Garzanti compie un’opera necessaria quanto potente: la pubblicazione delle poesie di Mario Benedetti in unico volume. È fondamentale il corpus di questo poeta italiano, di origine friulana, la cui capacità di unire ricerca esistenziale e slancio metafisico trova un corrispettivo nell’abilità di tradurre un intero canone poetico in un codice sorprendente, che installa questi versi nel cuore della tradizione contemporanea. Per me, insieme a Milo De Angelis e ad Antonio Riccardi (quest’ultimo è autore di una densa quanto folgorante intuizione), Mario Benedetti è l’interprete principale della letteratura italiana degli ultimi trent’anni. La sua lallazione si distende quasi a cercare il prosastico, facendo proliferare un universalismo integralista nelle cose stesse e tra sillaba e sillaba. Si tratta di una scrittura imprescindibile e continuamente rivelativa, una tappa non eludibile della poesia di questi anni, della poesia italiana sempre. Il libro, che colma una mancanza clamorosa dell’editoria nostrana, sarà disponibile dal 12 settembre. Immensa gratitudine a Garzanti!
Una poesia di Mario Benedetti da “Tersa morte”
Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità
commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani
vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.
Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.
Le parole hanno fatto il loro corso.
Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.
(da “Tersa morte”, Mondadori, 2013)
Una poesia di Mario Benedetti da “Umana gloria”
Mario Benedetti, da “Umana gloria”, Mondadori, 2004
Una poesia di Mario Benedetti: “Il parco del Triglav”
Da “Umana gloria” (Mondadori, 2004), un testo del poeta italiano Mario Benedetti (1955).
Mario Benedetti legge dal vivo “Che cos’è la solitudine”
Da Umana gloria (Mondadori, 2004) il poeta italiano Mario Benedetti legge una poesia, trasmessa da ‘Fahrenheit’, su RadioTre, il 2 novembre 2004.
Qui un autocommento dello stesso Mario Benedetti su questi versi.
Di seguito, il testo della poesia:
Che cos’è la solitudine.
Ho portato con me delle vecchie cose per guardare gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo ma come se non fossi io.
Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.
Che cos’è la solitudine.
La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità grande.
L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.
In morte di Yves Bonnefoy
Il 30 giugno: una giornata di assoluto dolore.
(C’erano, è certo, le condizioni private per cui lo fosse.)
Sperso, ho letto a notte fonda delle morti, avvenute in contemporanea, di due tra i massimi poeti al mondo, Yves Bonnefoy e Geoffrey Hill (proprio l’altro dì ne pubblicavo alcuni versi: qui), che ho assunto come sigillo ed emblema di un dolore più vasto.
In particolare la scomparsa del grande francese mi ha colpito. Lo ricordo in una traduzione che ne ha fatto Mario Benedetti, uno dei più importanti poeti italiani contemporanei, poiché a questa traduzione assistetti in tempo reale, apprendendo molto, tantissimo, divenendo uno dei ricordi a me più cari della mia formazione umana e testuale.
L’ARATRO
Le cinque. La neve ancora. Voci
di prima del mondo.
Un aratro
come una luna ai tre quarti
brilla, ma lo ricopre la notte
di una piega di neve.
E il bambino
ha ormai tutta la casa per sé.
Va da una finestra all’altra.
Preme le dita sul vetro. Vede
formarsi le gocce dove non spinge più
il vapore contro il cielo che cade.
LA CHARRUE
Cinq heures. La neige encore. J’entends des voix
À l’avant du monde.
Une charrue
Comme une lune au troisième quartier
Brille, mais la recouvre
La nuit d’un pli de la neige.
Et cet enfant
A toute la maison pour lui, désormais. Il va
D’une fenêtre à l’autre. Il presse
Ses doigts contre la vitre. Il voit
Des gouttes se former là où il cesse
D’en pousser la buée vers le ciel qui tombe.
Tre poesie del poeta italiano Mario Benedetti
Non sento niente. Verrà il fegato con i suoi spilli,
o un polmone rauco, labbra addossate alla mandibola.
