Bisogna entrare in area DeLillo per comprendere che in ciò che egli lavora come mitologia collettiva non si configurano modi per me utilizzabili nell’affrontare un’estremità della Storia. Qualunque analisi circa l’elaborazione del mito ai nostri tempi è la conferma di uno degli obbiettivi civili che mi pongo, mentre mi avvicino alla stesura della prima struttura del
romanzo. Da un lato, il mito viene oggi abbassato – è il mito laico: diventa larga condivisione di motivi deboli, che col mito poco hanno a che vedere, se si guarda alle tradizioni popolari e culturali e religiose; dall’altro, è la velocità di elaborazione e acquisizione della conoscenza e dell’esperienza a minare il sedimentarsi storico di una vicenda che, di norma, potrebbe costituirsi a mito. Così, anche gli scrittori. A queste analisi si oppone, secondo modalità del mito sacro (sebbene per costruire l’antimito), un’autentica e coraggiosa ideologia della memoria, presa nella trappola dello schematismo che impone ogni ideologia: richiama il proprio contrario, ed è costretta a spettacolarizzarsi per rintuzzare l’oblio che la contemporaneità stende su tutta la storia. Eppure, proseguendo negli studi pesantissimi (sotto ogni riguardo) che preparano il <delromanzo, è molto chiaro che la sussidenza di un mito falso, propalatosi come scarico di un senso di colpa per il Male che si è manifestato, è la risultanza di una persistenza del mito sacro e la radice ultima per cui il romanzo va scritto. E’ neceessario riportare la Storia alla storia, il disumano nell’umano, certo, ma in forma di eccezione, non tacendo le corresponsabilità di un progetto ben più profondo di quello che si è manifestato storicamente: si tratta del progetto antiumanistico che ha costruito l’intera vicenda occidentale, si tratta del compimento di quel progetto. Il mito del Male, che riempie e giustifica con oscenità uno “zero” – cioè la Cosa che irradia il Male e che è protagonista del
romanzo -, non può esimere lo “zero” da responsabiilità umane e noi stessi dall’assunzione di simili responsabilità, al contempo: ma non attraverso la finzione di una storia condivisa in modalità dilettantesche. Parodia di un mito, questo mito del Male resta come uno spettro tra noi, e impedisce che l’umanità occidentale si faccia carico davvero di quanto deve farsi carico.
E la letteratura? La letteratura, rispetto a questa Cosa, tace o la tratta attraverso finzione al quadrato: non è letteratura. Oppure agisce sull’evento storico (uno qualunque tra i successivi alla materia del libro a cui lavoro), esaltando gli effetti di quel Mito sbagliato, osceno esso stesso. Come è desumibile dal saggio che riporto integralmente di seguito: Il Muro di Berlino da Don DeLillo a Joyce Carol Oates. Nessuna delle categorie che Roberto Cagliero individua negli autori analizzati può testimoniare per i testimoni: la letteratura si è arresa (e, da notizie delle ultime ore, continua ad arrendersi) al volto del disumano incarnato nell’umano – rappresentarlo senza finzione di finzione non viene in mente ai grandi scrittori e, nel caso gli venga in mente, eccoli procedere a una riempitura dello “zero” che, in ultima analisi, è una giustificazione del Male in terra e una teodicea al contrario, una mitologia che distorce la memoria.
La letteratura abdica qui, a questa estremalità.
PANORAMI DEL MURO.
DA DA DON DE LILLO A JOYCE CAROL OATES
di Roberto Cagliero
In uno dei suoi libri più recenti, Paul
Virilio (1993) sostiene che la Storia, anziché configurarsi semplicemente come questione
geopolitica all’interno di una sequenza di unità temporali, vada piuttosto letta nei
termini della quantità di energia disponibile nei singoli periodi che ne costituiscono il
corso. "Storia" diventa così sinonimo di propulsione: la concezione del
viaggio, del panorama, del territorio, e la percezione di questi oggetti culturali, vanno
a cadere sotto il segno della Storia poiché il movimento "temporalizza" lo
spazio a seconda del motore che lo anima. La definizione della Storia in termini di
energia ci invita dunque a riconsiderare in termini culturali il concetto di velocità.
