Milo De Angelis: QUELL’ANDARSENE NEL BUIO DEI CORTILI

I muri sono il luogo di un racconto minore
dove si parla di sangue e di anemoni, di sangue
inspiegabile che bagna la parola, qualcosa
che ci getta negli oceani e nel peso
nudo del lampo, ma poi ritorna qui, alla radice
di una stanza e di una donna,
quell’idea sovrana e incenerita
che ci ha tenuti per un verso.

* * *

Via Selvanesco

Fu il rosa tenue del cielo, la salmodia
dei corpi vivi nella risaia, fu quel
presente di spighe
che la terra sprigionava
per noi, pattuglia di due anime:
come rintocca quell’ ostinato
silenzio dei crepuscoli,
tu ritorni da un refolo di vento
Con una sciarpa viola ti alzi
dalla risaia e mi raggiungi, drastica presa
che tiene congiunti: c’è ancora un grido
tra i chicchi incantati e consenzienti
e ogni cosa per noi sembra creata.

* * *

Strada dei tormenti, l’amore insiste.
Restammo vicino al passaggio a livello.
Tu perdevi i tuoi cieli. Come rispondere
all’immenso? Eravamo una frazione della voce,
sillabe disperse. Blocchi di partenza. Scacco
del respiro. L’estate affondò nell’asfalto.
Solo ora, come un grido, mi raggiunge.

Distruzione, tu mi hai generato.

* * *

Con l’esametro di un gatto bianco e nero
e le alberelle serene nella pioggia,
il tuo sguardo diventava astronomia
e tutto era vasto e fuori tempo e tutti
gli incubi, per un intero pomeriggio,
mi lasciarono.

* * *

«QUELL’ANDARSENE NEL BUIO DEI CORTILI», LE NUOVE POESIE DI MILO DE ANGELIS

di Raffaele Manica (dal Manifesto)

L’enigma di De Angelis

Un’occasione, questa raccolta, per fare i conti con una parabola poetica magistrale che dall’euforia degli esordi («Somiglianze», 1976) giunge a una quasi desertificazione, a un vuoto ossificato che ricorda certe periferie di Hopper o Sironi

Primo suo libro a vedere la luce dopo la raccolta delle poesie nella benemerita serie «Poesia del ‘900» degli Oscar (2008, con un’introduzione di Eraldo Affinati) e a cinque anni dall’ultimo titolo (il magnifico Tema dell’addio, 2005), Quell’andarsene nel buio dei cortili (Mondadori, «Lo Specchio », pp. 83, € 14,00) consente su Milo De Angelis un discorso che ha a disposizione trentacinque anni di poesia e, compreso il presente, sette libri di versi, a partire dal 1976 dell’esordio in volume del poeta venticinquenne, con Somiglianze.

Si dice, e non si dovrebbe: sembra ieri che il primo poeta nato negli anni cinquanta raggiungeva una sua notorietà per quel libro pubblicato da Raboni nella collana di poesia di Guanda: e proprio ametà di quegli anni settanta che solo da dopo si sarebbero visti comeun decennio di poesia articolata nei modi più diversi, ad esempio nell’antologia Poesia degli anni settanta curata da Antonio Porta, e con introduzione di Enzo Siciliano, pubblicata da Feltrinelli nel 1979 (con un paesaggio già visibile in Il pubblico della poesia di Berardinelli e Cordelli, 1975). La poesia usciva di lì come affare di nuovo rigoglioso ma caotico, e l’intreccio di voci era difficilmente districabile: fatto di qualche fascino perché sempre di qualche fascino sono le difficoltà. Alla fine del decennio (1980), l’altro esordio precoce (a ventitré anni) di un poeta nato negli anni cinquanta fu Ora serrata retinae di Magrelli, di sentire tutt’altro, forse opposto, rispetto a De Angelis, che era stato tuttavia il battistrada verso una percezione della poesia dopo coloro che erano ormai considerati i grandi maestri: si ricordi solo che erano in attività il vecchio Montale, con i suoi ultimi versi, e Caproni, Zanzotto e tanti altri, già riconosciuti in una antologia destinata a diventare nel bene e nel male canonica, i Poeti del Novecento di Mengaldo (1978).

Con una certa approssimazione si può dire che, oltre la lezione dei maestri, con la generazione di De Angelis si apriva a voci nuove la stagione del secondo Novecento, valga quel che può l’etichetta, appunto approssimativa. La generazione dei nati negli anni cinquanta, che magari, in taluni poeti, avrebbe messo a vista esordi più tardi però notevoli per la scansione meno inesatta a preparare una prima mappa del territorio: ai nomi (pur da discutere) antologizzati da Giovanardi e Cucchi per Poeti italiani del secondo Novecento (1996: Anedda, Benedetti, D’Elia, Marcoaldi, Mussapi, Santagostini, Valduga, Vitale, oltre ai nati nei sessanta Dal Bianco, Riccardi, Rondoni) devono aggiungersi senz’altro quelli di poeti per stile o sentire pur così diversi tra loro come Silvia Bre, Claudio Damiani, Fabio Pusterla.

