Nuovo paradigma: il tempo metafisico e feroce

Entro il 2021 il 6% dei lavoratori americani sarà sostituito da algoritmi o robot intelligenti. Il mercato librario italiano è calato del 14% dal 2012. In metà degli Stati Uniti il 35% della popolazione risulta obeso ad altezza 2014. Dal 2008, anno di introduzione dello Human Fertilisation Embryology Act, più di 155 ibridi umano-animali sono stati creati in laboratorio. Dal 2001 al 2013 sono sestuplicati gli indici percentuali di consumo psicofarmacologico in Italia. Il tempo dunque non è più devastato e vile: si è trattato di vivere una mutazione di paradigma. Non esiste un filosofo né un sociologo né uno psicoanalista né un antropologo né uno scrittore né un economista né un giornalista né un accademico etc che abbia affrontato organicamente o poeticamente o scientificamente o teoreticamente o praticamente la questione di una tale mutazione. Ciò definisce due dati di base: la cultura legata alla parola è inefficace a interpretare il nuovo paradigma; i miei coevi sono fortemente imbecilli e mutati geneticamente a priori. Non oso nemmeno sperare che qualcuno osservi quanto, a fronte di una simile rivoluzione su scala planetaria (il pianeta è occidente), soltanto il nucleo metafisico rimanga intatto: la questione della consapevolezza, o della coscienza o dell’essere o qualunque sia la nominazione che si intenda attribuire, si pone nello stesso modo sempre ovunque.
Benvenute nel tempo metafisico e feroce, anime belle: si inizia da qui.

Innovatevi culturalmente – un mio intervento su cheFare

Su cheFare c’è un mio intervento sull’ideologia odierna della “innovazione culturale”. Bisognerebbe scrivere un saggio, piuttosto complesso, circa la trasformazione radicale di paradigmi che comporta una certa accelerazione della tecnologia, che non può più evidentemente essere considerata unicamente un fatto tecnologico. Come prevedibile e di fatto previsto, si entra in contatto con una sostanza umana assai differente, rispetto a quanto certe anime candide novecentesche nemmeno intuivano, ma propalavano come un automatismo. Mi limito in questa sede alla semplice constatazione che il futuro non è più futuro: è presente – è uno smottamento interessante e coinvolgente, nel senso che ne siete interessati e vi coinvolge.

L’umanismo occidentale come momento sorgivo di Hitler: l’esempio Blanchot

hitlercovermedia.jpgCosa ha fatto, di Hitler, Hitler? Nulla. Non esiste un Hitler. Hitler è sempre stato il medesimo. Uno studio attento delle sue origini e degli episodi, anche i minori, che costellano la sua apparizione è proprio la continuità congelata di un’idiozia che è, in realtà, un’alterità. L’impressione di qualcosa di alieno, che balugina nelle sue pupille e che tanto ha incantato gli hitlerologi, fino a farne una mitologia, non determina affatto l’unicità di Hitler, bensì il suo contrario: la non unicità in quanto non-essente. Non significa, questo, porre Hitler al di fuori del cerchio umano, il che mitologizzerebbe Hitler ulteriormente, molto più di qualunque spiegazione storicistica o psicologica. Il suo non-essere ha la possibilità di imporsi non per la presenza di un contesto tecnologico adatto a un male mai visto prima nella storia, il che non impedirebbe che questo male, per esito tecnologico, si ripetesse. Piuttosto Hitler si impone utilizzando tutta l’ambiguità della cultura nel cui brodo cresce: ignorante, approssimativo, velleitario, Hitler ha comunque a sua disposizione un armamentario che la cultura occidentale mette a disposizione al non-essere che appare. La non-persona parla e legge, usa la persuasione e la retorica, utilizza il linguaggio portando a termine le premesse rovinose della cultura occidentale che, non avendo realizzato il Libro come prassi metafisica, arriva al massimo a intercettare proprio l’ambiguità, l’incrinatura che permette la frattura tra umano e umano.
E’ il caso, per esempio, di Maurice Blanchot. Le sue riflessioni sul Neutro e sull’Altro (in concordanza ma anche in decisiva divergenza con le meditazioni di Lévinas, sulle quali si consiglia di leggere qui e qui), sebbene interpretabili come estremo tentativo filosofico di suturare la ferita tra umano e umano tramite l’intelligenza di ciò che accade grazie alle premesse dell’umanismo occidentale, fallisce nel suo compito, poiché esula completamente dalla pratica interiore che il Libro indica, che le Scritture (e per gli occidentali il Talmud in primis) si sforzano di indicare, venendo ignorate in questo estremo appello, che è qui e ora da realizzare.
Pubblico perciò uno stralcio di un significativo saggio di Augusto Ponzio (Il neutro e la scrittura ante litteram, dalla rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici), dove si inscena esattamente questo teatro filosofico, che è totalmente inadatto a rompere la continuità della radiazione extraumana che Hitler imporrebbe e che la storiografia, ma soprattutto la letteratura, ha evitato di spezzare.
Mi scuso con i lettori del sito per questi ultimi interventi, che sono difficoltosi a leggersi: sto tentando di mostrare le origini teoretiche del tentativo di rappresentare la non-persona che ho provato a compiere in Hitler. Il romanzo non ha nulla a che vedere con questa difficoltà teoretica, che è desumibile soltanto a livello critico, ammesso che il tentativo che ho fatto sia anche solo parzialmente riuscito. Ciò che si legge nel romanzo è molto semplicemente e linearmente la vita romanzata di Hitler (cioè una sequenza di scene – o metope – che rappresentano di anno in anno, o con salti temporali, ingrandimenti a grandangolo di ciò che la non-persona fa, non sentendo umanamente): poi ogni lettore trarrà le proprie conclusioni, nel caso avverta che ne valga la pena.

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