Storia sarà allora storia della macchina, di macchine costruite per rispondere a un
sempre più pressante bisogno di velocità: macchina a vapore, motore a scoppio, motore
supersonico e infine computer; il mondo delle telecomunicazioni è così veloce da non
lasciare al corpo umano alcun spazio fisico per viaggiare. La velocità assoluta coincide
con la morte del veicolo.
Ma non è questo l’unico inconveniente del
viaggio ad alta tecnologia: più aumenta la velocità con cui gli avvenimenti accadono e
vengono registrati dai media, e maggiore l’obliterazione della memoria che ne
consegue; la trasformazione istantanea della conoscenza (con i suoi processi lenti di
assimilazione e sedimentazione) in archivio immediato della cultura, e cioè in ‘luogo’
segnato da una totale disponibilità a farsi leggere, ha come effetto principale una
egemonizzazione dell’oblio. Già la letteratura modernista aveva prospettato un esito
simile per il mondo occidentale: testi come l‘Ulysses joyceiano puntavano
indubbiamente, a causa del sogno totalizzante che li animava, nella direzione dell’oblio.
E’ tuttavia nel romanzo contemporaneo che la preponderanza dell’oblio diventa manifesta
come modello della contemporaneità, perdendo il carattere eminentemente linguistico
dell’esperimento modernista per affermarsi ontologicamente come condizione del reale. Il
rapporto tra velocità e oblio esprime un nodo fondamentale della realtà in Libra,
romanzo di Don De Lillo nel quale Nicholas Branch, un agente della CIA che ha avuto il
compito di scrivere la storia segreta dell’assassinio Kennedy, si ritrova a tale scopo a
potere consultare tutte le informazioni, pubbliche o segrete che siano, sul caso e sui
personaggi in esso coinvolti. Branch scopre poco per volta che la quantità di dati
disponibili è schiacciante; il suo studio, letteralmente soffocato dalla facilità di
accesso a qualsiasi tipo di informazione, diventa "la stanza dove si invecchia"1, il luogo dove la velocità informatica e la relativa lentezza
dei processi mentali mostrano una totale incompatibilità. Per Branch si rivela
"prematuro compiere uno sforzo reale per trasformare gli appunti in storia
internamente coerente. Forse sarà prematuro per sempre. Perché i dati continuano ad
arrivare. Perché nuove esistenze entrano costantemente a fare parte dell’archivio. Il
passato cambia mentre lui lo scrive"2. Questo personaggio
incarna così la morte della memoria come risultato di un accesso totale e illimitato alle
informazioni. Ciò che prima della velocizzazione informatica poteva mostrarsi
significativo per l’interpretazione è ormai resto, spazzatura, macerie intatte e
inaccessibili che si accumulano a velocità sempre più incontrollabile. La velocità
dunque punta nella direzione dell’oblio, e questo proprio mentre cadono i muri contenenti
i segreti della politica americana: così che Branch, cowboy solitario della Storia, possa
guardare apparentemente senza ostacoli nella storia mai raccontata dell’assassinio di
Kennedy. L’effetto è inevitabile: Nicholas Branch (branch= ramo, filiale) diventa egli
stesso un’estensione di quell’evento del quale deve scrivere. Amplificando i limiti della
rappresentazione fino al punto in cui svaniscono nell’invisibilità, le informazioni
lasciano dunque il soggetto a fare i conti con una constatazione inquietante: nel mondo
occidentale la velocità è l’unica informazione disponibile. Nicholas Branch ha accesso a
tutto ma questo ‘tutto’ continua ad accumularsi e dunque, come il libro citato da Poe nel
racconto L’uomo della folla, non si lascia leggere3.
