Cura coscienziale, testualità, senso di sé

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Tra concetti fluidi e analogie creative, tra esperienze di canoni disciplinari e determinismi, tra idealizzazioni dell’esame universitario o di maturità ed emergentismi, tra analisi e sintesi, io non ho altra possibilità che il fare. Il mio fare è, in qualche modo, il fare un testo. Da decenni sono automaticamente avvilito al pensiero e alla consapevolezza di conoscere davvero poco, e dico nozionisticamente, quasi che io dovessi essere ciò che non sono, ovvero un critico, e non uno che, il libro, lo scrive. Non mi è ancora riuscito di “coscienzializzare” il fatto che la mia comprensione del mondo e di me stesso avviene nel fare un testo. Non sono mai riuscito a raggiungere il livello del piacere di leggere un testo: l’ho sempre letto per rubare meccanismi, parole, flussi, per costruire teorie e decostruirle appena venivano accennate o rese implicite o esplicitate. Ho in pratica sempre letto da scrittore: in pratica, letteralmente: facendo una cosa, facendo prassi, praticando. Mi è stata data in sorte una fortuna, che era quella di operare in un mondo che considerava il testo un’evenienza necessaria o perlomeno importante. Ciò significa avere avuto la buona sorte di esperire un magistero intorno a ciò che è il leggere e comporre un testo, poetico o prosastico, artistico o saggistico.
Mi rendo perfettamente conto che oggi non è più così. Incontro pochissime persone interessate al testo e, se si scende a un livello di reificazione del testo stesso e cioè il libro, ho a che fare con pochi soggetti che attribuiscono al libro un valore veritativo. Il momento e la situazione che stiamo vivendo, con la sua perenne e troppo intensa stimolazione del sistema nervoso centrale e di quello periferico, mentre il tempo è eroso e non si trovano spazi di pace e sentimento di se stessi, questo panico generalizzato a intensità più o meno bassa, che è un adattamento agli stimoli imposti dal mondo stesso – questa congerie che si chiama Italia 2016 è del tutto disinteressata a inserire tra gli stimoli la lettura di un libro. Il piacere della novità, di una “scena” artistica che regala passi in avanti nello sviluppo delle arti, progressivo e sociale, sembra un esotismo che appartiene a un secolo andato, laddove si ha memoria di un tempo più calmo. Come occuparsi di se stessi, di sentirsi, di essere visti e ascoltati è, a mio avviso, un problema determinante di chi vive insieme a me un simile contesto storico. Per questo ritengo che la cura di sé sia un affare da scrittori e propongo uno spazio in cui il sentimento di se stessi sciolga ciò che impedisce un pieno contatto con la propria mente, il che significa anche con il proprio corpo, con la propria storia, con il proprio apparato emotivo. Questo filtro ostativo è la psiche. La psiche non è la mente. Essa simula un’autonarrazione che è oggi generalmente fallace, perché non restituisce senso a ciò che si fa e che si vive. La psiche manifesta la difficoltà a stare in contatto con la mente, la quale è la potenza di sé, è vasta molto più della funzione psichica. L’ansia generalizzata è risolvibile agendo sulla mente, sul sentimento di sé, molto più che sulla psiche e non sto nemmeno a dire del tentativo di soluzione attraverso il corpo, per esempio con la cura psicofarmacologica. Non che non servano gli psicofarmaci a mettere tranquilli, se la situazione del soggetto è quella sismica e panica. Ciò che sfugge in questo intervento attraverso la chimica cerebrale è il senso di sé, e quindi del mondo, che non risiede nel piano psichico, ma in quello mentale, che laicamente definiamo “esistenziale”. Serve un intervento sul senso, sul senso di sé. Da scrittore posso dire che questo problema del sentimento di se stessi è identico a quello che colpisce il sentimento immersivo della lettura riuscita. Ciò accade anzitutto perché qualunque piano di qualunque umano vivente nell’attuale contesto si presenta in forma di testo e tenta di trascendere la testualità, facendone continua esperienza. La volatilizzazione dell’esperienza testuale mette in crisi l’intero sistema percettivo, non la testualità, che persiste come funzionamento del mondo e di se stessi. Nel saggio “Io sono” (è edito da il Saggiatore) espongo i principi di una terapia della mente, intesa come nuda attività di coscienza e percezione di sé. Tale terapia enuncia la possibilità di un rapporto di cura di sé e della propria vita, che può essere interpretato come counseling, cura coscienziale o esistenziale, auditing attivo, ascolto trasformativo, neopsicologia.E’, insomma, la premessa a un’alleanza concreta che sciolga il problema del senso, ovvero lavori su un’eziologia coscienziale del complesso psichico. E’ dunque anche la premessa per un intervento concreto: è un lavoro ed è identico alla scrittura di un libro, praticata insieme – io, lo scrittore e terapeuta, insieme al cliente o paziente, a sua volta scrittore e terapeuta di se stesso. Il dipinto di scuola tantrica del XVII secolo, allegato qui accanto, significa di fatto la situazione esterna e interna di tale terapia Quando parlo di testo o testualità, del resto, non intendo esclusivamente qualcosa di scritto, bensì la trama e l’ordito e il vuoto interiore ed esteriore in qualunque manifestazione che venga percepita dall’umano, con qualunque senso, specificamente con il senso interno, che sintetizza e restituisce appunto una testualità. Il dipinto tantrico è dunque un testo ed è la situazione terapeutica a cui mi riferisco. Questa situazione è uno spazio in cui avviene il testo, tra due persone, all’interno delle due singole persone. Ciò si dice, nel momento in cui appare la parola: letteratura. La letteratura non è intaccata dal momento storico, mentre ne siamo intaccati noi, il che definisce un problema non letterario, che la potenza del testo è in grado tuttavia di risolvere a pieno.

Marco Belpoliti su tuttoLibri: su “Io sono”

Una lavagna nera perla critica della ragion impura di Genna

di MARCO BELPOLITI
[La Stampa, ttL, 30 maggio 2015]

Senza-titolo-1-e1424533197642La copertina è fustellata in modo che si apra una «finestra» quadrata. Dentro c’è un’immagine: un riquadro nero racchiuso da una cornice, su cui è scritto «Et sic in infinitum». Si tratta di un dettaglio della pagina nera di Robert Fludd, tratta da un’opera intitolata: Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,physica atque technica historia, e pubblicata da Oppenheim nel 1617. Nessuna immagine definisce meglio l’opera di Giuseppe Genna, sia questa su cui compare (Io sono), sia la sua opera narrativa in generale. Genna è un discendente di Fludd, medico teosofo e alchimista, vissuto nel corso del Rinascimento e l’inizio dell’età barocca. E alchimista è anche Giuseppe Genna, che prova qui a fondare una teoria e una pratica della coscienza.
Cosa sia Io sono non è facile da dire. Un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, uno studio sulle origini della medesima, un saggio letterario, un’esperienza estatica in forma di riflessione, una pratica di ricomposizione del trauma?
Tutto questo, ma anche un saggio di epistemologia condotto da un autore coltissimo e insieme meravigliosamente dilettante, quel dilettantismo che è proprio solo dei poeti e degli scrittori che prescindono da tutto e tutto affrontano. Io sono è un modo per scagliare il proprio Io al di là del muro del narcisismo corrente, elevarlo nel Regno che si apre oltre le identificazioni personali. Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un gigantesco sforzo d’ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde. Incanalate nelle elucubrazioni di quest’opera singolare, le parole di Genna costituiscono un viaggio dentro la mente estatica, uno dei pochi viaggi oggi possibili ai lettori in lingua italiana. L’estenuazione filosofica degli «istanti coscienziali», opera dell’autore di Fine impero (minimum fax), è perfettamente rappresentata dalla copertina: la «lavagna nera» di Fludd.
Scrivendo la sua «critica della ragion impura», Genna ha cancellato sulla superficie della sua mente tutto quello che c’era prima, e vi ha inscritto un nuovo segno calligrafico, in verticale e in orizzontale: cardo e decumano del suo pensiero zizzagante. Sul fondo bianco elegantissimo della collana «La Cultura» dell’editore il Saggiatore, la «lavagna» di Fludd appare come uno spazio altro, remoto e insieme vicino, dove «io sono». Per sempre, e al nero.

Giuseppe Genna
«Io sono»
il Saggiatore, pp. 326, € 18

La coscienza oltre la ragione

Sta per uscire nelle edicole e nelle librerie il nuovo numero di Reset, bimestrale di politica e cultura diretto da Giancarlo Bosetti. Grazie a una sorta di think tank inglese, Vision, sono stati raccolti interventi di scienziati, storici, economisti sociologi, psichiatri e scrittori di provenienza internazionale (tra questi, Amartya Sen), circa il tema La crisi della ragione. Per l’Italia, tre interventi: quello di Gianni Riotta, quello dello psicologo e teorico cognitivista Fabio Giommi e il mio – che riproduco integralmente qui.

Più si studia l’attuale configurazione dei saperi, siano essi letterari o artistici o psichiatrici o fisici o mediatici, più ci si rende conto che esitono barriere non inesplicabili tra àmbiti che, in fondo, trattano il medesimo oggetto: che è l’uomo. A partire da questa prospettiva, viene implicitamente operata una forzatura. Se si sostiene che l’oggetto della fisica della particelle non sono affatto le particelle, bensì l’uomo, è chiaro che una forzatura è stata impressa alla questione. Non si svela un trucco tanto complesso se si ammette quale forzatura: si sta semplicemente esercitando una pressione sul problema, spostando il fuoco dei saperi, dal loro oggetto, a chi tenta di esercitarne il sapere – cioè lo sperimentatore, cioè l’uomo. E’ un antico argomento preplatonico ed essenzialmente antioccidentale (se per Occidente si intende la categoria tramandataci dalla tradizione filosofica, non soltanto quella della modernità).

Un punto di vista del genere, a tutti gli effetti, risulta per un contemporaneo una bizzarria (non per un contemporaneo di Giordano Bruno, però). E però se si assume una prospettiva simile, al di là dell’esotismo d’apparenza, si rivoluzionano i saperi. Il che hanno ben imparato alcuni grandi fisici (penso soprattutto all’ormai arcaicissima e mitologica affermazione sulla “ricerca della costante assoluta” di Planck), alcuni grandi sperimentatori (la categoria di “osservazione partecipativa” è di dominio scientifico ormai comune) e alcuni grandi psicologi. Per non dire dei saperi artistici: lì non si discute, la supposta autonomia dell’oggetto è messa in discussione a priori e nessuno si sogna di dire che un’arte è il sapere di un oggetto preciso (incrociamo le dita, ma finora nessuno ci ha ancora propinato l’ipotesi di una scultura delle particelle).

