di EDGAR ALLAN POE
[da Le Avventure di Gordon Pym, Oscar Mondadori, traduzione di Elio Vittorini]
Già da diverso tempo ero convinto che tosto o tardi saremmo stati costretti a ricorrere a questa tragica soluzione e segretamente avevo deciso in cuor mio di patire mille morti piuttosto che assoggettarmi a un così barbaro rimedio. Né la mia decisione era stata in alcun modo indebolita dalla terribile fame che mi tormentava.
Poiché Peters e Augustus non avevano inteso la proposta di Parker presi quest’ultimo in disparte e, pregando mentalmente Iddio di concedermi la forza di dissuaderlo dal suo spaventevole proposito, discussi a lungo con lui, scongiurandolo in ogni modo, implorandolo in nome di quanto aveva di più sacro, esortandolo con tutti gli argomenti suggeriti dall’estremità del caso a desistere dalla sua idea senza più farne cenno coi compagni.
Ascoltò tutto ciò che gli dissi senza tentar di ribattere, e già incominciavo a sperare di averlo persuaso; ma non appena ebbi concluso mi rispose che si rendeva perfettamente conto della verità delle mie argomentazioni, e che il dover ricorrere a un mezzo tanto drastico era l’alternativa più orrenda che mente d’uomo potesse contemplare.
Ma ormai aveva resistito al di là di ogni limite terreno; era inutile che tutti perissimo allorché la morte di uno solo poteva quasi sicuramente salvare i superstiti. Soggiunse quindi che mi risparmiassi la fatica d’insistere, che tanto egli aveva preso la propria decisione ancor prima che avvistassimo il veliero; solo il vederlo sopraggiungere gli aveva impedito di manifestare prima il suo proposito.
Tornai a pregarlo che se proprio non voleva a nessun costo rinunciarvi, attendesse almeno un giorno ancora, nella speranza che sopraggiungesse un’altra nave; e tornai a esporgli tutti quei ragionamenti che mi parevano più atti a esercitare qualche influenza sulla sua natura d’uomo rozzo. Per tutta risposta mi disse che aveva parlato solo quando proprio aveva capito di non farcela più; che non poteva seguitare a sopravvivere senza cibo di sorta e che pertanto se avesse atteso un altro giorno sarebbe stato troppo tardi, per quel che lo riguardava almeno.
Rendendomi conto che non potevo smuoverlo con le buone assunsi a questo punto un tono diverso e gli ricordai come io avessi sofferto meno di tutti dei mali che ci erano capitati; pertanto in quel momento le mie energie erano migliori delle sue e di quelle di Peters e di Augustus; perciò ero in grado di usare la violenza pur di imporre la mia volontà, qualora fosse stato necessario; se dunque si fosse ostinato a comunicare agli altri le sue intenzioni cannibalesche non avrei esitato a scaraventarlo in mare. Non appena ebbi proferito queste parole mi si avventò alla gola, ed estraendo un coltello si provò più volte, ma invano, di colpirmi allo stomaco, gesto forsennato che solo la debolezza estrema in cui si trovava gli impedì di portare ad effetto. Dal canto mio, in un impeto irresistibile di collera lo spinsi verso la murata con la ferma intenzione di buttarlo in mare. Fu salvato all’ultimo istante dall’intervento di Peters che sopraggiunse lesto a separarci, chiedendoci il motivo della nostra lite, motivo che Parker si affrettò a rivelargli prima ch’io avessi il tempo d’impedirglielo.
L’effetto prodotto dalle sue parole fu ancora più spaventoso di quanto io avessi preveduto. Sia Augustus che Peters, i quali a quanto pare da tempo covavano lo stesso orrendo proposito espresso da Parker per primo, si unirono tosto a lui, insistendo che fosse subito attuato. lo avevo sperato che a uno almeno di loro due sarebbe rimasta sufficiente forza d’animo per schierarsi dalla mia nell’opporsi all’esecuzione di un disegno tanto mostruoso, perché ero certo che con l’aiuto o dell’uno o dell’altro avrei saputo impedirne il compimento. Deluso in questa speranza mi era indispensabile badare alla mia incolumità, perché un’ulteriore resistenza da parte mia sarebbe stata sicuramente ritenuta da quegli uomini ridotti al colmo dell’esasperazione una scusa per rifiutarmi di recitare la mia parte nella tragedia che tra poco si sarebbe svolta.
Dissi dunque che acconsentivo volentieri alla proposta; solo chiedevo circa un’ora di tempo per permettere alla foschia che ci si era addensata intorno di diradarsi, caso mai fosse nuovamente apparso il veliero che avevamo scorto poco prima. A stento ottenni dai miei compagni il breve differimento richiesto. Come avevo previsto {si stava rapidamente levando una forte brezza) la nebbia si dileguò entro l’ora, ma, non scorgendo alcuna nave, ci preparammo a tirare a sorte.