Trasportata sul piano della Storia, una simile
illeggibilità ci può condurre ad esempio alla telecronaca mondiale in diretta della
caduta del Muro di Berlino nel 1989; questo evento televisivo ha forse dimostrato che
nell’estetica dei media internazionali l’ormai obsoleto concetto di villaggio
globale è stato sostituito dal concetto di velocità totale. Non si sottolinea che
l’intero mondo stia assistendo al procedere della Storia nel suo compiersi, quanto
piuttosto che la testimonianza televisiva ha luogo in tempo reale, mentre l’avvenimento
accade e non dopo. La velocità dell’informazione è l’informazione. I media
ci raccontano che l’informazione sta accadendo: un raccontare che cancella il contenuto
dell’informazione, un raccontare che, nel caso di Berlino, ha obliterato l’aspetto
‘paesaggistico’ del Muro richiamando lo spettatore a riflettere su di sé come testimone
della liberalità di vedute del mondo occidentale. Ma questa testimonianza, ideologica
anziché paesaggistica, non è che la versione televisiva dell’invisibilità, una forma
patologica di misticismo4 nella quale la velocità della
visione rende invisibile l’oggetto: lo spazio della rappresentazione viene occupato dal
narcisismo di una velocità ‘pura’, senza meta.
Se questo è lo scenario con il quale ci dobbiamo
confrontare anche l’idea del viaggio, dello spostarsi per ‘vedere’, diventa obsoleta. Nel
suo fondamentale studio sull’argomento, Leed (1992) spiega come il viaggiare abbia ormai
perso ogni valore terapeutico per l’uomo occidentale; si potrebbe dire che nell’era del
motore informatico il viaggio abbia assunto le sembianze di un’esperienza sempre e
comunque turistica. L’obsolescenza del viaggiatore nasce di qui, dal fastidio di chi
rifiuta il turismo come esteticamente povero: in realtà a infastidire il viaggiatore è
lo statuto evidentemente autoriflessivo del turismo che, con i suoi meccanismi di
simulazione, con la sua invisibilità organizzata, finisce per fungere da commento
indiretto sull’obsolescenza degli spostamenti del corpo5. Il
turismo dunque rivela il carattere impossibile del viaggio. Se con Ritter la percezione
del territorio veniva ancora pensata filosoficamente, nell’ambito della modernità, come paesaggio
nel senso di una "natura che si rivela esteticamente a chi la osserva e la contempla
con sentimento" (1994:47), con Leed si giunge a cogliere la disperazione del
viaggiatore contemporaneo, cosciente che "il viaggio non è più un mezzo che
permetta di distinguersi. E’ un modo di raggiungere una norma, l’identità comune a tutti
noi: quella dell’estraneo" (1992:348).
Non sarà superfluo sottolineare qui il concetto
di estraneità che, introdotto da Leed ai fini di un’analisi dello spirito contemporaneo
del viaggiare, costituisce al contempo l’anello mancante nella catena
velocità-informazione-percezione che abbiamo fin qui tentato di delineare. Il che ci
riporta, ancora una volta, al Muro di Berlino. Nel racconto "Ich Bin ein
Berliner" [d’ora in poi IBB] di Joyce Carol Oates il narratore, camminando per le
strade del settore Ovest, riflette che "tutti sono turisti qui, in questa parte della
città, in questa parte dell’Europa. Siamo occidentali nell’Est. Un’oasi di frizzante
Ovest nella tetraggine dell’Est circondato dal filo spinato"6.