Questa boriosa e noiosa premessa mi serve per parlare, essenzialmente, dell’Unico Oggetto di tutti i saperi. Sembra un teorema altrettanto borioso e noioso, ma forse vale la pena di ragionarci. Mi sono sforzato di apparire finora equilibrato e il più possibile cauto. Consentitemi a questo punto strappi e accelerazioni. A partire da ora.
L’Unico Oggetto di tutti i saperi è la coscienza. La coscienza è ciò di cui è fatta ogni percezione, ogni idea e ogni fenomeno psichico. Il linguaggio è fatto di coscienza: è un sistema di forme in cui precipita (proprio come precipita un sale) la coscienza, rendendosi percepibile. Non evoco tutta la tradizione fenomenologica per asserire principi tanto elementari quanto controversi. Piuttosto, continuo ad accelerare. La coscienza non è umana. Tutto l’universo è fatto di coscienza. Una zona ancora non scoperta dello spazio interstellare, per esempio, non cade soltanto sotto le coordinate di spazio e di tempo, ma anche di coscienza, cosa che rende possibile scoprire e, in un remoto futuro, esplorare questa zona. Questa zona esce, cioè, dal buio di un inconscio (non era percepita) e viene illuminata dalla coscienza. E’ un dato naturale e per nulla sconvolgente: nessuno si sogna di pensare che lo spazio e il tempo non esistano là dove ancora la nostra percezione non è giunta.
I filosofi storceranno il naso, gli psicologi faranno spallucce tacciando questi argomenti di superficialità, gli scienziati arriveranno forse a etichettare l’idiozia di affermazioni non rigorose. La verità è tuttavia duplice. Anzitutto, io sono uno scrittore: un narratore e un poeta – quindi non ho l’ardire di andare a portare il mio verbo in zone in cui la mia percezione, per l’appunto, ancora non è giunta. Mi astengo da apodissi in campo filosofico, psicologico e scientifico. In quanto scrittore, però, ho il diritto e il dovere di occuparmi del sapere umano: certo, da un’angolatura particolare, come particolare è lo scorcio da cui guardano i colleghi di altre discipline. In seconda istanza, faccio quest’osservazione: io conosco un sapere che si opponga al sapere dell’uomo? No. Quindi, chiamo tutto il sapere umano così: Sapere. Tra gli altri vantaggi, questo ragionamento mi permette di evitare la più banale tra le accuse che vengono formulate contro un antiriduttivista come me: di essere un metafisico. Se le percezioni sono relative, cangianti e transitorie, la Percezione no: è una forma stabile, per quanto ci riguarda. Sto parlando in termini assoluti soltanto di questo “per quanto ci riguarda”. E sto avanzando precisamente non tanto un’ipotesi di lavoro quanto una certezza inverificabile: esistono forme di un assoluto senza forma che è la coscienza.
Cos’è questa coscienza? Dio? Un vecchio barbuto che ci guarda da fuori dell’universo? Come ci viene quest’idea che esista qualcosa fuori dall’universo, dallo spazio, dal tempo? Che statuto ha questa fantasia? Qui gioco in casa: è precisamente la tecnica del mio sapere, quello letterario, a essere deputata all’esercizio della fantasia. La coscienza non è niente ed è tutto. E’ un non-qualcosa o un qualcosa che sta “prima” delle forme. Ogni forma è fatta di coscienza. Valga una metafora attinta dal cerchio della scienza fisica. Il tavolo su cui è appoggiata la tastiera del pc su cui sto scrivendo è fatto di elettroni, esattamente come la tastiera stessa o le dita che stanno battendo sui pulsanti. C’è una costante elettrica che permette azione, scambio e reazione tra i corpi solidi. Ecco, trasciniamo i termini della questione in un àmbito che, finora, pare non essere precisamente elettrico: il pensiero. Di cosa è fatto? Boh. Come si trasmette. Boh. Superiamo questa rozza sorpresa: diciamo che è fatto di una sostanza non ancora identificata (e non lo sarà mai, identificata, se i termini dell’identificazione cadono sotto la premessa dualista di ogni riduttivismo). Dobbiamo per forza parlare di una sostanza, anche se proprio non pare essere una deità metafisica: perché altrimenti infrangeremmo un dogma molto prezioso, soprattutto per i riduttivisti: dovremmo sostenere che qualcosa nell’universo nasce dal nulla. Eresia della ragione. Provo a prenderla da un’altra direzione, con un’ulteriore metafora. Nasce un bambino; tre anni fa non c’era; esercita un’attività di coscienza ora, e tre anni fa no; da dove viene questa coscienza che tre anni fa non c’era?
Può sembrare che uno scrittore non abbia la patente per porsi simili domande e ammetto che la questione, posta in questi termini, assomiglia da vicino alle questioni filosofiche della tradizione occidentale. Assomiglia ma non è la stessa questione. Tutta la letteratura parla di questo: ne parla per arrivare a praticare questo. Questo cosa? Questa sostanza che definisco coscienza, che si solidifica in forme stabili e via via in corpi e, probabilmente, in supercorpi. Non c’è da scandalizzarsi: tutta la letteratura è allegorica (a intensità diverse, certo, ma la sostanza, appunto, non cambia). L’allegoria, per come gli scrittori di ogni tempo l’hanno conosciuta e utilizzata, non è che una premessa all’anagogia. Ogni grande scrittore pratica questo sapere, che è il Sapere, e che insegna a uscire dal linguaggio per praticare ciò che, costituendo materialmente il linguaggio, non è linguificabile – esattamente come non è linguificabile lo stato di tre anni fa della coscienza di quel bambino nato ora. La formulazione esplicita, da parte di uno scrittore, di questa banalità di base della scrittura tocca forse il proprio apice nello Shakespeare di Victor Hugo, il cui incipit fa così: “Esistono uomini oceano” e il cui svolgimento altro non è che una spiegazione di cosa significhi “esistere”, “uomo” e cosa gli scrittori davvero intendono quando parlano dell’“oceano”. Non sto inerendo assolutamente a pratiche esoteriche o ritiratesi misteriosamente dall’orizzonte del sapere letterario umano di oggidì: chiunque legga l’opera omnia di Thomas Pynchon o di Don DeLillo sa perfettamente di cosa parlo. Chiunque vada a vedersi Fight club, dal romanzo di Chuck Palahniuk, se non si fa prendere dal noiosissimo discorso basso-sociologico, si rende perfettamente conto, anche se non riesce a esprimerlo, dello sbalzo che il film (e, ben più del film, il romanzo) gli fa compiere verso uno stato che si sente, si esperisce e non si riesce a dire cosa sia. Non si tratta certo della coscienza allo stato puro (il regista Fyncher è bravo, ma non è affatto il Dalai Lama). Si tratta, invece, dell’esito più immediato del lavoro allegorico di un artista, che è riuscito a farci oltrepassare la “durezza” dell’allegoria per farci rimbalzare in quel luogo verso cui la fionda allegorica spara chi la pratica con sapienza (in termini di critica letteraria si parla di passaggio dall’allegoria all’anagogia). Questa è incontestabilmente la retorica letteraria: che poi non tutti sappiano praticarla è un altro conto.
Che cos’è la ragione? Un’attività coscienziale. La ragione è perlomeno metà della psiche (questa è un’affermazione allegorica; lo dico per i non avvertiti). La psiche è una delle indefinite (indefinite: non infinite) possibilità di cui dispone la coscienza per rendersi percepibile e vivibile (“percepibile” e “vivibile” sono qui aggettivi impiegati secondo un’intenzione riduttivista; anzi, materialista tout court). Ecco dunque in che senso io concedo credibilità a una “crisi della ragione”. Non credo che esista una crisi storica della ragione: esiste semmai una crisi della ragion storica – cioè entra in crisi una delle forme storiche che la ragione ha assunto per un certo periodo di tempo in un determinato spazio. Esiste poi una crisi ontologica della ragione, che potrei stupidamente riassumere così: la ragione non è tutto. Fa male imparare che non si è tutto: e la ragione va in tilt. Anzitutto perché scopre di avere fratelli che non immaginava esistere (pensiamo a quando Freud impose il paradigma dell’inconscio: crisi culturale, crisi della ragione – poiché l’inconscio non è l’inesistenza della coscienza, è semmai ciò in cui la ragione non arriva ancora a portare luce; motivo per cui la metafora spaziale e interstellare prima utilizzata può definirsi di matrice spenceriana nella modalità e anche nella sostanza, ma non nell’esito, che è il contrario della fede spenceriana nell’inconoscibilità ontologica). C’è poi un ulteriore motivo di disagio, una sorta di apostolato naturale che diviene fede incarnata in un senso ben distante dal dogma cristiano: c’è la morte. La morte, sospetto, ha a che fare in qualche modo con la coscienza, esattamente come nel parallelo sueffettuato con la coscienza del bambino non ancora concepito. Mi chiedo: il bambino non concepito, dal punto di vista coscienziale, è un morto? Mettiamo quindi al mondo cadaveri? Adrenalinizziamo esseri coscienzialmente putrefatti? E, quando lasciamo le spoglie mortali, se pure possiamo prevedere cosa succede alla nostra ragione, come mai non riusciamo a immaginare cosa succede della nostra coscienza? Se in morte non si parla della coscienza, in vita sappiamo di cosa si tratta? Oppure la riduciamo semplicemente alla ragione? La coscienza è la ragion sufficiente della ragione?
Sposto ora ogni considerazione su un piano più prossimo al nostro fare quotidiano – dico “nostro” di noi scrittori. Da anni si dice che la letteratura è in crisi: ce lo si dice come ci si chiede se sia in crisi la ragione. Vicinanza sospetta di due sospetti problemi. La cultura scientifica evolve, progredisce, mangia, divora, immensamente cresce, si allarga. Il sapere mediatico, si dice, sottrae spazio allo sviluppo delle discipline umanistiche, essendo questo in drammatica contrazione. Non si dice la cattiva parolina, “decadenza”, per sacrale rispetto ai propri lari. Di fatto, però, Alighieri è già in barile: non come i merluzzi, ma proprio come i rifiuti. Rifiuti tossici, per di più. Tutto questo è falso. La psicologia appare oggi in fase anale, ritentiva: resiste al proprio balzo quantico, fatica a riconoscersi, più che scienza, quale studio della coscienza e interazione coscienziale. I fisici brancolano cercando di strappare lembi dagli stracci spettrali del fantasma dell’Unificazione. Oppure scendono in profondità, alla ricerca del minimo, del fondamentale, in palese disconoscimento che sotto sotto c’è vuoto. Non parliamo delle scienze sociali: ancora non abbiamo esaurito la grassa risata esplosaci in bocca davanti alla bufala dei memi. So perfettamente che parlo un gergo grezzo e lo sto utilizzando apposta: per comprendere e fare comprendere quanto irrisorio sia il Sapere e quanto risibile sia la psiche se messa in scala con l’abisso coscienziale. E’ proprio in questa prospettiva che, dunque, sono davvero le discipline artistiche quelle messe meglio. Non è questa la sede più opportuna per dare criticamente conto di certe affermazioni, che comunque non mi astengo dal fare. Il lavoro di William Vollmann, di Donna Tartt, di Andrea Zanzotto, di Jean Starobinski, dei suddetti Thomas Pynchon e Don DeLillo, di Michel Houellebecq, di Victor Pelevin, di James Ellroy e di Bruce Sterling – tanto per pescare in alto e in basto, a est e a ovest, un po’ a caso, e soltanto in letteratura – testimonia di quanto sia penetrante e profetica la capacità dello sguardo letterario di sprofondare nell’abisso laico della coscienza. Servono certo aggiornamenti: anzitutto critici. Ma sono difficoltà di organizzazione, di società culturale, di sovrastruttura: non è in discussione la produzione artistica in sé, che dà attualmente la polvere agli altri comparti in cui si esercitano i saperi umani. Ironico baratro che spalanca la crisi della ragione storica: ciò che durava da sempre, continua a durare, mentre crollano ed entrano in metamorfosi i “paletti” che avevamo posto con tanta solerte solennità. Non è che simili “paletti” non crollino anche in letteratura. Ecco, per esempio, un “paletto” letterario destinato non al crollo, però certo a una profonda metamorfosi: la fantascienza profetizza il futuro in maniera esatta ed è un’avanguardia letteraria. Solo la ragione storica che ci si chiede se è in crisi poteva porre un simile truismo interpretativo. Non che non fosse vero che la fantascienza era avanguardia nell’individuazione delle configurazioni psichiche individuali e collettive che, bene o male, avrebbero preso storicamente corpo. E’ che quanto sta accadendo, per chi non avesse gli occhi fissi su ciò da cui emerge il linguaggio, ha dell’incredibile: accade che tutta la letteratura – ma proprio tutta – è diventata fantascienza. Tutta la letteratura è allegorica, si è detto; oggi, tutta la letteratura è fantascientifica. Per restare ai numi a cui ho fatto già ricorso: Vollmann, Tartt, Zanzotto, Pynchon e DeLillo (quest’ultimo in The body artist più che ovunque e più di chiunque altro) ha mutuato la propria allegoresi dalla strumentazione fantascientifica. Fa quindi sorridere l’ascolto di certi impropri e improbabili giudizi critici, che sono riduttivi oltre che riduttivisti, come quello che segue: il futuro si è avverato e la fantascienza ha immaginato ogni futuro possibile, quindi la fantascienza è in crisi. E’ invece vero che, a differenza della psicologia, la fantascienza è uscita dalla propria fase anale e ha compiuto il salto quantico, divenendo tutta la letteratura. La ragione in crisi parla di crisi. La fantascienza non parla di crisi: la supera.
Come è chiaro, non pretendo di giungere a nessuna conclusione necessaria. Pretendo al contrario di giungere a parecchie conclusioni arbitrarie e, possibilmente, di fuoriuscirne al più presto per cogliere, al di là del linguaggio, di che cosa siano effettivamente fatte queste benedette conclusioni. Del resto, è vero anche che, essendo entrambi coscienza, io e voi non ci siamo mai parlati – se non altro dal punto di vista della coscienza stessa.

