattare nel lettore identificazione per mimesi, che è il contrario di ciò che l’autore sperava di fare e non è riuscito a fare. Per questo motivo, stando a quanto concerne me, il Dies Irae è un libro fallimentare e fallito, mentre Italia De Profundis (che vuole creare identificazione del lettore nel me in cui l’io non si identifica affatto) è un testo riuscito (il me provoca disgusto).
Poi i gusti sono gusti – ma questa è un’altra storia. Anzi: non è nessuna storia, nonostante disperatamente il lettore spettacolarizzato (non è il caso della scrittrice citata, ovviamente) desideri disperatamente creare una storia e non ci riesca, non ci riuscirà mai.

La domanda finale di GRANDE MADRE ROSSA

gmr_segretissimo_miniOnoratissimo dell’uscita di Grande Madre Rossa in nuova edizione, in edicola a 3.90 euro, nella collana Segretissimo di Mondadori guidata dall’impagabile Sergio Altieri, riproduco qui il capitolo semifinale del libro, che non fa spoiler né rovina la suspence, la quale suspence è peraltro uno degli obbiettivi polemici dello pseudothriller. Mi importa la domanda finale: nel capitolo semifinale è posta proprio la domanda finale, che avrebbe sortito sviluppi in seguito, ne L’anno luce, in Dies Irae, in Italia De Profundis.
Questa domanda finale, che sembra avere mosso un racconto apparentemente autoreferenziale, è tutto fuorché autoreferenziale.
Buona lettura agli interessati Miserabili aficionados, con inchino di gratitudine da parte del Miserabile sottoscritto.


da GRANDE MADRE ROSSA

E’ sempre Milano, tuttavia è differente.
E’ l’Italia, non è l’Italia precedente.
Tutto tornerà come prima. Calma. Tutto sarà come prima. Le stesse azioni, gli stessi personaggi. Quello a cui eravamo abituati. Bisogna coltivare le abitudini. Bisogna nutrirsene. L’abitudine, questo mercato segreto, è l’alimento, è il motore energetico. L’abitudine, la chiave del segreto in mano agli stolidi che l’hanno scoperta, che sentono di detenere il segreto.
Questo mondo che reinizia di continuo. Guardalo. Nutritene. Continua a leggere “La domanda finale di GRANDE MADRE ROSSA”

Con la cacca al culo che ti segue

caccaIeri, mentre si discorreva di finta critica e fumosa polemica pseudoculturale sui quotidiani, la mia amica D. ha forgiato l’immortale e bilanciatissimo decasillabo del titolo (còl | la | càc | cal | cù | lo | ché | ti | sè | gue). Un finto novenario stercorario: poiché la materia della discussione era dopotutto stercoraria. Si discuteva in particolare di una domanda a un certo scrittore – domandessa effettuata da un critico di questi tempi (nel senso che appartiene a questi tempi, non che critica questi tempi): un tappeto di domanda, un lunghissimo entimema fintamente teorico, lo scrittore parla del comico e questo gli fa una domanda straordinariamente noiosa e narcisa, dove cita un filosofo a proposito di un saggio a cui familiarmente tronca il titolo, ma che anche col titolo completo non avrebbe richiesto quell’oscena interpretazione formularia datane dal supposto critico.
La critica è finita. La teoria della letteratura invece non è mai morta. Anche alla teoria della letteratura i pallidissimi critici de noantri tentano da anni l’assedio, tentano di piantare la bandierina: non ci riescono, lì si parrà loro ignobilitate. La critica è un genere giovane, quintessenzialmente fragile. Può conferire un certo successo in questo presente, uno sberluccichìo: poi però non sarà più quello sberluccichio, sarà lo sberlone dell’oblio. Curatele suppostamente prestigiose ottenute allargando le papille sopralinguali per editori che rasentano l’orlo della fine dell’editoria e già mettono il piedino nel vuoto abisso in cui staranno per almeno quindici anni, immani e disumani desideri di vincere i premi a colpi di feste con veline e veleni affinché potere esistere legittimati nel presente e spaccare le gonadi e le ovaie a tutti e tutte, recensioni di cui fotte a 32 persone che recensiscono a loro volta per 32 persone e in cui si consumano cattiverie, anticipazioni stupendissime di mattoni abnormi che manifestano l’ansia non della reclamata libertà e invece del desiderio di passare all’immortalità – è uno scenario da helter skelter culturale a cui non bisogna credere eppure non per questo non bisogna disimpegnarsi e opporsi. Va presa come la prendeva Leopardi nello Zibaldone:

Due gran dubbi mi stanno in mente circa le belle arti. Uno se il popolo sia giudice ai tempi nostri dei lavori di belle arti. L’altro se il prototipo del bello sia veramente in natura, e non dipenda dalle opinioni e dall’abito che è una seconda natura. Della prima quistione se mi verrà in mente qualche pensiero lo scriverò poi.