Ecco dunque che per il soggetto occidentale la via al riconoscimento di una propria
identità si inscrive in un sentimento di estraneità, in una sensazione di non
appartenenza particolarmente forte in un luogo dove lo spettacolo della paranoia politica
passa attraverso l’effervescenza del vissuto (il "frizzante Ovest"), ponendo
ancora una volta in primo piano la velocità di quello spettacolo, e dunque facendo della
percezione una metafora del movimento. Una simile concezione risulta particolarmente forte
in un contesto come quello del Muro, dove la distanza tra soggetto e oggetto assume una
collocazione fortemente politica e al contempo geografica. Gli oggetti del frizzante Ovest
definiscono geograficamente la realtà, colta superficialmente in una serie di oggetti
assolutamente estranei nella familiarità di cui li dotano i media. Il soggetto
non può che confessare, per quanto entusiasticamente, la propria capacità di
riconoscervisi: "Guardate: la radiosa croce della Mercedes-Benz, che ruota con
eleganza sulle nostre teste! Una visione sacra che si irradia oltre il Muro sulle ombre
dell’Est"7. Il panorama della distanza suggella dunque,
grazie all’anonimità di tutto quanto resta invisibile oltre il Muro, l’appartenenza del
soggetto al luogo e a se stesso, appartenenza strutturabile in termini esclusivamente
differenziali. In virtù della sua anonimità il Muro definisce allora i soggetti dell’Est
e dell’Ovest in qualità di diversi gli uni dagli altri, indicando quale sia il loro posto
grazie alla propria fisicità: fisicità di un significante che, ancora una volta grazie
alla qualità dell’astrattezza, entra lacanianamente nel significato "in una forma
che, non essendo immateriale, pone la questione del suo posto nella realtà" (Lacan
1974:494). Il Muro insomma, grazie alla presenza invisibile dell’altro, definisce il
soggetto panoramicamente, come ciò che l’altro non può vedere. Accanto ai racconti sul
Muro8 bisognerà allora collocare un aneddoto raccontato da
Lacan, che risulta qui particolarmente calzante: un bambino e una bambina, seduti l’uno di
fronte all’altro in uno scompartimento ferroviario, al fermarsi del treno si scambiano le
seguenti battute: "To’, –dice il fratello. — siamo a Donne! — Imbecille! —
risponde la sorella, — non vedi che siamo a Uomini!"(1974:495). Storiella
particolarmente illuminante in questa prospettiva di una definizione panoramica del
soggetto, poiché ci consente di reinterpretare la questione del rapporto tra soggetto e
significante in chiave geopolitica, come distinzione tra Est e Ovest: "Uomini e Donne
saranno da questo momento per quei bambini due patrie verso cui le loro anime si
rivolgeranno con ali divergenti, e sulle quali sarà loro tanto più impossibile venire a
patti in quanto, trattandosi in verità della stessa patria, nessuno dei due potrebbe
cedere sulla precellenza dell’una senza attentare alla gloria dell’altra"(ibid.).
Uomini/donne, est/ovest: se parlare di una
estetica, o peggio ancora di una psicologia, del Muro, potrà sembrare quantomeno
sinistro, bisognerà comunque concedere che distanza e isolamento diventano qui le
metafore di una insularità che non possiamo scrollarci di dosso, e che la tecnologia
dell’informazione rende sempre più incalzante. Se accettiamo che i media sono
anzitutto una forma di energia, e se a partire da Virilio accettiamo la concezione della
Storia in termini del suo contenuto di energia, non potremo fare a meno di cogliere
nell’estraneità fin qui delineata una equazione tra Storia, energia e isolamento.
Isolamento che, come abbiamo visto, viene sottolineato sempre di più dall’obsolescenza a
cui i media hanno condannato l’attività fisica, corporea, del viaggiare. Il che
emerge chiaramente nel titolo dell’altro racconto di Joyce Carol Oates sul Muro, "Our
Wall"[d’ora in poi OW]: il Muro, oggetto di solitudine e di isolamento, è nostro
(our) perché ci definisce isolandoci. La perspicacia del Muro è la perspicacia
dell’informazione in forma tecnologica: soggetto dell’isolamento e soggetto dei media
finiscono così per sovrapporsi.
Eppure, per uscire da una forma di logocentrismo
occidentale (idea al quale è dedicato un saggio di Dieter Saalmann su Joyce Carol Oates),
bisognerà attraversare il Muro e guardarlo dall’altra parte, dalla parte degli ormai
defunti governi dell’Est che al modello occidentale della velocità opponevano una forma
stazionaria di potere: stazionaria perché privata del movimento, sempre ferma in stazione
come il treno lacaniano che definisce i soggetti in base a ciò che vedono dal finestrino.