Pubblicato in origine domenica 11 Gennaio 2004

Giommi: Se la Ragione tace. Pensiero discorsivo e mindfulness

di FABIO GIOMMI

[E’ in tutte le edicole il nuovo numero di Reset con, in allegato, il libro che raccoglie gli interventi sul tema ‘La Crisi della Ragione’, curato dal think tank Vision. Pubblico, dopo il mio, l’intervento del teorico e clinico cognitivista Fabio Giommi]


Il tema del sonno della Ragione ci conduce inevitabilmente all’interno della cornice culturale di credenze e assunti profondi in cui noi, come occidentali e contemporanei, ci ritroviamo a pensare. Vorrei evidenziarne due in particolare. Il primo: se la Ragione si addormenta, allora si apre una crepa e dal mondo infero emerge la componente irrazionale della natura umana. Sembriamo persuasi che non si dia altra possibilità: Ragione o crisi ed eruzione dell’oscuro.
Il secondo: si accetta come scontata l’ulteriore verità che l’uomo nella sua massima espressione sia essere pensante. Nel senso di una coscienza umana che è tale in quanto raziocinante: pensiero discorsivo fondato su logica e ragionamento, potenza di calcolo come strumento al servizio del problem solving e del decidere. Qui coscienza è intesa nel senso più ampio come aspetto consapevole, intenzionale della mente e dell’agire. Pensiamo di non poter esistere come esseri consapevoli in assenza del pensare. In breve, abbiamo identificato coscienza e pensiero discorsivo, sotto il vasto campo semantico della nozione di Ragione.

Dal momento che la mia formazione e la mia attività di ricerca sono nell’area della psicologia clinica e delle scienze cognitive, con un background filosofico, desidero trasformare queste due assunzioni in domande, e discuterle dalla prospettiva della ricerca in queste aree.

E’ in grado la sola Ragione di comprendere e guidare il nosto comportamento?
Cosa succede se, invece che cadere nel sonno, la Ragione, il pensiero discorsivo tace? O perlomeno, mette la sordina e si attenua l’identificazione di consapevolezza e pensiero?

Scienza cognitiva, neuroscienze e Ragione 
Alla domanda se possa essere unicamente il calcolo razionale a guidare il nostro comportamento consapevole la Scienza, figlia prediletta della Ragione, ha dato risposta, razionalmente, con chiarezza: no.
Una prima linea di ricerca, l’idea della ragione come calcolo, dopo Leibniz è stata portata fino alle sue estreme conseguenze: i teoremi limitativi della prima metà del ‘900 (il più noto dei quali è quello di Gödel) validi per qualunque sistema formale di calcolo logico (minimamente interessante). Tramonta il progetto del calculemus universale.
Ma ancora più pertinente è stata la risposta giunta dalla Cognitive Science e dalle neuroscienze. La seconda linea di ricerca è stata infatti quella di studiare come funziona, in effetti, il pensiero discorsivo negli esseri umani. Il ragionamento deduttivo nelle situazioni “naturali” ossia prodotto per mezzo del linguaggio naturale, quello attraverso cui pensiamo discorsivamente, non è risultato fondato rigorosamente sulle regole della logica (formale). In termini tecnici il nostro dedurre non è “vero-funzionale”. Piuttosto si sviluppa a partire da un “modello mentale” che ritaglia un aspetto della realtà esaminata attraverso un processo tacito guidato da vincoli: i nostri scopi e le credenze ritenute pertinenti. Nella costruzione di un modello entrano in gioco pensiero, visualizzazione, immaginazione. Il ragionare consiste nell’immaginare le possibilità compatibili con le premesse, e nel derivare conclusioni compatibili con esse. In questo hanno ugual peso applicazioni “locali” di regole logiche e aspetti non-logici ma connessi al funzionamento della mente. Come la tendenza a limitare sempre al massimo il numero di modelli necessari per un inferenza, quella a focalizzarsi su ciò che è vero (per il modello) e a trascurare ciò che è falso, quella per cui sia il contenuto delle inferenze, cioè il loro significato, sia le credenze di sfondo influenzano l’interpretazione delle premesse e la deduzione, contrariamente alle prescrizioni di un idea “formale” di logica [1]. Insomma quando deduciamo, lo facciamo solo sotto varie condizioni limitative. Più che un calcolo logico sviluppiamo “strategie per derivare inferenze”. Ma queste strategie hanno una forte variabilità individuale, dipendono dallo sfondo cognitivo e quindi anche culturale: la deduzione stessa è una strategia, più utilizzata in occidente che altrove [2]. D’altra parte la creazione della logica formale nella forma a noi conosciuta è stata un impresa intellettuale molto recente, realizzata prevalentemente da matematici, e qualche filosofo, con lo scopo di catturare le strategie inferenziali in uso in certi dominii concettuali idealizzati.
La risposta più decisiva alla prima domanda arriva però dagli sviluppi delle neuroscienze. Una grande quantità di ricerca negli ultimi 10-15 anni ha permesso una comprensione, iniziale ma già molto solida, circa le natura delle emozioni [3], le loro basi neurali [4] ed il loro ruolo nel nostro funzionamento cognitivo [5]. Semplificando si può affermare che le emozioni sono una componente integrale del funzionamento cognitivo, del pensiero discorsivo. Se c’è una marcata alterazione della capacità di esperire emozioni, una mente/cervello che pure abbia tutte le altre componenti considerate necessarie e sufficienti per produrre un pensiero “razionale”, non è in grado di esibire decisioni e comportamenti descrivibili come tali. Come dimostrano per esempio i casi di pazienti con lesioni in certe aree del sistema limbico [6], un insieme di strutture cerebrali complesse e integrate che condividiamo, senza differenze essenziali, con gli altri mammiferi sociali. Può essere pensato come correlato neurale di un piccolo numero di “sistemi motivazionali” di base, che regolano attraverso le emozioni la relazione di ciascun individuo con i suoi conspecifici e con l’ambiente esterno ed interno. Noi siamo certo figli della nostra cultura e storia personale e tuttavia, “sotto”, il sistema limbico rimane sempre attivo: un sistema di elaborazione e trasmissione continuo di segnali non verbali e “significati” emotivi, anche subliminali. Le motivazioni di base generate da questi sistemi permenano tutti i livelli del sistema nervoso e si esprimono o come sensazioni emotive o come biases inconsapevoli che plasmano il nostro decision making. Se la valutazione “razionale” di alternative possibili fosse basata sul solo freddo “calcolo”, si avrebbe una sorta si esplosione combinatoria di opzioni possibili. Con rallentamento eccessivo, paralisi o mancanza di direzionalità: sintomi puntualmente osservabili nei suddetti pazienti. Invece le alternative possibili, grazie alla connessione con il vissuto emotivo di esperienze passate, sono intrise di segnali emozionali elementari (per es. piacevole/doloroso) che permettono inconsapevolmente di “filtrare” e selezionare, riducendo la complessità presente in qualunque situazione. In sintesi: la trama del nostro pensiero discorsivo è tacitamente disegnata su un ordito di “attrazione e repulsione”.
Un aspetto essenziale da comprendere è che, poichè questi segnali emotivi passano in grandissima parte per canali diversi dal linguaggio verbale, la regolazione emotiva reciproca rimane di solito al di fuori dal cerchio della nostra attenzione consapevole. Ciò implica che abbiamo a che fare con una dimensione della realtà che in parte “sfugge” al linguaggio della razionalità discorsiva, che ha una “presa” limitata su di essa. Significa che la “ragione” intesa in senso tradizionale deve qui lasciare spazio a qualcosa di diverso: lo sviluppo di consapevolezza individuale. Il training degli psicoterapeuti dopotutto è fondato più sullo sviluppo della capacità di amplificare e ascoltare le proprie sensazioni emotive come canale risonante a quelle dell’altro, che non sull’apprendimento di modelli concettuali. Questo genere comprensione è stata chiamata intelligenza emotiva, una nozione che ha conosciuto grande fortuna anche fuori dalla psicologia cognitiva e clinica. Nel contesto organizzativo, Daniel Goleman [7] propone che questa competenza sia il primaria nella capacità di leadership.
Un importante corrente della psicologia cognitiva insiste sul fatto che non si può pensare all’intelligenza come unidimensionale e ha individuato molteplici tipi di intelligenza, oltre a quella emotiva, con caratteristiche specifiche non riducibili al “discorsivo”. Per esempio l’intelligenza spaziale e quella corporeo-cinestetica: ai test classici di I.Q. Cézanne e Michael Jordan potrebbero risultare due stupidi. Per l’approccio delle intelligenze multiple è essenziale riconoscere e coltivare tutte le diverse intelligenze ed è molto pericoloso cercare le risposte ad un problema unicamente in una particolare dimensione, come quella logico-discorsiva [8]. Non dovrebbe allora sorprendere il fatto che le avanguardie letterarie e artistiche, il cui mestiere è quello di cogliere gli aspetti già presenti del futuro, hanno saputo e sanno coglire “i segni dei tempi” individuando ciò che si annuncia spesso con molta più vision degli economisti e dei sociologi.
Pare insomma al tramonto la visione della “parsimoniosa” spiegazione dell’uomo in quanto “homo oeconomicus”, che propone di ridurre tutto il comportamento nei termini di una motivazione individualista alla massimizzazione del proprio interesse, all’aquisizione operata grazie ad una razionalità “fredda”, orientata a scopi calcolabili. Kahneman, uno psicologo cognitivista che studia gli aspetti “irrazionali” del decision making, ha vinto di recente il Nobel per l’economia, e due noti professori della Harvard Business School, tempio del pensiero economico e manageriale, propongono una teoria generale della motivazione umana [9] basata sui diversi sistemi motivazionali dell’affective neuroscience. A questa versione del comportamento umano, per la verità, sembrano aver creduto sempre ben pochi intellettuali e scienziati, con l’eccezione degli economisti classici e alcuni filosofi affini, ma la loro fede è stata evidentemente sostenuta da una fervente passione ideologica.