Ti ho baciata piano, dopo le donne.
Ti ho baciata piano, prima delle donne.
Sono stati porpora gli anni, e a nodi sullo sterno.
Si staccavano figure dal cervello, e un altro orrore.
E’ passata la vecchia di Trasaghis con le zolle bianche.
Non ho nulla, soltanto quello.
* * *
Era la madre e sua madre, nel ricordo.
Risentiva parole, nelle proprie parole.
Io, soffio addensato a un’ombra di cera,
a un’ombra di sagoma…
Velame di posti. Viti, uova, radicchio,
aringhe, polenta. Maria, la nonna.
Viti di viti, uova di uova…
Carezzevole buio, sì, sono io.
* * *
physical dimensions
Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.
L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.
Qui.
Oh.
da “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008)
Mario Benedetti: una poesia da “Tersa morte”
Una poesia di Mario Benedetti da “Tersa morte” (Mondadori, 2013)
Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.
Mario Benedetti: una poesia da “Umana gloria”
Mario Benedetti: SLAVIA ITALIANA
SLAVIA ITALIANA
Madri così presenti dopo essere tante volte morte:
grida sulla porta, zoccoli da soli, anni.
Nonni che lavorano terra di altri e parlano dialetto sloveno
– campi della loro vita, erba e filari della loro vita -.
Si era soltanto piccoli e c’erano le felci da raccogliere
per il maestro Dialmo una mattina di agosto.
Le felci come un viso che si impara dietro il muro del paese
una mattina tutti insieme con il maestro Dialmo.
Sono venuti giù i sassi,
il letto ha detto la zia aveva una pietra grossa nel mezzo.
Siamo scappati dagli occhi, il vento nella testa.
Ho pensato ogni giorno a questo solo stare senza sguardo
– cose dette dalle giacche, dalle scarpe, dai calzoni –
contro la terra e i sassi, senza poter finire.
(Mario Benedetti, ne “Il parco del Triglav”, 1999)
Mario Benedetti: una poesia del 1988 da “Scarto minimo”
Nel 1988 il poeta italiano Mario Benedetti pubblicava sulla rivista “Scarto minimo” (codiretta insieme con Stefano Dal Bianco, Fernando Marchiori e Giulio Mozzi) questo testo, che non ha incluso in alcuno dei libri di poesia successivi:
Non gli uomini o non questi, non questo
dell’uomo.
O come fosse la vita eternamente.
Ma è la vita
oscura.
Il viso,
quando mi guardi e sai
che non saremo più,
piccolo e castano nella sua paura.
Su una poesia di Mario Benedetti / 1
Rilessioni brevi su una poesia da “Tersa morte” di Mario Benedetti.
Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.
«L’ambiguità sintattica, il tremolio semantico, l’equivocità spesa sul piano lessicale, non soltanto della significazione, la fibrillazione ritmica, lo stato di sospensione tra mondo interno e supposto mondo esterno oltreché tra lingua d’uso (in uso quando?) e lingua letteraria (quale letteratura?, quale poesia?, e dunque: quale canone?): il potente apparato immaginale e fonicosimbolico allestito da Mario Benedetti, in questo testo tratto dal suo ultimo libro, “Tersa morte”, costituisce uno degli assalti più radicali che la nostra contemporaneità italiana ha condotto, in ambito testuale, all’idea stessa di umano, e cioè di storico, e al contempo di metafisico, cioè di reazione alla realtà come fuoriuscita dallo storico. Non sarà inutile ragionare sul titolo del volume, per considerare che il primo evento linguistico che il poeta intende fare incontrare al lettore è una “tersità”, però in stato di aggettivazione. Questa scelta di posporre il sostantivo reggente è fondamentamentale nella visione della lingua e del mondo in Benedetti: si tratta di un’anticipazione aggettivale che, in una scuola di ricursione storico-stilistica frequentata in giovane età e che ha contribuito alla formazione dell’autore stesso, viene eletta a rappresentante di una linea che, con ovvie discontinuità e per rude seplificazione, corre lungo la tradizione italiana dal petrarchismo a Leopardi, poeta centrale in questa terza