Non è certo una novità che la sedentarietà
coatta costituisca una delle immagini più trite del mondo europeo-orientale, un mondo che
da sempre ci è parso deprivato della Storia contemporanea perché privato della velocità
dell’informazione. In questo scenario la Storia non viene (non veniva) obliterata dalla
velocità: nulla di più diverso dal caso del personaggio Nicholas Branch, che non riesce
a ricostruire una gerarchia dei dati disponibili per l’impossibilità di selezionare il
materiale che si riversa implacabile su di lui. Nell’Est invece è la mancanza di
velocità a cancellare la Storia, il che ne fa un luogo eminentemente anti-americano.
Nell’Est la contemplazione della realtà è la contemplazione dell’immobilità, di un
vissuto definito al contempo dall’assenza di movimento e dalla rarefazione delle immagini.
E’ in questa rarefazione, in effetti, che va cercato il senso ultimo della Storia secondo
l’Est. Mentre nella sua versione occidentale si pone come spostamento, fornendo l’immagine
di un mondo serrato dove tutto si collega immediatamente a tutto il resto, nell’Est la
Storia si basa sulla sedentarietà e sulla sostituzione. Laddove la comunicazione
ocidentale è così rapida da trovarsi già sul posto all’accadere degli
avvenimenti, finendo così per obliterarli, la comunicazione orientale è giocata su una
lentezza che finisce egualmente per negare quello stesso accadere, ricontestualizzando gli
avvenimenti al di fuori dello scenario della velocità; il che avviene grazie a un modello
della comunicazione nel quale repressione e obsolescenza tecnologica si accompagnano
perfettamente. Nella pagina di apertura de Il libro del riso e
dell’oblio Kundera (198 ) fornisce un chiaro esempio dell’obliterazione in versione
orientale quando descrive la ricostruzione di una fotografia ufficiale dalla quale è
stato rimosso Clementis, il leader caduto in disgrazia (e poi impiccato). Le uniche cose
che di lui rimangono nella versione ritoccata dell’inquadratura segnalano la presenza di
un’assenza:il muro nudo di un palazzo che si erge laddove prima posava l’uomo politico, e
il suo cappello sulla testa del leader comunista Gottwald, al quale Clementis l’aveva
(gentilmente?) passato perché il giorno in cui era stata scattata la fotografia nevicava.
Difficile evitare la conclusione che manipolazione dei media, censura e
anti-rappresentazione tocchino egualmente, seppure in forma diversa, il discorso politico
dell’Est e dell’Ovest: indipendentemente dalla velocità di funzionamento, il motore dei
media produce ricostruzioni artificiali degli avvenimenti. In entrambi i casi ci
troviamo di fronte a un muro che isola, si tratti dei muri dell’ufficio di Nicholas
Branch, del Muro di Berlino o del muro che fa da sfondo alla fotografia descritta da
Kundera nel suo romanzo. Il ‘nocciolo’ dell’informazione tecnologica, per parafrasare il
titolo di un romanzo di Paul Auster, è un’iconica invenzione della solitudine:
il che vale sia nel caso della obsolescente tecnologia della comunicazione nei Paesi del
blocco orientale (con le relative procedure restrittive rispetto alle informazioni), sia
nel caso della credenza occidentale in una libertà dell’informazione (con la relativa
fede nella logorrea istantanea dei media che modella gli avvenimenti).