Lo sviluppo della mindfulness
Dunque la ricerca scientifica ci parla di una pluralità di “modi di funzionamento” della mente, del pensiero discorsivo come strumento molto utile ma limitato e da non considerare come l’unica fonte di comprensione e lettura della realtà, e di consapevolezza come modalità “al di là delle parole”.
Se proviamo a spingerci oltre in questa direzione, giungiamo alla seconda domanda. Cosa succede se si attenua in noi l’identificazione di coscienza e pensiero?
Come esseri umani, e come occidentali in particolare, siamo totalmente catturati dalla “fascinazione del pensare” [10]. Abbiamo la propensione ad attribuire il massimo valore possibile al pensare in sè, una fascinazione indiscriminata per l’attività mentale. Ci sentiamo “a posto” e in regola solo quando la mente pensa molto, non importa a cosa e come. Importa il discorrere mentale. Discorrere, dal latino discurrere: “correre di qua e di là”. Ci aspettiamo tutto e la soluzione di tutto in primo luogo dal pensare e poi anche dal leggere e dal parlare. Siamo convinti che se soltanto riuscissimo a pensare abbastanza, se solo rivedessimo il film mentale di quella data situazione… allora certamente ne verrà qualcosa di buono. E’ una fede cieca, tanto più è radicata e inconsapevole, di abbandono a un presunto potere (magico?) del pensare e del ripensare, della cogitazione compulsiva.
Questa proliferazione è inarrestabile, anche se non siamo impeganti nella soluzione di qualche problema. Fate un esperimento per tre minuti. Con gli occhi chiusi e in condizioni di tranquillità, provate a concentrare l’attenzione sul respiro, lì dove lo sentite meglio: nelle narici o in gola o nel movimento dell’addome. Provate semplicemente a percepire con attenzione quello che accade, comunque sia. E’ molto probabile che la vostra intenzione non rimarrà costante neppure per un minuto.Vi ritroverete durante la maggior parte del tempo nel futuro o nel passato, ossia a immaginare e a ricordare. Oppure a giudicare se quello che state facendo abbia senso o a pensare se state riuscendo nel compito. Per poi ricordarvi all’improvviso che la vostra intenzione era quella di percepire il fluire del respiro, nient’altro. State scoprendo di non essere voi a dirigere la gran parte dei vostri pensieri. State osservando il modo usuale di operare della mente. L’attenzione è distratta molto facilmente. La mente tende a divagare, “cade” dentro i film dei pensieri e dei ricordi, che insistono a ripresentarsi, a configuare patterns di cognizioni ed emozioni ricorrenti. Passiamo il tempo a funzionare meccanicamente procedendo con una sorta di “pilota automatico”, senza essere pienamente coscienti di ciò che facciamo e percepiamo. Potete anche ripetere l’esercizio con stimoli esterni come il fluire dei suoni, o provare a guidare per tre minuti impedendo alla mente di distrarsi.

E’ proprio l’attaccamento alla proliferazione mentale che ci rende ciechi a fondamentali capacità della mente umana diverse dal pensare discorsivo. In particolare la “presenza consapevole” o mindfulness.
La mindfulness è stata descritta come “il prestare attenzione attraverso una modalità particolare: con intenzione, nel momento presente e in modo non giudicante” [11]. Il punto cruciale è che questa capacità della mente umana è potenzialmente presente in ciascuno e può essere sviluppata in maniera sistematica fino a trasformare l’ordinaria modalità di funzionamento della nostra mente, dominata dal pensiero discorsivo. Il mezzo strutturato più efficace, ma non l’unico, è la meditazione. Ma la pratica della mindfulness consiste nel ricordarsi di essere presenti in tutti i nostri momenti di veglia, e non è limitata a situazioni particolari. Nella forma oggi più diffusa la mindfulness meditationderiva dalla tradizione classica buddhista chiamata theravada [12], ma la sua essenza è universale e presente in molte tradizioni.
John Teasdale, di Cambridge in Inghilterra, è stato negli anni uno degli scienziati più influenti nell’area del cognitivismo clinico e descrive la mindfulness come un mezzo per accedere volontariamente ad un “alternative cognitive mode”, cioè ad un diverso possibile modo di funzionare della mente: “the mode of being”. Secondo Teasdale la ricchezza di questa modalità non è facilmente riportabile a parole, il suo sapore è apprezzabile molto meglio con l’esperienza diretta. Il focus del “being mode” è “accepting and allowing” ciò che accade, senza alcuna immediata pressione a cambiarlo. In assenza di uno scopo o di uno standard, anche minimo, da raggiungere non sorge l’esigenza di valutare l’esperienza attraverso il pensiero per ridurre la discrepanza fra lo stato attuale e quello desiderato. L’esperienza può essere osservata nella sua piena profondità e ricchezza, per ciò che è. Ciò comporta un cambiamento anche in relazione a pensieri ed emozioni, che cominciano ad essere percepiti come tutti gli altri aspetti presenti alla consapevolezza momento per momento: semplici “oggetti” che compaiono nel campo della coscienza e poi scompaiono. I pensieri sono percepiti nella loro natura di semplici pensieri, eventi mentali; le emozioni non innescano immediatamente sequenze automatiche di azioni nella mente o nel corpo. Come conseguenza il “being mode” è caratterizzato da un liberatorio senso di libertà, di freschezza, dallo svelarsi dell’esperienza in nuove forme [13].
Tra le vittime della proliferazione del pensiero discorsivo dunque c’è proprio quel fattore capace di farci vedere che i pensieri sono solo pensieri, mettendoci in grado di non rimanere invischiati nei pensieri, nelle fantasie, negli stati emotivi… come se fossero realtà presenti e vissute: equivoco che è uno dei maggiori propellenti dell’infelicità umana. La consapevolezza, in un certo senso, è semplice, rappresenta la massima semplicità. Il che non significa affatto facilità. Ma se sviluppata sistematicamente la consapevolezza matura permette in modo spontaneo e regolare il manifestarsi di ulteriori capacità fondamentali della mente umana: un atteggiamento stabile di “benevolenza incondizionata” e l’insight. La prima consiste in un atteggiamento di calore ed equanimità che apre al contatto verso tutta la realtà, con un immediata implicazione etica. La seconda capacità è quella in parte catturata dal termine insight e che potremmo forse rendere con “intuizione sintetica”. Non si tratta di quel tipo di intuizione collegata a “sensazioni” emotive, caratteristico del funzionamento in parte a-verbale dell’intelligenza emotiva. Si tratta di una facoltà che un pò imbarazza la psicologia cognitiva contemporanea perchè è difficilmente collocabile nei modelli standard della mente. Tuttavia la sua fenomenologia è così diffusa che la sua esistenza è difficilmente negabile, ed esistono sporadiche ricerche, spesso sotto l’etichetta di “psicologia dell’invenzione o della creatività”. Consiste nella possibilità per la mente di “vedere” in modo chiaro, coerente, e in un certo senso “immediato” delle “realtà” che non derivano dalla percezione ordinaria. La “visione” risolutiva, spesso improvvisa e non attesa, che non di rado viene riferita nei momenti di grande creatività scientifica o artistica. Più semplicemente, la possibilità di “vedere” oltre il semplice “dedurre” su cui poggia la matematica stessa nella convinzione di molti matematici. I quali infatti affermano di frequente di “vedere un teorema” in modo compiuto come gestalt, prima di passare agli strumenti del mestiere per dimostrarlo formalmente [14]. Una facoltà riconosciuta con chiarezza anche dalla tradizione filosofica occidentale fino all’alba dell’epoca moderna e poi confusasi in vari modi. Il Socrate di Platone, l’emblema del pensiero discorsivo, in nessun dialogo definisce esaustivamente in termini puramente logico-discorsivi un’Idea [15]. Piuttosto l’analisi logica acuta e serrata serve come fase propedeutica per sciogliere i “crampi” intellettuali che impediscono l’aprirsi all’esperienza dell’insight [16,17]. Non troppo diversamente forse da come ancora oggi accade in ceri monasteri tibetani, in cui i monaci si esercitano per anni al tirocinio dell’analisi logica e alla sfida dialettica per arrivare a vedere oltre, o dall’uso dei koan nello zen.

La comprensione della natura della consapevolezza apre (riapre) domande filosofiche fondamentali. Tuttavia lo sviluppo della mindfulness rimane prima di tutto questione empirica, pratica: realizza trasformazioni degli stati mentali. E non solo per pochi con inclinazioni filosofiche. La possibilità di generare modalità diverse di coscienza sta forse modificando in profondità la visione della natura della mente della scienza occidentale. E’ una corrente di pensiero minoritaria ma influente che esercita un influsso originato ex oriente, dove lo studio sistematico e la trasformazione degli stati mentali perdura da oltre 2500 anni, soprattutto (ma non esclusivamente) attraverso la mediazione della tradizione e della psicologia buddhista. A partire dagli anni ’70, prima in modo carsico e poi via via più esplicito, l’impatto è particolarmente visibile nel campo della psicologia clinica. Un protocollo di applicazione della mindfulness su disturbi psicosomatici gravi e su una serie di distrubi psichiatrici, attraverso un programma di gruppo di 8 settimane sviluppato alla clinica dell’Università di Boston negli anni ’80, è stato applicato in decine di migliaia di casi negli Usa, in Europa e altrove [18]. La letteratura di ricerca al riguardo, trial clinici e assessment, è solida e promettente [19]. Modificazioni di questo protocollo sono state utilizzate anche in situazioni di non cliniche: dalle carceri, allo sport professionistico, al management aziendale.
Uno dei più diffusi ed efficaci programmi di trattamento del disturbo borderline di personalità, una diagnosi psichiatrica che sta conoscendo in questi anni un’espansione quasi epidemica, è centrato fra l’altro sullo sviluppo della mindfulness [20]. Lo stesso nel caso di un popolare programma “comportamentista” di trattamento dei disturbi ossessivi-compulsivi.
Ma il fatto maggiormente significativo sembra l’incontro tra mindfulness e Cognitive Therapy (CT), l’approccio alla psicoterapia per tradizione più strettamente legato alla psicologia scientifica sperimentale. Insieme a Teasdale due altre figure di riferimento del cognitivismo clinico, Mark Williams e Zindel Segal, hanno incontrato la mindfulness: ne è nato, oltre ad un’approfondita esperienza in prima persona dei tre ricercatori, un approccio che unisce la mindfulness meditation a specifiche tecniche della CT [21]. Per ora la Mindfulness-based Cognitive Therapy è focalizzata sui disturbi depressivi, con risultati molto promettenti sostenuti da ricerche cliniche di grande ampiezza e rigore metodologico [22], ma l’estensione ad altre patologie è in elaborazione da parte di gruppi di clinici attratti da essa. Questa prospettiva comporta implicitamente una visione che potrebbe avere conseguenze incalcolabili per la nostra concezione della psicoterapia e della mente. In un primo tempo l’accrescimento della mindfulness non “cura” i sintomi, cambia la posizione della coscienza rispetto ad essi. Ma questo spostamento è cruciale. Invece che focalizzarsi sui “contenuti nevrotici”, la consapevolezza si dirige verso il “funzionamento” della mente stessa. Ciò permette la dis-identificazione della coscienza dai “contenuti” che la assorbono, soprattutto quelli con una forte carica emozionale negativa. L’abilità all’attenzione distaccata col tempo conduce alla possibilità di “vedere”, in immediata evidenza, i patterns automatici di pensieri ed emozioni che sostengono la patologia, senza appunto identificarsi con essi. Questo induce un profondo sentimento di sollievo e di liberazione. Col tempo la consapevolezza è in grado, in un modo che seppur indagato risulta ancora misterioso, di ridurre o dissolvere l’automaticità disfunzionale di certi processi mentali [23].
Sono in corso anche ricerche di base, di approccio neuroscientifico. Per esempio, studi condotti con tecniche di neuroimaging hanno mostrato che la pratica della mindfulness attiva aree neurali correlate ai processi attenzionali e al controllo del sistema nervoso autonomo [24]; e ci sono dati, da ricercatori seri, per ipotizzare che la consapevolezza sia in grado di influenzare la generazione di nuovi circuiti neurali che “rimpiazzano” quelli coinvolti nei processi automatici disfunzionali [25]. Non solo nel caso di disturbi psichiatrici ma anche per disturbi somatici, per esempio l’afasia [26], al punto che si comincia a parlare di “self-directed neuroplasticity” [27].
L’influsso di questa corrente di pensiero non si limita solo alla clinica. É naturale che si esprima autorevolmente anche in una delle aree di ricerca più “calde” della scienza contemporanea, quella sulla natura della coscienza [28]. Un tema che concentra gli sforzi di un numero di discipline che vanno dalla fisica quantistica alla psicologia cognitiva, dalla neurobiologia alla filosofia, intrecciandole e arricchendole reciprocamente e dando vita ad un fenomeno forse unico nella storia della scienza moderna. Un tema per cui le domande scientifiche tornano spontaneamente e necessariamente ad avere valenza metafisica.
E’ qui possibile solo un accenno. A titolo di esempio, sono stati influenzati dalla prospettiva della mindfulness Richard J. Davidson, uno dei fondatori dell’affective neuroscience e Daniel Goleman negli USA, Franciso Varela a Parigi [29]. In Olanda Henk Barendregt, logico matematico di grande fama, da anni conduce un gruppo di ricerca interdisciplinare su un modello generale della mente, in parte derivato dalla tradizione buddhista [30].
Tuttavia è sopratutto nella clinica, per il suo aspetto esperienziale ed empirico, che si evidenzia forse meglio il passaggio assolutamente essenziale: la distinzione tra i “contenuti” della coscienza, qualunque essi siano, e la coscienza in sé [31].