Quanto ai pochi Miserabili che continuano a cercare empatia, intensità, profondità in un testo altrui – non si sta male in monastero neomedievale, vero? Si ricerca, si trasforma ciò che si tramanda, non si trama. Si getta via la trama, ma non la tramatura.
E rispetto al casino confusionario che si può osservare silenziosamente, privi di astio ma anche no, poiché mi pare giusto sfogare l’astio per chi rovina qualcosa di bello e attacca l’umano per sterminarlo senza neanche accorgersene, c’è un passo di Italia De Profundis che mi ha detossificato: e quindi lo propongo sperando nel medesimo effetto per altri:

La situazione peculiare italiana è percepita, dallo striminzito e giustamente inascoltato comparto degli intellettuali, come decadenza. L’analisi degli intellettuali, che nella maggioranza non dispongono di strumenti di analisi all’altezza della complessità della situazione, poiché non sanno nulla di neuroscienze e nuova psicologia e macro e microfisica e quantistica e teoria delle supercorde e paradigma universale olografico e astronomia e chimica e geopolitica e strategia di intelligence e tecnologia militare e climatologia e storia universale del pianeta e matematica e logica computazionale e intelligenza artificiale e teoria dei consumi e neosociologia e controstoria della modernità e della contemporaneità e farmacologia e fisiatria e scienza del sistema immunitario e scienza aeronautica e aerospaziale – questi intellettuali che non sono all’altezza né della contemporaneità né dei loro predecessori immaginano, con pessimismo apocalittico, che il Paese sia arretrato. Enunciano inaccettabili apodissi. Sono ignoranti a un grado tale da provocare il disgusto in chiunque conosca anche un brandello della realtà che è coperta dalla finzione. Le loro analisi coincidono con misinterpretazioni delle profezie filosofiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Del resto, costituiscono una comunità che grida nel deserto, legittimamente inascoltato quel grido da parte della società che essi, con sogno inconsciamente platonico, vorrebbero rimettere su chissà quali giusti binari valoriali. Intendo che, insieme alla Chiesa, la finta élite intellettuale italiana è la componente più reazionaria che sta operando nel Paese.

Italia De Profundis libro dell’anno 2008 su Rodeo

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxIl sito ufficiale
ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
Rassegna stampa e materiali
Anticipazione sul blog Il Miserabile
Ipertesto della Scena italiana come inferno
I booktrailer: 1234
Videomeditazioni: La storia non siamo noiStoria di fantasmi
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Giuseppe Genna – Come si disimpara ad amare l’Italia
di ENZO MANSUETO
[da Rodeo – versione cartacea, 2.09]

frecciabr.gif L’intervista completa in pdf

La definizione di autofiction restituisce solo pallidamente ciò che Italia De Profundis, l’ultimo oggetto narrativo firmato Giuseppe Genna (minimum fax, pp. 352, euro 15), è. Un’instabile scrittura di sé, che sutura storie e memorie personali indicibili, dal ritrovamento del cadavere del padre nella solitudine domestica del Capodanno a degradanti esperienze sessuali a esperimenti con l’eroina, l’eutanasia, sino ad un infernale e grottesco viaggio fi nale in un villaggio turistico siciliano. Il tutto composto con frammenti eterogenei di cronaca, echi massmediali, protesi web che ci sbattono nell’inferno contemporaneo. Una scrittura che si fa carico delle mutazioni profonde in atto nella società e che supera d’un balzo ogni cerebralità neoavanguardistica e ogni residuo ideologismo. Anche per questo il libro sta avendo ampia
risonanza. Italia De Profundis è il testo narrativo italiano più importante dell’annata appena trascorsa. (…) [CONTINUA]

il Mucchio Selvaggio su Italia De Profundis

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxIl sito ufficiale
ITALIA DE PROFUNDIS su minimum fax
Rassegna stampa e materiali
Anticipazione sul blog Il Miserabile
Ipertesto della Scena italiana come inferno
I booktrailer: 1234
Videomeditazioni: La storia non siamo noiStoria di fantasmi
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Italia De Profundis di Giuseppe Genna
Una autobiografia fittizia ed esplosa in più direzioni che cerca di fare – e di farci fare – i conti con l’inabissamento del Paese in cui viviamo
di ALESSANDRO BESSELVA AVERAME
[da il Mucchio Selvaggio – versione cartacea, 1.09]
frecciabr.gif La versione jpg della recensione e dell’intervista su IDP [286k]
Dopo il romanzo biografico, Hitler (attenzione, non biografia di personaggio storico, ma elaborazione letteraria e mitopoietica), la dichiaratamente finta autobiografia, Italia De Profundis. Per molti versi è la conferma dello sguardo ampio e metabolizzante dell’autore, ma c’è una ulteriore continuità: anche questo, come il libro precedente, è un esorcismo, un tentativo di neutralizzare attraverso la scrittura una malattia. La malattia è nello specifico l’immobilità congelata e la morte emotiva di un intero paese, quello in cui viviamo, incapace di accettare la fine delle esperienze e degli eventi, marcendo in un pantano da cui non si riesce ad uscire. Lo scrittore, come ci dice l’autore stesso in sede di intervista, qui più che altrove personaggio, è il corpo narrativo attraverso il quale mostrare gli effetti della patologia.
La scrittura ha momenti ostici, con costruzioni associative che fanno venire in mente, tra gli altri, Burroughs, altrove ci si stordisce per accumulo e valanga emotiva, ma l’immersione di chi legge nel flusso della storia non ne risente affatto. La forma del romanzo – non è una novità per l’autore – deborda e si va a prendere tutto lo spazio che gli occorre. Cambia strada, si frammenta in alcuni episodi (im)morali vissuti dal personaggio Giuseppe Genna, finisce in un villaggio turistico, ecosistema che riproduce in scala ridotta la malattia del Paese. È proprio in questa parte finale che c’è il rischio di suonare didascalici o moralisti, o quantomeno scontati, ma è esattamente in questo spezzone finale che la scrittura si fa più brillante, in alcuni momenti addirittura divertente, forse più strettamente letteraria ma sempre fortemente empatica. Ovviamente non c’è proprio niente di cui ridere, stiamo assistendo alla tragedia di una patologia di cui si stenta a trovare la cura. E tuttavia l’alleggerimento necessario per farci metabolizzare quanto letto nelle pagine precedenti. Difficile dire se questo ci aiuti a guarire: quel che è certo è che provoca una reazione. (…) [CONTINUA]