Le questioni sollevate dall’esistenza di queste
due versioni dell’informazione che abbiamo tentato di descrivere secondo un modello di
opposizioni binarie (velocità/immobilità, movimento/sedentarietà) ci conduce
necessariamente a interrogare la Storia sulle possibilità politiche di sfuggire alle
ambiguità dialettiche di questo doppio panorama, di questi due modi opposti di costruire
minacce contro il soggetto; ed è proprio questo il tentativo compiuto da Oates nei suoi
racconti berlinesi, leggibili come tentativo di collocare la rappresentazione narrativa di
uno spazio eminentemente politico al di fuori di una dicotomia Est/Ovest. E’ possibile, in
altre parole, uscire da un modello dialettico della rappresentazione, che sembra l’unica
possibilità di descrivere una realtà data come dialettica di per sé? A complicare
ancora di più la faccenda, se non da un punto di vista letterario certamente da quello
politico, bisogna considerare che la caduta del Muro di Berlino ha generato una
industrializzazione della memoria (si possono ormai comperare ‘frammenti’ del Muro) che si
fonda su un meccanismo evidente: la nostalgia per la Storia e per la sua geografia passata
indicano la mancanza del Muro come simbolo, un simbolo dotato del potere di rendere
tangibile la distinzione tra ‘noi’ e ‘loro’. In IBB il narratore anticipa questo
meccanismo dichiarando che "la memoria scompare velocemente, in questa parte del
mondo" 9. Ricreare la distinzione tra ‘noi’ e ‘loro’ nei
termini di una memoria industrializzata, comperando reliquie di un monumento scomparso,
significherà allora ricostruire il Muro come simbolo del rapporto conflittuale con il
concetto di movimento che l’Est e l’Ovest hanno intrattenuto, a Berlino, dal 1961 al 1989.
Tale rapporto si articola inoltre in una
dimensione non soltanto culturale ma psichica: il Muro, simbolo della guerra fredda, di
una guerra dunque simbolica, è stato per l’Europa un oggetto unico che ha segnato un
evento storicamente unico e irripetibile; sublime, trascendente come una costruzione
sacra, esso si è proposto per un trentennio come panorama immenso e dunque edipico,
grandioso come lo sono "nell’immaginazione infantile, le figure parentali"
(Bottiroli, 1989:176). Ad esso si possono ascrivere altre caratteristiche degli oggetti
edipici, invulnerabili e fragili al contempo, il cui fascino "deriva dalla nostalgia
verso un mondo perduto, il mondo smisurato, ovattato e tragico della nostra infanzia, che
tali oggetti replicano tentando di comporne illusoriamente i contrasti e di risalire fino
a un punto che li precedeva" (ibidem); in realtà bisognerebbe allora
considerare il Muro come un oggetto pre-edipico: il suo ergersi, la sua qualità fallica,
è accompagnato da una qualità uterina che ne fa il ricettacolo di una certa visione
politica; se ne potrebbe parlare dunque come di una "formazione di compromesso,
proiettata verso l’origine, e nella quale desiderio e divieto sono riconciliati" (ibidem).
Il Muro che si erge e protegge sovrasta allora la geografia nel senso che i
soggetti vivono accanto ad esso in una totale dipendenza dall’inaccessibilità dell’altro,
in una condizione paradossalmente costrittiva e onnipotente che li colloca sotto il segno
di un edipismo monumentale. E’ ancora una volta a partire da questo carattere monumentale
che i racconti di Oates indagano su come la percezione possa superare le costrizioni della
dialettica, procedendo verso una ‘soluzione di compromesso’ non per ricercare un universo
consolatorio, ma per interrogare eticamente la politica e le divisioni che essa richiede
ai media di creare, fondandosi su una dialettica di appiattimento e di
semplificazione. L’attrazione morbosa verso il Muro che i personaggi mostrano in entrambi
i racconti sembra in effetti descrivere le semplificazioni di una dicotomia che vede
rispecchiarsi capitalismo sfrenato e repressione barbarica. La risposta del soggetto alla
seduzione operata da questo gioco di specchi, sia essa proveniente dall’Est o dall’Ovest,
si configura inevitabilmente nell’autodistruzione. Il Muro, oggetto pre-edipico, punta
verso l’indistinzione: è our wall, il nostro muro; di noi occidentali,
orientali, scrittore e lettore; ed è "una presenza oscena"
10
perché opera come metafora degli ostacoli che noi tutti
frapponiamo tra noi e la scena della realtà. Il concetto di ostacolo comprende qui il suo
contrario, quello di medium; fallo e ricettacolo al contempo, il Muro è duplice
e necessario: la sua oscenità richiama il linguaggio come ostacolo e come medium.