Questa prospettiva offre una risposta alla seconda domanda e ci riconduce al tema della Ragione discorsiva. Forse potremmo iniziare a considerare se valutarla con più equanimità come strumento. Estremamente utile in molte circostanze. Non però la sola facoltà che ci rende umani. La fede nella razionalità discorsiva ha avuto storicamente il senso e l’importanza che tutti riconosciamo. Ma oggi la sua assunzione a Codice Universale Unico per la comprensione dell’uomo rischia di rivelarsi inadeguata, e perfino iatrogena, a causa della sua parzialità, proprio in un passaggio storico in cui desideriamo contrastare le spinte delle visioni unilaterali e fanatiche sulla natura umana.

Note
1 P. N. Johnson-Laird (2001). Mental models and deduction. Trends in Cognitive Science. 5, 434-442.
2 R. Nisbett, et al. (2001). Culture and systems of thought: holistic versus analytic cognition. Psychol. Rev. 108, 291-310.
3 J. Panksepp (1998). Affective Neuroscience. Oxford: Oxford Univ. Press..
4 J. Cacioppo ed. (2002). Foundations in Social Neuroscience. Cambridge Mass: MIT Press.
5 A. Damasio (1994). Descartes’ Error: Emotion, Reason, and the Human Brain. New York: Putnam; e A. Damasio (1999). The Feelings of What Happens: Body and Emotion in the Making of Consciousness. New York: Harcourt Brace.
6 Damasio (1994), pp. xi-xii.
7 D. Goleman, E. Boyatzis, A. McKee (2002). Primal Leadership. Realizing the power of Emotional Intelligence. Harvard: Harvard Business School Press.
8 H. Gardner (1993). Multiple Intelligences: The Theory in Practice. New York: Basic Books.
9 P. Lawrence, N. Nohria (2002). Driven: How Human Nature Shapes our Choices. New York: Jossey-Bass.
10 C. Pensa (2002). L’intelligenza spirituale. Roma: Ubaldini.
11 J. Kabat-Zinn (1994). Wherever you go, there you are: Mindfulness meditation in everyday life. New York: Hyperion.
12 J. Kabat-Zinn (1990). Full Catastrophe Living. New York: Delta.
13 Z. Segal, J. M. Williams, J. Teasdale (2002). Mindfulness-based Cognitive Therapy for Depression: A new approach to preventing relapse. New York: The Guilford Press; pp. 73-75.
14 H. Barendregt (1988). Buddhist Phenomenology. In dalla Chiara (Ed.) Proceedings of the Conference on Topics and Perspectives of Contemporary Logic and Philosophy of Science. Bologna: CLUEB, http://www.cs.kun.nl/~henk/BP/bp1.htlm.
15 P. Friedlander (1954). Platone. Eidos-Paideia-Dialogos. Tr. It. La nuova Italia , Firenze, 1979.
16, P. Florenskij (1999). Il significato dell’idealismo. A cura di N.Valentini. Milano: Rusconi.
17 R. de Monticelli (1995). L’ascesi filosofica. Milano: Feltrinelli.
18 J. Kabat-Zinn (1990). Op.cit.
1 9 R. Baer (in press). Mindfulness training as a clinical intervention: A conceptual and empirical review. Clinical Psychology: Science and Practice.
20 M. Linehan, H. Armstrong, A. Suarez, D. Allmonn, & H. Heard (1991). Cognitive-behavioural treatment of chronically parasuicidal borderline patients. Archives of General Psychiatry, 48, 1060-1064.
21 Z. Segal, J. M. Williams, J. Teasdale (2002). Op.cit.
22 J. Teasdale, R. Moore, H. Hayhurst, M. Pope, J. M. Williams, & Z. Segal (2002). Metacognitive Awareness and prevention of relapse in depression: empirical evidence. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 70, 275-287.
23 J. Teasdale (1999). Metacognition, Mindfulness and the Modification of Mood Disorders. Clinical Psychology and Psychotherapy, 6, 146-155.
24 S. Lazar, G. Bush, R. Gollub, G. Fricchione, G. Khalsa,, H. Benson (2000). Functional brain mapping of relaxation response and meditation. Neuroreport, 11, 1581-1585.
25 J. Schwartz (1999). First steps toward a theory of mental force: PET imaging of systematic cerebral changes after psychological treatment of obsessive-compulsive disorder. In A. Hameroff, D. Kaszniak, D. Chalmers, (Eds.), Toward a Science of Consciousness III. Cambridge Mass: MIT Press.
26 M. Musso, C. Weiller, S. Kiebel, S.P. Muller, P. Bulau, M. Rijtjes (1999). Training-induced brain plasticity in aphasia. Brain. 122, 1781-1790.
27 J. Schwartz, S. Begley (2002). The Mind & The Brain: Neuroplasticity and the Power of Mental Force. New York: HarperCollins.
28 Cfr. section on Contemplative Traditions. In F. Varela and J. Shear (eds,) (2000). The View from Within. Thorverton: Imprint Academic.
29 E. Thompson and F. Varela (2001). Why the Mind is not in the Head. Harvard: Harvard Univ. Press
30 H. Barendregt (1996). Mysticism and beyond, Buddhist phenomenology II. Eastern Buddhism new series, 29, 262-287; http://www.cs.kun.nl/~henk/BP/bp2.htlm
31 A. Deikman (1999). “I”= Awareness. In S. Gallagher and J. Shear (eds.). Models of the Self. Thorverton: Imprint Academic.

Pubblicato in origine giovedì 22 gennaio 2004

Tom Wolfe: BRAIN IMAGING

tomwolfebi2di TOM WOLFE

Essendo poco al passo coi tempi, avevo appena sentito parlare della rivoluzione digitale nel febbraio scorso, quando Louis Rossetto, cofondatore della rivista “Wired”, tenendo una conferenza al Cato Institute con addosso una camicia senza colletto e con i capelli lunghi come quelli di Felix Mendelssohn, simile in tutto e per tutto al tipico giovane visionario della California, ha annunciato l’alba della civiltà digitale del Ventunesimo secolo. Ha preso spunto da un testo di Pierre Teilhard de Chardin, scienziato e filosofo gesuita “controcorrente”, il quale cinquant’anni fa pronosticò che la radio, la televisione e i computer avrebbero creato una “noosfera”, una membrana elettronica che avrebbe ricoperto la terra e avrebbe collegato tutta l’umanità in un unico sistema nervoso. Tutto, secondo il filosofo, sarebbe diventato irrilevante: località geografiche e confini nazionali, ma anche i concetti tradizionali di mercato e di processo politico. Con la diffusione, a ritmo vertiginoso, di Internet da un capo all’altro del pianeta, ha annunciato Rossetto, il prodigioso evento modemico è quasi alle porte.
Può darsi. Ma qualcosa mi dice che nel giro di dieci anni, entro il 2006, tutto quanto l’universo digitale sembrerà cosa alquanto banale a paragone di una nuova tecnologia, che per il momento è solo un tenue bagliore che emana da un numero esiguo di ospedali e laboratori americani e cubani – sì, proprio cubani. Si chiama brain imaging, e probabilmente chi è disposto ad alzarsi di buon’ora per assistere all’alba veramente accecante del Ventunesimo secolo vorrà tenerlo d’occhio.
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Francisco Varela: la conoscenza nelle neuroscienze

[da Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche]

varelaL’argomento della nostra conversazione sarà la coscienza nelle neuroscienze. Ci può delineare la situazione del dibattito odierno su questo tema?

Vorrei cominciare con una breve retrospettiva storica, che secondo me è importante per capire quello che sta succedendo. Lo studio della coscienza come oggetto di scienza è collegato evidentemente con le neuroscienze cognitive, come si dice oggi. È un tema che come una malattia nevrotica è stato rimosso, è ritornato, è stato rimosso una seconda volta e adesso ritorna di nuovo. Ci sono periodi in cui viene messo completamente da parte e altri in cui suscita una vera e propria infatuazione. All’inizio del secolo è stato appunto una passione in Europa e in America, soprattutto in Germania, ma anche in America con William James, considerato che la psicologia, che a quel tempo era l’equivalente delle neuroscienze, era interessata essenzialmente al problema della coscienza. Ma era anche in voga quello che si chiama oggi metodo in prima persona, l’accesso fenomenologico, diretto, introspettivo ai contenuti della mia propria esperienza. Si può osservare che tra il 1890 e il 1930-1940 circa, l’interesse per lo studio scientifico della coscienza per ragioni diverse, che non avremo il tempo di sviluppare oggi, ha subito un’eclisse e mentre dopo la Seconda Guerra Mondiale la scienza europea è rimasta bloccata, per riprendere negli Stati Uniti, negli Stati Uniti si è avuto il ciclo inverso della rimozione totale del tema, ed è cominciato il periodo del comportamentismo, il periodo skinneriano, il periodo in cui solo oggetto di scienza era il comportamento. Il comportamentismo – per il quale lo studio scientifico della mente poteva prendere come oggetto solo la manifestazione esterna del comportamento, del movimento, la percezione, l’intensità della percezione ecc. – ha segnato un’epoca, ha dominato per un lungo periodo la psicologia certamente, ma anche lo studio dei sistemi neuronali. Per un lungo periodo di tempo – dunque non è stato un fatto episodico – il comportamentismo ha costituito una specie di dogma, che ha dominato gli ambienti scientifici degli Stati Uniti ed ha avuto un influsso anche in Europa. È vero che ci sono sempre delle eccezioni nella storia, ma adesso sto parlando delle tendenze dominanti. Quello che ci interessa sapere è che negli anni Sessanta, e all’inizio dei Settanta, comincia quella che si chiama oggi retrospettivamente la rivoluzione cognitiva.
Che cos’è la rivoluzione cognitiva? La rivoluzione cognitiva consiste nel dire che l’approccio puramente comportamentista non sembra sufficiente a rendere conto di tutto quello che si osserva nella vita degli animali e degli uomini, e bisogna fare l’ipotesi – l’ipotesi cognitivista, appunto – che da qualche parte ci siano strutture interne, contenuti propri alla vita della mente, processi mentali non riducibili a meri comportamenti, come la memoria, la pianificazione, l’associazione, e via di seguito. Così è cominciato negli anni Settanta con grande successo e un rapido sviluppo il ritorno ai contenuti della mente attraverso la nozione di “cognizione”. Dal termine “cognizione”, che è diventato centrale a quel tempo – stiamo parlando degli anni Settanta – ed è ancora oggi molto molto importante, prendono nome le scienze cognitive, in cui elementi provenienti dalla psicologia, dalla linguistica, e beninteso dalle neuroscienze, concorrono alla creazione di una disciplina che si sforza di studiare i contenuti cognitivi in quanto tali. Anche qui ci sono molte scuole, molte differenze, tendenze diverse: per esempio c’è un approccio che considera la cognizione come un sistema computazionale, come dei moduli computazionali; poi c’è un approccio più dinamico che si chiama connessionismo. Non intendo parlare di tutto questo. Resta comunque il fatto che quando ho cominciato a lavorare come ricercatore negli anni Settanta, quando ero attivo come ricercatore, era permesso, anzi era al centro dell’interesse lo studio della cognizione, mentre era vietato – dico bene: vietato -, scorretto, in un certo senso, parlare di coscienza. La coscienza restava come qualcosa di mistico, di pertinenza dei filosofi, più che un tema scientifico. È stato necessario attendere l’inizio degli anni Novanta, perché ancora una volta, in questo ciclo maniaco-depressivo della storia della scienza, tutt’a un tratto, per l’intervento di una serie di fattori che si potrebbero eventualmente analizzare, si facesse strada finalmente l’idea che si potevano apprendere molte cose sulla cognizione: come nasce un’idea di movimento, come si costruisce un ricordo, come funziona l’emozione e così via, tutti i moduli in cui si articola la vita cognitiva di un animale o di un essere umano. E finalmente fa la sua comparsa qualcosa che mancava ancora e che sta in relazione di prossimità assoluta con la vita dell’uomo: la coscienza, il vissuto. È nata allora quasi improvvisamente una nuova ondata di quella che si chiama oggi scienza della coscienza. E tutt’a un tratto è diventato accettabile, anzi auspicabile, parlare di coscienza e chiedersi qual è l’apparato cognitivo che rende possibile l’esistenza di un vissuto, l’esistenza di un mondo fenomenico [phénoménal]. Beninteso si parla sempre di animali – certi direbbero che [la coscienza] si trova soltanto nell’uomo, altri direbbero che è presente anche nei primati superiori. Ma, in tutti i casi, sotto determinate condizioni, l’apparato cognitivo, di cui sappiamo ormai parecchie cose, rende possibile l’apparizione di questo fenomeno unico nell’universo che è avere un vissuto, o per usare l’espressione del filosofo americano Thomas Nagel, autore di un famoso articolo: “Che effetto fa essere un pipistrello” (1974), potersi porre la domanda “che cosa significa essere qualcuno?” e, per implicazione, “che cosa vuol dire avere un’esperienza?”. Da questo momento comincia il gran boom della coscienza e nel boom della coscienza c’è una fashion, una fascinazione del mistero, per quello che è considerato lo zoccolo duro nello studio della coscienza, che non consiste nello spiegare un fenomeno o una capacità o un’abilità cognitiva qualsiasi, considerata difficile, ma essenzialmente a portata di mano per la ricerca scientifica. Il problema duro è: che cosa ci permette di dire che c’è un’emergenza della coscienza? Che cos’è la coscienza? Si vede bene che questo problema apre tutta una serie di discussioni filosofiche estremamente agitate, a volte addirittura violente. Si organizzano dei convegni. Per esempio il mese di aprile sono stato invitato a un grande congresso che costituisce un momento di incontro, biennale, su questi problemi, all’Università di Tucson in Arizona, sul tema “Verso una scienza della coscienza”, a cui hanno partecipato centomila persone e si sono confrontate tutte le opzioni filosofiche in un dibattito veramente assai largo.
Ma adesso vorrei passare a un altro capitolo.