Sulla soglia dei sessanta anni di De Angelis, a che punto è la sua poesia? La precocità è diventata maturità, questo è fin troppo ovvio: ma vuol dire anche che taluni fatti osservabili con difficoltà all’inizio dovrebbero essersi messi in una prospettiva più agevole; e vuol dire che alcune sollecitazioni derivate da quei versi dovrebbero ormai far parte della comunità dei poeti, almeno relativamente alla generazione che si è nominata, quella dei nati negli anni cinquanta; ma si tratta di uno scrutinio che avrebbe bisogno di schedature non ancora pronte. E tutto ciò che si può fare, allora, è riepilogare il viaggio di De Angelis e vedere dove è arrivato.

Nell’introduzione all’Oscar, Affinati elencava poeti dichiaratamente sentiti vicini e lontani da De Angelis; i lontani: Mallarmé, Valéry, Swinburne, Yeats, Jiménez, D’Annunzio; i vicini: Baudelaire, Dylan Thomas, Seferis, Celan, Cvetaeva, Campana, Luzi. Aggiungiamo anche che, per Affinati, ognuna delle opere di De Angelis ha realizzato «un’esecuzione di quel formidabile esordio, richiamandolo a distanza con segnali inequivocabili»; un esordio, Somiglianze, portato da un’«euforia fantasmatica». Possiamo forse dire che i fantasmi restano per quanto sia dismessa l’euforia e che i luoghi attraverso i quali si muovevano e davano attestato di presenza sono passati da una vividezza di sentire pressoché febbrile a una quasi desertificazione, da un sentimento a suo modo colmo, pieno, a un vuoto ossificato: un vuoto urbano, con ristoranti e bar, ma soprattutto con luoghi da suscitare il ricordo di certe periferie di Hopper o Sironi, di case popolari tessute da citofoni, di buio senza notte, di luci artificiali: con «un gesto qualunque, un sabato, / in un centro commerciale» (Mi attendono); il vuoto del «grande paese di Milano» abitato da «milioni di fantasmi» (Ciò che vedo); il vuoto-labirinto di «un taxista che percorre i viali / di Milano» (Rintocca il motivo); e il labirinto «tra le tangenziali / dove ogni condominio affonda nel suo inferno» (Si spalancò). E tutto è come un teatro dal quale siano scomparsi non i recitanti ma la recita stessa: « allora mi chiamò un drappello / di anime sole scostarono le tende bisbigliando, / si avvicinarono alle grandi vetrate del tempo / una salmodia di numeri e vento quello fu l’atto /il solo atto consentito / quell’andarsene dei cortili nel buio», dice, tra le esitazioni e le sospensioni – un discorso che appena si accenna e già si vede quasi da se stesso costretto a spegnersi, a tacere –, la poesia dalla quale è tratto il verso posto a titolo.

E delle figure sportive, replicanti gesti primordiali, che Affinati aveva rintracciato come costanti di De Angelis, che ne è? Che ne è di ciò che adesso si chiama «vortice da stadio» (Nessuno riposa)? «Ecco l’acrobata della notte, il corpo / senza nulla, un’incisione / nell’aria, un puro scoccare / di fosfori: gettò il suo smeraldo / all’ultima fortuna, si avvicinò ai sepolti, / indicò a ciascuno la strada. La terra appartiene / a chi l’ha abbandonata », dice una delle poesie che si chiudono come fossero epigrammi pronti a utilizzare frasi antiche in una chiave che le rovescia in verità; e anche: «la bella epopea, il peso mortale di un pallone » (Vicina all’anima), senza poter capire «se l’incrocio dei pali / è legno o leggenda» (Non ho saputo); o «due centimetri, tra il corpo e l’asticella, / che dà luce a ogni applauso» (L’infinito appare).

Nell’elenco dei poeti cari manca Rimbaud, e un motivo ci sarà. La visionarietà della quale possono essere indiziati alcuni tratti di De Angelis è, contrariamente a ogni apparenza, una visionarietà controllata e dentro il tempo: e ciò, con il tacere su Rimbaud, spiega anche la scelta di Baudelaire. Così la coppia Thomas-Celan dice forse dell’enigmaticità tipica di De Angelis: non tanto, si badi, che le sue poesie siano enigmatiche e non di rado di arduo accesso; ma che l’enigma è il suo modo di rapportarsi alla realtà delle cose e alla realtà della poesia, perché «tutto / è consegnato / all’evidenza della fine » (È tardi), ed enigma solo (si chiama in vari modi; per esempio in 19 marzo: «oscure severità» o «innocenze sibilline») è ciò che sta di fronte a quell’unica e certa evidenza, anche quando sembra che possa aprirsi uno squarcio («tutti / gli incubi, per un intero pomeriggio, / mi lasciarono, Scala F; «e ogni cosa per noi sembra creata», Via Selvanesco, ancora). Così da questa poesia affiorano cose chiare e Ädolorosamente familiari, ma avvolte nel buio e rese stranite. Ogni cosa è un enigma che reca in sé l’enigma di tutte le cose, e c’è l’enigma degli enigmi, infine, e come sempre: «l’unica data che mi osserva e mi aspetta, / l’unica data » (È entrato qui); ovvero: «nessuno sapeva se la vita era immensa / oppure niente» (L’amore era).