Il punto di vista del narratore, in OW, è quello di un cittadino dell’Est, di uno che non
può vedere al di là del Muro proprio come nessuno di noi non può vedere la realtà, la
cosa-in-sé, se non attraverso la visione accecante delle parole. La percezione del
paesaggio si lega così in Oates alla cecità come categoria astratta, in grado di
definire gerarchicamente il rapporto tra visibile e invisibile. Il Muro in questo senso è
uguale da entrambe le parti, indipendentemente dalla libertà di movimento e dalla
velocità che caratterizzano i due sistemi politici. Il Muro come negazione del movimento,
come monumento all’immobilità, produce isolamento: eppure, nonostante sia contro la
macchina come produttrice di movimento, esso non è contro l’energia. Mentre una macchina
richiede una certa quantità di energia per essere messa in moto, per fnzionare, il Muro
è mantenuto in vita da un apparato poliziesco che consuma energia per mantenerne
l’immobilità. Il paesaggio creato dal Muro risiede nel suo nome, "Muro di
Berlino", un nome immediatamente riconoscibile come monumento all’astrazione
politica. Il carattere astratto del Muro deriva dalla sua inaccessibilità e dal suo
anonimato: isolando il soggetto rispetto a ciò che non è, esso crea l’immagine di uno
spazio sacro della politica, al quale soltanto la polizia può accedere:
"l’umiliazione, se debitamente assorbita, può essere un’esperienza sacra (…). Non
ho mai visto il Muro sconsacrato"11.
Rispetto alle mura antiche che circondano le
città, che non spariscono col passare del tempo poiché diventano rovine, oppure vengono
integrate in un nuovo tessuto, il Muro di Berlino è fortemente astratto, e svolge la sua
funzione divisoria senza avere una consistenza particolare. Esso "concettualizza
l’idea del limite: (…) divide, separa, isola ma non ha consistenza; sarà smantellato.
Difficilmente riuscirà a determinare segni propri sul suolo della città futura"
(Marastoni, 1994:17). A causa dell’elevato livello di astrazione che sottolinea la sua
qualità linguistica il Muro si pone dunque come monumento sacro, come luogo di
un’inscrizione, opponendosi però all’idea quasi religiosa di monumento come luogo per il
culto degli eroi nazionali, come tempio nel quale il passato emerge per dimostrare il
carattere omogeneo della storia nazionale 12. La sacralità
del carattere monumentale del Muro risiede invece, oltre che nelle qualità edipiche alle
quali abbiamo accennato più sopra, nel suo essere linguaggio, nel suo potere di nominare:
costruito per monumentalizzare l’oblio, esso ci dice il nostro nome di soggetti politici,
nominandoci non perché apparteniamo a un mondo, a una nazione o a un gruppo storicamente
fondato, ma in quanto soggetti isolati e accecati dalla sua presenza; resi coscienti,
grazie a questa presenza, di quella invisibile dell’altro; definiti come ‘estranei’ da
questa messa in scena della fine: fine del paesaggio, del panorama, della
rappresentazione. Anziché consentire ai soggetti di avvicinarsi ad esso il Muro sembra
avvicinarsi a loro, mostrando una curiosità che si tramuta ben presto in indifferenza: la
cecità del Muro è l’indifferenza del linguaggio; il soggetto e l’altro, che non possono
vedersi, sono visti dal Muro nella loro cecità reciproca, che definisce geograficamente
il soggetto come soggetto dell’isolamento. Il personaggio che fronteggia il Muro nei
racconti di Oates condivide l’anonimato con il soggetto al cospetto dei media. In
OW il Muro viene prima descritto fisicamente: "lo si direbbe alto circa 25 piedi
(…). Le misurazioni sono imprecise perché devono essere fatte, se pure è possibile, da
una certa distanza dal Muro, e con la protezione dell’oscurità. E’ credenza comune che il
Muro sia fatto di un cemento piuttosto liscio, un materiale piuttosto consueto e in sé
non particolarmente temibile" 13. Il soggetto
dunque si trova a dovere fare i conti con una distanza imposta che lo sottometta
all’imprecisione proprio come il linguaggio, la cui ambiguità costituisce al contempo
ostacolo e strumento per la comprensione della realtà. Il Muro seduce i suoi soggetti,
convincendoli a sottomettersi alla sedentarietà: "E’ molto più facile — molti di
noi lo trovano più facile — ritenere che il Muro sia eterno, che sia sempre stato e che
sempre sarà" 14
(e si noti qui la sequenza implicita eternità/assenza di
divenire/sedentarietà); il Muro "si erige maestosamente solo"
15
, convincendo i soggetti a ritenerlo "un’opera d’arte
[oppure] un abominio"16
. Costantemente prsente, funziona come
invisibile principio organizzatore: "Eppure la stragrande maggioranza della
popolazione non ‘vede’ affatto il Muro — letteralmente, dico" 17.