È con la più grande riluttanza che mi accingo a descrivere l’orrenda scena che seguì; scena che nei suoi più minuti particolari nessun avvenimento successivo ha più potuto cancellare sia pure debolmente dalla mia memoria e il cui ricordo terribile amareggerà per sempre ogni istante della mia vita. Mi sia concesso di sorvolare su questa parte del racconto con tutta la rapidità consentita dalla natura degli avvenimenti di cui dovrò parlare. Il solo mezzo per mettere in atto l’abominevole partita a dadi, nella quale ognuno di noi doveva decidere della propria sorte, non poteva essere che il sistema delle pagliuzze. Servirono a questo scopo alcune piccole schegge di legno e fu convenuto che sarei stato io a tenerle. Mi ritirai a un’estremità della nave, mentre i miei disgraziati compagni si mettevano in silenzio dall’altra dandomi di spalle. Il momento più spaventoso da me passato nel corso di questo dramma orribile fu mentre ero così occupato a disporre le sorti. Sono poche le situazioni in cui un uomo non senta un profondo desiderio di conservazione, desiderio che tanto più cresce quanto più fragile è il filo che lo tiene legato alla vita.
Ma ora che l’orrore truce, irrevocabile, muto della bisogna nella quale ero impegnato {tanto diversa dai tumultuosi pericoli della tempesta o dal graduale, lento approssimarsi dello spettro della fame) mi consentiva di riflettere sulla scarsissima probabilità che avevo di sfuggire alla i più spaventosa delle morti {in quanto morte per la più bassa delle necessità), ogni particella di quell’energia che per tanto tempo mi aveva sorretto si dileguò come volano via leggere le piume dinanzi al vento, lasciandomi preda imbelle del più abietto, del più miserevole terrore. A tutta prima non fui neppure in grado di spezzare e mettere insieme le minuscole schegge, che le dita si rifiutavano nel modo più assoluto di ubbidirmi, mentre un tremito violentissimo mi scuoteva le ginocchia. Immaginai mille inattuabili espedienti per sottrarmi a quel gioco orrendo. Mi vedevo cadere in ginocchio davanti ai compagni, supplicandoli di risparmiarmi, oppure nell’atto di balzar loro addosso e ucciderne uno, rendendo così inutile l’estrazione a sorte… insomma, mi si affacciarono alla mente le idee più pazze, pur di non portare a termine il compito che mi era stato assegnato. Finalmente, dopo essermi perduto per un pezzo in siffatti vaneggiamenti da mentecatto, fui richiamato alla realtà dalla voce di Parker che mi spronava a toglierli al più presto dalla terribile angoscia che li divorava. Ma neppure allora seppi decidermi a metter subito insieme le schegge, seguitando invece ad arzigogolare ogni sorta di stratagemmi per indurre uno dei miei compagni d’agonia a estrarre la pagliuzza più corta, poiché era stato convenuto che sarebbe stato sacrificato per la salvezza degli altri tre quello di noi che avesse estratto dalla mia mano la più piccola delle quattro schegge. Prima di condannarmi per questa apparente mancanza di umanità bisognerebbe essersi trovati in una situazione analoga alla mia.
Alla fine non mi fu più possibile tergiversare e col cuore che quasi mi scoppiava nel petto avanzai verso il castello di prua dove attendevano i miei compagni. Tesi la mano; Peters tirò per primo, e fu libero… La sua almeno non era la più corta, cosicché ora le mie probabilità di salvezza diminuivano. Raccolsi tutto il poco coraggio che mi restava e passai le Sorti ad Augustus. Anch’egli tirò senza esitare, e anch’egli si trovò libero; adesso, ch’io vivessi o morissi le probabilità erano esattamente pari. In quell’istante m’invase il petto tutta la furia sanguinaria di una tigre e sentii per Parker, povero essere umano come me, l’odio più intenso, più ferocemente diabolico. Fu però un sentimento di breve durata; poi, con un fremito convulso, chiudendo gli occhi, gli porsi le ultime due schegge rimaste. Passarono almeno cinque minuti prima ch’egli si decidesse a tirare, e in quella pausa d’inenarrabile incertezza stetti sempre così, a occhi chiusi. Alla fine mi sentii rapidamente strappare di mano una scheggia. Dunque la sorte era stata tratta, ma ancora non sapevo se pro o contro di me. Nessuno parlava, ne io osavo guardare il pezzetto di legno che mi era rimasto in mano. Alla fine Peters mi toccò un braccio, costringendomi ad aprire gli occhi. Immediatamente compresi dall’espressione di Parker che io ero salvo e lui condannato. Anelante, caddi sul ponte privo di sensi.
Rinvenni giusto in tempo per assistere al consumarsi della tragedia proprio col sacrificio di colui che ne era stato l’artefice principale. Non oppose alcuna resistenza e pugnalato alla schiena da Peters cadde morto sul colpo. Preferisco non indugiare sull’orribile pasto che subito seguì. Vi sono cose che si possono immaginare ma che le parole non hanno l’efficacia di esprimere, non riuscendo a rendere adeguatamente l’orrore indicibile della realtà. Dirò solo che dopo aver placato un poco la rabbiosa sete che ci divorava col sangue della vittima e averle di comune accordo mozzato le mani, i piedi e il capo che gettammo insieme alle viscere in mare, divorammo il resto del corpo pezzo per pezzo durante i quattro incancellabili giorni di quel terribile mese, e precisamente il diciassette, il diciotto, il diciannove e il venti.