Ci può dire quali sono le ipotesi dominanti sul tema della coscienza oggi?

Anche se il panorama è assai vasto, si possono individuare certe preferenze. Non è difficile immaginare le ipotesi dominanti, perché negli scienziati, nei ricercatori continua a prevalere uno spirito, una tendenza un po’ riduzionista – non lo dico in senso peggiorativo -, nel tentativo di ricondurre il problema della coscienza a una spiegazione puramente materialista. Questo è il programma delle neuroscienze, anzi delle neuroscienze cognitive. Parlo di neuroscienze cognitive perché non si tratta soltanto dello studio del cervello, come nelle neuroscienze, ma dei nuovi metodi di mappatura [imagerie] cerebrale. I nuovi metodi per studiare il cervello in diretta nell’uomo, in maniera non invasiva, permettono di porre questioni cognitive senza toccare la persona e al tempo stesso di avere accesso ai correlati neuronali. Dunque per la prima volta si può mettere un uomo sulla macchina IRM funzionale, dirgli: chiudi gli occhi e immagina il tuo cane che che passa per strada e simultaneamente registrare l’attività [cerebrale], vedere che risultato dà, e poi confrontarlo con il risultato che si ottiene mostrandogli la fotografia del cane per vedere che differenza c’è tra l’immaginare e il percepire. Tali questioni, che fino a qualche anno fa non potevano né meno essere poste, in quanto riguardano l’immaginazione e la vita mentale, sono assai vicine all’esperienza vissuta.

Quali tecnologie hanno permesso i cambiamenti nella sperimentazione avvenuti recentemente? Quali nuove tecniche, in particolare, li hanno resi possibili?

Quando ci si riferisce a queste tecniche, in generale si pensa a dei metodi di mappatura [imagerie] cerebrale, capaci di prendere il cervello come un tutto e di usare diversi tipi di segnali, che permettono di ricostruire l’immagine di quello che avviene all’interno del cervello, senza toccare la persona. Ce ne sono essenzialmente tre. La prima, la più nuova è la risonanza magnetica, la IRM [imagerie par résonance magnétique], e in particolare la IRM funzionale, che ci mette in grado di misurare i cambiamenti nell’alimentazione emodinamica delle diverse parti del cervello, che si accendono nella realizzazione di un compito. Si ottengono così le immagini che il pubblico ha già potuto vedere: un cervello con piccole macchie di colore, come un albero di Natale, che corrispondono per esempio all’atto di alzare un braccio o di avere un ricordo. Queste immagini erano impensabili fino a qualche anno fa. Secondo metodo: abbiamo immagini un po’ più pesanti, immagini ottenute con un’emissione di positroni, iniettando una sostanza che libera particelle radioattive. È come uno scanner, di quelli che si usano per le analisi cliniche, che serve a ricostruire l’emissione delle particelle e a restituire un’immagine dell’attività del cervello. E infine, last but not least, lo studio delle attività di superficie del cervello dispone oggi di apparecchi per fare magnetoencefalogrammi, che permettono di misurare i minuscoli campi magnetici che si trovano alla superficie della testa. Questi campi magnetici, estremamente precisi, mediante un trattamento matematico dei dati, forniscono un’immagine dinamica dei processi cerebrali, che possono essere osservati da un’angolatura nuova. La combinazione di questi tre sistemi, la magnetoencefalografia, il PET [Positron Émission Tomographie] e l’IRM [Imagerie par Résonance Magnétique], Mappatura di Risonanza Magnetica, è l’insieme delle tecniche che rendono possibile la nuova mappatura [imagerie] cerebrale. Evidentemente si continuano a praticare le tecniche in uso già da lungo tempo, come la registrazione delle cellule per cui si inseriscono degli elettrodi all’interno del cranio. Questa è la neuroscienza classica, che si avvale della neurochimica e della neuroanatomia. Le nuove tecniche invece appartengono alle neuroscienze cognitive, perché permettono appunto di porre questioni propriamente cognitive su un substrato neurologico o, più precisamente, neuronale estremamente concreto. La distanza tra coloro che lavoravano sul versante della psicologia e coloro che lavoravano sul versante delle neuroscienze è molto diminuita, è divenuta pressoché inesistente: si lavora contemporaneamente sui due versanti. È questo uno dei motivi per cui si assiste alla rinascita degli studi sulla coscienza, ed è anche la ragione per cui le neuroscienze hanno un ruolo centrale nei dibattiti sulla coscienza. Le persone più influenti, le voci più ascoltate sono proprio quelle come la mia e di molti altri che facciamo ricerche di laboratorio, operando sulla base delle neuroscienze cognitive, che sembrano fornire gli argomenti più diretti per legare l’esperienza e la coscienza al loro substrato biologico e cerebrale. Il problema è che la maggior parte dei miei colleghi scienziati, come dicevo poco fa, propendono per il programma riduzionista, e sono mossi dal desiderio di trovare la coscienza da qualche parte, di trovare i circuiti o il luogo della coscienza o, per usare la parola-chiave, i correlati neuronali della coscienza – in inglese the neuronal correlates of consciousness, per cui viene universalmente usata l’abbreviazione NCC – sempre in base alla speranza che i correlati neuronali della coscienza siano a portata di mano e che, magari con un duro lavoro, sia possibile trovarli. Per esempio uno scienziato del più alto livello, come Sir Francis Crick, premio Nobel, scopritore con Watson della struttura del DNA, che ha dedicato una vita allo studio del cervello, è convinto di aver identificato i circuiti responsabili dei fenomeni di coscienza, e ha scritto un libro intitolato L’ipotesi misteriosa, in cui si dice tra l’altro: abbiamo scoperto che noi, con la nostra vita, la nostra esperienza, non siamo che a bunch of neurones, un fascio di neuroni. Ecco un pensiero decisamente riduzionista. Non sto facendo una caricatura, riprendo le parole e le scelte di uno scienziato di grande statura, non di un tizio qualsiasi che non ha dato nessun contributo alla scienza. Dunque la nozione di un correlato neuronale della coscienza è veramente la posta in gioco essenziale. In che cosa consistono i correlati neuronali della coscienza? Sono stati trovati, o li dobbiamo ancora trovare? È possibile o impossibile? Questo è il dibattito fondamentale.

Qual è la sua posizione personale – che immagino antiriduzionista – in questo dibattito?

