Le drammatiche vicende che da un anno e passa accompagnano Roberto Saviano sono dunque giunte al loro acme. E’ dai tempi della strage tra mafiosi calabresi in Germania, a Duisburg, il ferragosto 2007, che veniva fornita all’opinione pubblica la notizia dell’esistenza di un piano per uccidere l’autore di Gomorra. Ma era ferragosto, appunto, e quindi a chi cavolo gliene fregava, di tutto e di tutti, nel momento in cui si deve stare belli tranquilli e rilassati? Tanto più sconcertante diventa dunque, per me, la sollevazione spettacolare alle parole normali di Roberto Saviano, il quale annuncia di volersene andare dall’Italia, perché desidera vivere un’esistenza che sia degna di questo nome. Ha 28 anni, Saviano. Si è fatto un culo tanto, ha subìto – e lo dice a chiare lettere nell’intervista concessa a Giuseppe D’Avanzo di Repubblica – l’onda anomala che comportano il successo e il repentino carcere mobile impostogli per motivi di sicurezza. Si è guardato dentro, ha scavato in sé. Quest’opera conferma che ci troviamo davanti a un umano-umano e, probabilmente, è il magistero più alto che Saviano commina a una nazione che, dell’umano, si è strafottuta le gonadi, non gliene frega più un beato nulla, tutta presa a tutelare i suoi interessi coi Bot già denigrati in fase maniacale quando ci fu quella svendita che chiamarono “privatizzazioni”. Oggi, sul Corriere, iniziano a trapelare i dati delle violenze domestiche, soprattutto sulle donne: molto italiane, per nulla rumene, specchio di una Paese letamizzato nel senso più generale del termine. Poche pagine più avanti, Dacia Maraini e Diego De Silva e Massimo Carlotto si fanno portavoci della solidarietà a Saviano da parte di tutti gli scrittori. Gli scrittori italiani, credo senza eccezione alcuna, si sentono fraterni e grati rispetto a quanto ha fatto questo ragazzo ostinato, talentuoso, capace di attirare l’attenzione del mondo su una cosca di cui agli italiani non è mai fottuto nulla perché ai media e allo spettacolo generalizzato non fotteva nulla.
Ora Roberto Saviano dice che si sente solo e che se ne vuole andare. Per me (e sottolineo le due parole) il problema diventa: come è possibile non fare sentire solo Saviano? Cosa chiede Saviano per non essere solo? Chiede di cazzeggiare, di tornare a immergersi nel flusso discontinuo e incoerente dell’esistenza, di essere spostato dalle cose e dalle persone – spostato, non ucciso o minacciato. Entrare in una libreria, bersi una birra. Posso inviare mail a Saviano, posso telefonargli, posso esprimere la mia solidarietà in ogni modo – ma il fatto è che Saviano, quando denuncia questa solitudine, sta esprimendo qualcosa che in pochi comprendono, a partire dall’ex ministra Melandri, che vuole lanciare la campagna “Nessuno tocchi Saviano”: gran conoscenza della retorica, nel loft PD, visto che lo slogan richiama Caino e immediatamente viene in mente che Saviano è Caino, cioè uno che ha ucciso un fratello. Ecco, qui sta la solitudine di Saviano – emblematicamente sta qui, in questa miscomprensione di ciò che sente e che, se esprime pubblicamente ciò che sente (il che è una delle condanne implicite comminategli: se parla, parla sempre pubblicamente, corrono a sentire cosa ha da dire), scatena una reazione che è quella dello spettacolo della solidarietà. Sai quanto gliene frega a un camorrista delle magliette con su scritto “Nessuno tocchi Saviano”? Questa ignoranza, questa adesione incommensurabilmente idiota allo spettacolo, questa quintessenza del Paese unificato da un’omertà consapevole (quella di chi continua a tutelare sul territorio i Casalesi, senza rendergli la vita impossibile lì, a casa loro) e un’omertà frizzantemente buona e spettacolarmente inutile, perfino lugubre in quanto già coi caratteri di ciò che è è postumo…
Di fronte a ciò: come fare sentire a Roberto Saviano che non è solo?