raccolta, che chiude un percorso in tre stazioni, con l’apicalità, tutta ancora da affrontare criticamente, della seconda raccolta, “Pitture nere su carta” (Mondadori, 2008). La tersità come connotazione della morte, non come quintessenza della morte stessa. Se così fosse, il paratesto indicherebbe un posizionamento rigido e rigoroso, complice il canone, della parola e del fenomeno esistenziale, in un gioco di rimando che Mario Benedetti ha sempre coltivato come poetica personale, ovverosia soggettiva, la cui oggettività è ancora tutta da confermare. E invece la potenza della separatezza, cioè quella dislocazione extratestuale che è il titolo, serve a Benedetti a slogare ulteriormente, e cioè indefinitamente, ogni ossificazione e ogni certezza posturale che il testo tenderebbe, per stolidità della lettera, a consolidare quale appoggio, quale definitiva definizione e cioè quale morte che anticipa la morte in essere. Sarà infatti da intendere l’esotismo dell’anticipazione operata sull’aggettivo come autentico iperbato, per coerenza con il sentimento retorico di un poeta che, nelle raccolte che precedono “Tersa morte”, ha inteso proprio fare perno su questo stilema della dislocazione nel continuo, l’iperbato appunto: si pensi alla struttura complessa del verso in “Umana gloria”: ‘Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.’; o al sistema di slogature e connettivo costituito da ‘solo hanno le musiche e sanno sognare con forza i giorni | nell’Europa dell’est, credo di averti detto.’; o ancora, nelle “Pitture nere”, alla tensione all’asindeto che coglie retrospettivamente l’occhio che segue il movimento di anticipazione in: ‘Le travi, nel sasso è muta una faccia.’. La retorica è un contenitore psichico, che disnoda la psiche e la frena e la riduce alla sregolatezza del protocollo, per controllarla e permettere di fare esperienza suppostamente piena della psiche stessa: questo recita l’ideologia del controllo a cui le istituzioni retoriche fanno da rappresentante linguistico e, prima ancora, pensativo. L’utilizzo della retorica per annullare la retorica, ovverosia per “stare” nella pura esperienza di mondo psichico, cioè e di mondo e di psiche nello stesso istante, è uno degli esiti che Mario Benedetti ricerca senza requie nel farsi della propria poesia e della poesia che avverte vicina o “interessante”. L’iperbato serve a slogare ovunque (il movimento annulla gli elementi mossi, a un grado tale, che annulla il movimento), fino all’annullamento che non è annullamento, intendendo qui la possibilità di compiere l’esperienza linguistica nell’istante stesso in cui la lingua non è più in assoluto: non è ancora lingua e già non lo è più, nel miracolo dell’inesistenza che è l’esistere umano o generalmente fenomenico o, se si vuole intrudersi in una vena carsica di questa formidabile esperienza poetica, della dualità colta nel più radicale dei sensi: la forma appare ma non è. In questo senso si dà la semantica del campo creato dal titolo “Tersa morte”: l’aspetto cromatico (la tersità) non è un croma, così come la “morte” non è morte, in quanto è nitida, vista e forse visiva o addirittura vedente, in una irradiazione di ambiguità totale a partire dal verbo fondamentale su cui si incentra l’attività testuale del poeta friulano, ovvero l’atto e il movimento del “vedere”, che svolge la triade fondamentale di qualunque riflessione e pratica intorno alla possibilità di trascendimento del duale: vedente-vedere-visto. Questa metafisica della poesia di Mario Benedetti è con tutta probabilità l’acquisizione finale che i suoi testi domandano a un atto critico – atto che si esige soltanto all’interno di quel protocollo del controllo da cui si cerca esistenzialmente di evadere, essendo già evasi nella versificazione, letterale e strutturale, della poesia che va scrivendosi, che si è scritta» – continua