C’è una tendenza, un vettore riduzionista, in cui la nozione di NCC occupa veramente la maggior parte dei dibattiti e delle discussioni. Ma alcuni di noi – parlo a titolo personale, ma evidentemente non sono solo, anche se siamo sempre un po’ in minoranza – pensano che la questione posta in questi termini non ha soluzione, per la semplice ragione che il vissuto in quanto tale è per principio logicamente ed empiricamente irriducibile a una funzione neuronale. È quello che si chiama il problema duro della coscienza. Ciò che appartiene al vissuto ha uno statuto o una natura che non è spiegabile in termini di sistema neuronale. Se ne può trovare un correlato, ma questo correlato non cambia assolutamente il fatto che il lato fenomenico [phénoménal] resta quello che è, un’apparizione fenomenica [phénoménal], un accesso fenomenico [phénoménal] alla mia coscienza. Dunque bisogna mettere la discussione in termini diversi, tenendo presente il fatto che il dibattito sulla coscienza è cominciato e si è sviluppato per la maggior parte negli Stati Uniti, dove la filosofia della scienza dominante che si chiama philosophy of mind, è una filosofia di tipo analitico, che si interessa essenzialmente a dare buone definizioni delle categorie e degli oggetti, mentre il mio background filosofico è piuttosto quello della tradizione fenomenologica. Nella tradizione fenomenologica il punto di partenza è la natura del vissuto e la spiegazione materiale del mondo, la spiegazione delle relazioni tra l’elemento fenomenico[le phénoménal] e il mondo. Non si tratta in alcun modo di un tentativo di riduzione o di un tentativo di dissolvere l’elemento fenomenico [le phénoménal] nell’empirico, perché sarebbe un’impresa destinata a fallire. Qual è l’alternativa? L’alternativa è in un certo senso evidente – non direi banale, ma evidente – solo che vi si rifletta adeguatamente. Perché? Perché quando dico che la coscienza è il vissuto, non parlo di qualcosa che esiste solo nella mia testa. Non posso mettermi alla ricerca della coscienza a partire da un tratto di circuito cerebrale. La coscienza non appartiene, per così dire, a un gruppo di neuroni, appartiene a un organismo, appartiene a un essere umano, a un’azione che si sta vivendo. Non è proprio la stessa cosa. Che cosa vuol dire precisamente? Vuol dire che non si può avere una nozione della coscienza e della maniera in cui emerge, se non si prende in considerazione il fatto che il fenomeno della coscienza appare in un organismo ed è legato ad almeno tre cicli permanenti di attività. In primo luogo è connesso in permanenza con l’organismo. Si dimentica troppo facilmente che il cervello non è un fascio di neuroni sezionati in laboratorio, ma esiste all’interno di un organismo impegnato essenzialmente nella propria autoregolazione, nella nutrizione e nella conservazione di sé, che ha fame e sete, che ha bisogno di rapporti sociali. Alla base di tutto ciò che pertiene all’integrità degli organismi, c’è infine il sentimento dell’esistenza, il sentimento di esserci, di avere un corpo dotato di una certa integrità, appunto. Per un aspetto essenziale la coscienza rientra nell’attività permanente della vitalità organismica che, muovendosi sullo sfondo del sentimento di esistere, è continuamente permeata, attraversata, da emozioni, sentimenti, bisogni, desideri. In secondo luogo è evidentemente in collegamento [couplage] diretto col mondo, o in interazione col mondo, attraverso tutta la superficie sensorio-motrice. Io ho coscienza del bicchiere, nel senso che, quando vedo il bicchiere, dico: ho coscienza di questo bicchiere. Ma il bicchiere non è un’immagine nella mia testa, di cui io debba prendere coscienza dall’interno, Si è scoperto che il bicchiere – questa è buona neuroscienza – è inseparabile dall’atto di manipolarlo.L’azione e la percezione costituiscono un’unità e il mondo non esiste, se non in questo ciclo, in questo collegamento [couplage] permanente. Io amo dire che c’è un’interazione col mondo e che il mondo emerge solo grazie a questo collegamento [couplage] che è una fonte permanente di senso. È un’evidenza veramente massiccia, che si è costituita a partire dallo studio dei bambini, dalla neurofisiologia della corteccia motoria e sensoriale, e via di seguito. Ne potremmo parlare per diverse ore. Quando parlo di contenuti di coscienza, e dico di vedere un bicchiere, il volto di un amico, il cielo, non parlo di un tratto di circuito [circuiterie] neuronale che capta un’informazione dal mondo e ne fa un correlato della coscienza, sto parlando di qualcosa che è necssariamente decentrato [excentré], che non è nel cervello, ma nel ciclo, tra l’esterno e l’interno, non esiste che nell’azione e nel ciclo, nello stesso modo in cui il sentimento d’esistenza vive nel ciclo tra l’apparato neuronale e il corpo. Ma c’è ancora una terza dimensione, valida soprattutto per l’uomo – ma anche per i primati superiori – il fatto di essere strutturalmente concepiti per avere rapporti con i nostri congeneri, con individui della stessa specie, l’abilità innata, di un’importanza assolutamente centrale, che costituisce l’empatia, di mettersi al posto dell’altro, di identificarsi con l’altro. Il rapporto tra madre e bambino non è che una faccenda di empatia. Non soltanto nell’infanzia, ma per tutto il resto dell’esistenza, la vita, la vita mentale, la vita della coscienza, la vita del linguaggio o la vita mediata dal linguaggio, l’intero ciclo dell’interazione empatica socialmente mediato, io non posso separarlo da ciò che chiamo coscienza. Dunque ancora una volta non è all’interno della mia testa che tutto questo si svolge, ma in modo decentrato [excentré], nel ciclo. Il problema del neuronal correlate of consciousness è mal posto, perché la coscienza non è nella testa. Per esprimersi concisamente, la coscienza è un’emergenza che richiede l’esistenza di questi tre fenomeni, di questi tre cicli: con il corpo, con il mondo e con gli altri. I fenomeni di coscienza possono esistere solo nel ciclo, nel decentramento che esso comporta. Qual è in tutto questo il ruolo del cervello? Evidentemente il cervello ha un ruolo centrale, perché – la cosa si può dire molto bene in inglese, con una espressione difficile da tradurre – è the enabling condition, la condizione di possibilità.
Ripeto ancora una volta che la coscienza non è un segmento di circuiti cerebrali, ma appartiene a un organismo incessantemente coinvolto nei differenti cicli e che quindi è un fenomeno eminentemente distribuito, che non risiede solo nella testa. Il cervello da parte sua è essenziale perché contiene le condizioni di possibilità perché questo avvenga. È meraviglioso. La meraviglia del cervello è che permette per esempio il coordinamento sensorio-motore di tutta l’interazione, la regolazione ormonale che assicura il mantenimento dell’integrità corporea, e così via. Ma la nozione di neuronal correlates of consciousness in quanto tale è, per usare le parole di Alfred Norton Whitehead, “una concretizzazione inopportuna”. Non si può fare questa mossa senza escludere simultaneamente molti fatti importanti. Dunque la mia è una posizione antiriduzionista, ma al tempo stesso una posizione assai meglio fondata.
Questo riguarda la nozione di ciclo, ma come la coscienza emerga dal ciclo è una nozione assai fluida.

Lei parla di emergenza. Ci può spiegare meglio come funziona questo concetto nelle neuroscienze?

Sì, certo. In effetti la nozione di emergenza in tutto quello che ho detto e in tutto quello che penso riguardo a queste cose – né sono solo a pensarlo – è una nozione assolutamente centrale, in mancanza della quale si continua a restare, come accade nella maggior parte dei casi, in una visione dualista del genere body/mind, e non si arriverà mai a comprendere come un’attività di tipo sia cognitivo, sia cosciente possa essere collegata a una base materiale, senza essere ridotta a un’influenza materiale, come sia possibile un approccio non riduzionista alle basi materiali [della coscienza]. Come dev’essere intesa al nozione di emergenza? Ancora una volta bisogna gettare uno sguardo sulla storia, perché si tratta di una nozione che proviene dalla fisica, che, dall’inizio del secolo, si è sviluppata assieme alla fisica. Proviene dall’osservazione delle transizioni di fase o transizioni di stato o per dirlo più chiaramente di come si passa da un livello locale a un livello globale. Faccio un esempio banale. Sono in circolazione [nell’atmosfera] innumerevoli particelle d’aria e d’acqua e tutt’a un tratto per un fenomeno di autoorganizzazione – questa è la parola chiave – diventano un tornado, un oggetto che apparentemente non esiste, non ha vera esistenza, perché esiste soltanto nelle relazioni delle sue componenti molecolari. Nondimeno la sua esistenza è comprovata dal fatto che distrugge tutto quello che incontra sul suo passaggio. Dunque è un curioso oggetto. La nozione di emergenza ha avuto molti sviluppi teorici e in biologia si trova che i fenomeni di emergenza sono assolutamente fondamentali. Perché? Perché ci permettono di passare da un livello più basso a un livello più alto, all’emergenza di un nuovo livello ontologico. Quello che era un ammasso di cellule improvvisamente diventa un organismo, quello che era un insieme di individui può diventare un gruppo sociale, quello che era un insieme di molecole può diventare una cellula. Dunque la nozione di emergenza è essenzialmente la nozione che ci sono in natura tutta una serie di processi, retti da regole locali, con piccole interazioni locali, che messi in condizioni appropriate, danno origine a un nuovo livello a cui bisogna riconoscere una specifica identità. Qui la parola identità è importante. Quando si parla di una certa identità cognitiva, si pensa per esempio al fatto di un cane che si sposta, che decide se andare a destra o a sinistra, che ha un certo temperamento o un certo comportamento, una vita individuale. Si può dire benissimo che questa è la vita mentale, la vita cognitiva del cane: preferisce, sceglie, si ricorda ecc. ecc. Dove ha origine tutto questo? Nella visione delle neuroscienze l’origine è in quella serie di interazioni, dunque nelle sue percezioni-azioni, nel collegamento [couplage] con il mondo, che fa emergere il livello transitorio di un aggregato, da una specie di assemblaggio di tutti i moduli particolari che sono la percezione in quanto tale, l’azione in quanto tale, ecc. ecc. mettendoli insieme in una unità coordinata che sarebbe la vita cognitiva del cane. Qui c’è un salto. Per noi è lo stesso. La nostra identità in quanto individui è di una natura del tutto peculiare. Da un lato si può dire che esiste. Mi dicono: Buongiorno, Francesco, ed io sono capace di rispondere, di avere delle relazioni con gli altri. Dunque c’è una specie di interfaccia, di collegamento [couplage] col mondo, che dà l’impressione di un certo livello di identità e di esistenza. Ma al tempo stesso questo processo è di natura tale che appunto, come in tutti i processi emergenti, io non posso localizzare questa identità, non posso dire che si trovi qui piuttosto che là, la sua esistenza non ha un locus, non ha una collocazione spazio-temporale. È difficile capire che si tratta di una identità puramente relazionale e così nasce la tendenza a cercare i correlati neuronali della coscienza, per trovarli nel neurone 25 o nel circuito 27. Ma non è possibile, perché si tratta di una identità relazionale, che esiste solo come pattern relazionale, ma è priva di esistenza sostanziale e materiale. Il pensiero che tutto quello che esiste deve avere esistenza sostanziale e materiale è il modo di pensare più antico della tradizione occidentale ed è molto difficile cambiarlo.

Atomista, dunque?

Atomista se si vuole, ma soprattutto è un modo di vedere che si trova alla radice della filosofia materialista. Il fisicalismo più diffuso pretende che la sola esistenza è quella materiale. Ora il fatto interessante è che proprio in ambito scientifico e non filosofico, prima nella scienza e solo in un secondo tempo in filosofia, è stata scoperta la nozione di emergenza. Che si possano dire oggi molte cose, che si possano impiantare anche delle equazioni su queste transizioni da un livello all’altro, dal locale al globale, per cui de facto la vita è qualcosa di troppo, una maniera d’essere nella natura che non è sostanziale ma, per così dire, virtuale – efficace ma virtuale – è una rivoluzione scientifica della più grande importanza.

Accetta in questo caso di definirsi olista?

Il termine olista è superato, a mio avviso, perché risale all’epoca in cui c’è stato lo scontro tra l’idea che si potesse realizzare un programma riduzionista forte e una nozione filosoficamente motivata dall’esigenza di reagire contro quel programma. Qui non si tratta di olismo, ma di buona scienza. Si tratta di osservare una gran quantità di processi naturali, lo sviluppo e il funzionamento del cervello, l’organizzazione del sistema immunitario, l’organizzazione dei sistemi ecologici, che non possono essere capiti se non si prende in considerazione la dialettica tra i due livelli, che l’olismo non ha mai veramente compreso. Dunque il termine olismo non è veramente appropriato. Quando parlo di emergenza, parlo di qualcosa che è centrale nella ricerca scientifica contemporanea, anche se molti non ne hanno ancora colto l’importanza. È un problema assolutamente essenziale – e con questo chiudo questo piccolo a parte epistemologico – perché ciò che c’è di geniale nella nozione di emergenza è che, se da un lato un gruppo di neuroni in interazione con il mondo danno origine a una attività cognitiva, dall’altro, come in tutti i processi di emergenza naturale, una volta che ha avuto luogo l’emergenza di una nuova identità, quell’identità ha degli effetti, ha delle ricadute [causalité descendente] sulle componenti locali. Che cosa vuol dire? Vuol dire che il concetto di emergenza ci permette per la prima volta di pensare la causalità mentale. Il mentale non è più un epifenomeno, non è più una specie di fumo che esce dal cervello. Al contrario, si può dimostrare scientificamente, logicamente e anche matematicamente che l’esistenza, l’emergenza di uno stato mentale, di uno stato di coscienza, può avere un’azione diretta sulle componenti locali, cambiare gli stati di emissione di un neurotrasmettitore, cambiare gli stati di interazione sinaptica tra neuroni e così via. Questo vuol dire che c’è un vero va-e-vieni tra ciò che emerge e le basi che ne rendono possibile l’emergenza, che impone di fare una descrizione completamente diversa del posto della coscienza e della cognizione in generale – ma certamente della coscienza – nell’universo, non come livello fluttuante, ma come parte intrinseca della natura, come parte intrinseca alla dinamica del mondo naturale. È questo che mi piace e che ci fa avanzare rispetto alla perenne ripetizione di un dualismo che non porta da nessuna parte, senza dover ricorrere al riduzionismo, e senza che la coscienza perda il suo statuto fenomenologico [phénoménal], il suo statuto proprio.

Tuttavia è abbastanza diffusa l’idea che il compito essenziale della scienza, di qualsiasi scienza, è di fare previsioni, di prevedere i fenomeni. Lei è d’accordo? Lei pensa che il suo approccio, che si basa sulla nozione di emergenza e su altri concetti non riduzionisti, può realmente aumentare la capacità o la forza predittiva delle neuroscienze? In caso contrario, questo potrebbe costituire un’obiezione al suo approccio: si potrebbe sostenere che è più verisimile, ma che forse non contiene in definitiva una capacità di previsione più forte dell’approccio riduzionista.

È giusto porre questa domanda e spesso viene posta. Ecco come stanno le cose. Quando dominava il paradigma delle scienze fisiche, veniva qualcuno in un congresso a dire: ho una buona teoria per prevedere la traiettoria degli elettroni. Gli veniva chiesto allora di fare una previsione, di prevedere la traiettoria di un elettrone e mostrare di conoscerne esattamente la posizione [in un dato momento]. Eccellente metodo fondato sull’anticipazione e la previsione. La fisica, con Einstein e la teoria della relatività, lo ha sfruttato in modo geniale. Ma attenzione! Sarebbe un riflesso puramente fisicalista pensare che questo è il solo metodo con cui la scienza procede. Perché? Perché appunto nel campo delle scienze della natura diverse dalla fisica, per esempio nelle scienze del vivente, non è questo che ci interessa. Poniamo che io dica: ho una perfetta comprensione di come questo cane cammina. Che interesse ha prevedere in che istante muoverà la zampa destra, se nell’istante t o t1. Sembra qualcosa di assolutamente banale. Qual è la prova che ho ragione, che la mia teoria è buona? È il fatto che posso ricostruire un cane capace di muoversi. Ci sono nella scienza due approcci: l’approccio predittivo e quello che possiamo chiamare l’approccio costruttivo. Per avere ragione dovete essere in grado di costruire un apparecchio capace di movimenti come quelli del cane. È qualcosa di assai più convincente che anticipare il movimento della zampa destra del cane. Questo è il punto: non bisogna dimenticare che è questo il modo con cui procede oggi la scienza. Si procede così nell’interfaccia tra le neuroscienze e [le teorie del]l’intelligenza artificiale. L’intelligenza artificiale è in gran parte la prova costruttiva delle teorie nate nel campo delle neuroscienze: per esempio, fare dei robots capaci di orientarsi in un mondo. Gli scienziati che costruiscono questo tipo di automi si ispirano alla biologia, ma la prova che la teoria è buona è che il robot cammina. Non è interessante tanto prevedere il punto esatto in cui effettuerà un certo movimento, quanto che la capacità qualitativa di compierlo emerga e si manifesti. Dunque la prova mediante l’emergenza, la prova dell’emergenza è la costruzione, non la previsione.

Ma si può veramente costruire un vivente, – dato che un robot non è un vivente – si possono ricostruire realmente degli organismi viventi a partire dall’inorganico?

Assolutamente sì. Ci siamo molto vicini, molto, molto vicini, precisamente perché esistono teorie dell’emergenza della cellula. Ci sono in questo campo risultati recenti assolutamente straordinari, come la produzione di cellule di sintesi, diverse dalle cellule storiche perché impiegano componenti diverse. Per la stessa ragione si può tentare di riprodurre tutto lo sviluppo di un animale multicellulare, sulla base di cellule disaggregate. Se si ha una buona teoria dell’emergenza, della forma di un embrione, la si può applicare. È sempre esattamente lo stesso ragionamento e dunque in questo tipo di prova non c’è assolutamente meno rigore che nel vecchio tipo di prova che è proprio della fisica. Dunque si tratta veramente di cambiare campo.

Il costruttivismo è dunque una conferma del determinismo più stretto, o al contrario fa posto, come mi sembrava di aver capito all’inizio del suo discorso, a una specie di indeterminismo evenemenziale?

Tutto dipende da che cosa si intende con “determinismo”. Se “determinismo” vuol dire che si conoscono le leggi fondamentali dell’universo, che ci permettono di comprendere come certi fenomeni – tra cui mettiamo la coscienza – emergano, allora sì effettivamente da questo punto di vista si tratta di un approccio determinista. Ma non è determinista nel senso laplaciano del termine, perché la previsione non è interessante e né meno possibile. Sono fenomeni complessi: la maggior parte dei fenomeni emergenti sono detti “non lineari”, perché funzionano appunto su basi che non permettono la previsione, sono di tipo caotico. In questi casi la previsione in quanto tale non è interessante. Io non posso calcolare quello che un dato individuo penserà in un istante successivo, perché questo fa parte appunto della logica, della legge di emergenza del suo pensiero.

Lei ha detto di essere stato influenzato filosoficamente dalla fenomenologia, ed ha accennato ad una specie di va e vieni tra fenomenologia e neuroscienze. Ci può spiegare meglio la sua storia intellettuale?

Sì. Evidentemente quando ci si interessa, come mi sono interessato io, a questo genere di problemi, concernenti la cognizione e la coscienza, si è sempre sostenuti anche da un interesse filosofico. Assai presto ho subito una marcata influenza della filosofia continentale e in grande misura proprio della fenomenologia…

… per questo ha scelto di lavorare in Francia, piuttosto che negli Stati Uniti o in Inghilterra?

Ci stavo arrivando. Dopo mi sono recato negli Stati Uniti per completare la mia formazione e lavorando parecchi anni in quel paese mi sono reso conto che l’orientamento continentale o, se si preferisce, europeo, che avevo appreso nella mia giovinezza, non era l’unico. Ho dovuto iniziarmi a un approccio completamente diverso alla filosofia, che gli americani chiamano philosophy of mind, filosofia della mente, una filosofia di tipo francamente analitico, improntata a uno spirito del tutto diverso, in antagonismo, in guerra con la filosofia continentale. Ci è voluto del tempo perché mi abituassi a questo tipo di pensiero e, man mano che il tempo passava, mi sono reso conto che quel tipo di filosofia non mi si addiceva affatto, anche se a quel tempo era francamente dominante nel campo delle scienze cognitive. I filosofi, i grandi filosofi, che dominavano la scena, Daniel Dennett, John Searle, venivano dalla tradizione della philosophy of mind, che a me non diceva molto, anche perché ormai avevo deciso di lasciare gli Stati Uniti per venire in Europa. Una volta installato in Europa, mi sono accorto che era effettivamente molto più interessante per me a livello dei miei incontri, delle mie partnership, quella filosofia che non avevo trovato negli Stati Uniti, dove lavoravo molto più solo. C’era infatti in quel momento una vera rinascita della fenomenologia. La fenomenologia era stata considerata per anni dal pubblico – non certo dagli studiosi, ma dal pubblico – come una filosofia che consisteva soprattutto nel commento di testi specialistici, di libri polverosi, che nessuno leggeva. Ma in realtà la fenomenologia è soprattutto – a partire da Husserl, che ne è il fondatore – uno stile di lavoro, una maniera di lavorare completamente aperta a nuovi dati, a nuovi orientamenti. Bisogna sapere che c’è tutta una nuova generazione, che prende la fenomenologia come uno strumento di lavoro, per lo studio di questioni cognitive …

… nella scienza?

… nella scienza, appunto. Perché? Perché serve, è di aiuto. Mi permetta di fare un esempio. Si parlava prima della riconcettualizzazione della percezione, degli oggetti del mondo. Fino a poco tempo fa si aveva un’idea rappresentazionista della percezione. Là c’è il bicchiere e dentro di me ho un’immagine. L’idea fondamentale che attualmente abbiamo di questa esperienza è di una inseparabilità dell’atto e della percezione. Adesso si scopre, tra l’altro che Husserl e Merleau-Ponty hanno esaminato a lungo questi argomenti e hanno estesamente tematizzato l’inseparabilità di percezione e di azione. Se si legge, per esempio, quello straordinario libro di Husserl che s’intitola Ding und Raum, Cosa e spazio, dove descrive in tutti i particolari il modo in cui le cinestesie del corpo vanno a costituire un oggetto, si vede l’incredibile finezza d’osservazione, propria del fenomenologo, con cui mostra cose che oggi vengono confrontate – e concordano perfettamente – con i risultati delle neuroscienze. Lo stesso non si può dire dei filosofi analitici, che si sono formati su un’analisi puramente esterna e non sono mai entrati in un confronto diretto con i dati empirici. Ne consegue che c’è sempre più la tendenza a fare della fenomenologia una fonte di riflessione, tanto più se ci si interessa alla coscienza, che è per così dire lo zoccolo duro della fenomenologia, alla descrizione delle strutture della coscienza, alla maniera in cui, con il metodo della riduzione fenomenologica – che non ha niente a che vedere con il riduzionismo fisicalistico -, con il metodo di osservazione e di analisi fenomenologica, si può cogliere l’elemento centrale nelle strutture dell’esperienza umana. Oggi nel boom della coscienza, delle scienze della coscienza, c’è un ritorno molto forte al metodo “in prima persona”, che un tempo si chiamava introspettivo, metodo capace di prendere in considerazione i dati del vissuto personale, per portare avanti un esperimento. È quello che si fa nei laboratori. A chi ha questo tipo di interessi la fenomenologia viene incontro in laboratorio come partner naturale della sua ricerca.

Bisogna ricordare che Husserl ha scritto anche La crisi delle scienze europee. Lei pensa che le scienze europee possono superare la crisi denunciata da Husserl. Lei pensa che il progetto delle neuroscienze cognitive sia più forte?

Ascolti. Husserl è un pensatore multiforme e certe sue opere sono state pubblicate solo recentemente. C’è ancora una grande quantità di inediti, e secondo me, se si legge un libro come Analisi delle sintesi passive, che è stato pubblicato nel 1966, si può evitare di prendere alla lettera il pessimismo dell’Husserl che scrive La crisi. Io non sono – e lo stesso vale per la nuova generazione di coloro che si interessano alla fenomenologia – un Husserl’s scholar. Husserl è un uomo che detto delle cose geniali, che fatto dei lavori geniali, ma ci sono molte altre cose sue meno interessanti. Non importa. Quello che importa è il suo stile, l’impulso che ha impresso alla ricerca, a cui altri contribuiscono. Dunque non si può essere d’accordo o in disaccordo con tutto quello che ha detto, perché ha detto tante di quelle cose che c’è spazio per l’uno e per l’altro atteggiamento. Bisogna mettere da parte l’idea che i filosofi siano monolitici. Secondo me filosofi come Husserl o Merleau-Ponty devono darci delle ispirazioni per il nostro lavoro.

Allora Lei crede che c’è una rinascita della fenomenologia anche nelle scienze? In quale dominio scientifico si verifica, secondo Lei, questa rinascita o è in qualche modo disseminata?

Questo rinnovamento della fenomenologia, che si interfaccia con la scienza, riguarda molti campi, ma in modo prioritario il campo delle scienze cognitive e lo studio della coscienza.

Da per tutto?

Sia negli Stati Uniti che in Europa. Sono stati pubblicati recentemente dei libri, si sono tenuti convegni e seminari a Parigi, dunque c’è già una letteratura abbastanza considerevole. La fenomenologia si interfaccia anche con la matematica e la fisica matematica. È un fatto, in un certo senso, comprensibile. Ma la sua penetrazione nell’universo delle scienze cognitive è molto interessante, e sta cambiando i dati del dibattito. Adesso nei convegni americani si sente dire: bisognerebbe invitare anche scienziati con un background fenomenologico. Si comincia a capire che la filosofia della mente non è l’unica opzione, e che la sua egemonia è stata scossa. È una cosa che fa riflettere. I giovani sono sempre più interessati.

Ci sono fenomenologi viventi a cui si sente vicino?

Sì, ce ne sono.

Lei ha citato finora solo Husserl e Merleau-Ponty, che sono …

… dei classici.

Potrebbe citarne qualcuno di più recente, di più “cutting edge”?
Ce ne sono di molto noti come Eduard Marbach, in Svizzera, di formazione husserliana, che si interessa molto all’interfaccia e che ha scritto su questo tema un libro molto interessanteintitolato Mental representations. Su un’altra linea, di un’altra scuola è l’americano Hubert Dreyfus, che ha avuto un grande successo per le critiche che ha mosso, da un punto di vista fenomenologico, alle scienze cognitive. Tra i giovani, c’è un tipo negli Stati Uniti che mi sembra già molto importante. Si chiama Shaun Gallagher, studioso sulla trentina, con una buona formazione come fenomenologo e al tempo stesso come filosofo analitico, che conosce molto bene il campo della ricerca empirica ed è molto attivo. Un giovane filosofo canadese con cui lavoro molto, Evan Thompson, ha anche lui una doppia formazione, come fenomenologo e come filosofo analitico, ma conosce anche i problemi della scienza. Infine c’è un giovane filosofo danese molto competente, Dan Zahavi.