Dopo averci mostrato il Muro come ostacolo, come
macchina, come tempio, Oates ne descrive il potere ipnotico: il protagonista di OW
comincia infatti a fissarne la massa da un nascondiglio segreto, finché nel paragrafo
conclusivo viene scoperto da una guardia che sembra invitarlo a morire: "faceva segno
a me, lì nel mio nascondiglio (…). Vieni più vicino, non temere, il Muro era prima che
tu fossi, il Muro durerà per sempre"18. L’ipnosi, arma
finale dell’aggressione politica, finisce per anestetizzare il narratore, fino ad allora
caratterizzato da un comportamento guardingo: "nei sogni scaliamo il Muro di notte, e
teniamo per noi i nostri segreti"19. La decisione di
mantenersi nell’anonimato viene echeggiata dal narratore in IBB: "Certe cose si
possono compiere soltanto in segreto"20. Evitando di
inserire i personaggi nel gioco dialettico dell’opposizione politica, Oates preferisce
ricorrere alle ambiguità dell’anonimato; la morte del fratello del narratore, un
funzionario governativo americano che attraversa il Muro per poi tentare di tornare
‘illegalmente’ nel settore Ovest "potrebbe essere considerata — o almeno così hanno
sostenuto alcuni, sia in prosa sia in poesia — eroica"21.
Il ricorso al privato è dunque motivato dal timore della propaganda e della
strumentalizzazione; più avanti il narratore, mentre sta ripercorrendo l’esistenza
berlinese del fratello, cita Peter Fechter, un giovane morto nel 1961 mentre tentava di
raggiungere il settore Ovest, come "il giovane martire [che] ha dato l’idea a mio
fratello"22. Ironizzando sul concetto di martire Oates
svela la portata di questi racconti: qualsiasi forma di reazione dialettica contro il
potere è destinata a trasformarne il protagonista in un "eroe della propaganda, in
mezzo al traffico e ai neon, i caffè all’aperto, i cinema porno, la gente che passeggia
leccando coni di gelato enormi, tutto al solito"23. E’
un’immagine forte sebbene a prima vista imbarazzante: gli eroi sono destinati a venire
soffocati dal discorso politico dei media. Poco più oltre, mentre sta rovistando
nella valigia del fratello, il narratore scopre una copia di Al di là del principio
di piacere: si salda così, nella pulsione di morte, il rapporto tra storia e
turismo. Oates sembra dunque avere voluto riformulare il gioco del Da/Fort, gioco di
perdita e di riconquista, su un terreno politico dove la morte simbolica si letteralizza.
La lezione è chiara: nella condizione disturbata del fratello, la vita e la politica sono
diventate entrambe così banali da perdere ogni valore. Il narratore non può fare altro,
per sfuggire a questo abisso dialettico, che resistere all’immagine del mondo offerta dai media,
e dunque giungere alla conclusione che ripetere il gesto del fratello non avrebbe senso:
"Se immaginano (poiché certamente stanno osservando) che io ripeterò la sua azione
(…) si sbagliano. La storia non può imitare se stessa senza la partecipazione
umana"24. La condanna della storia si articola qui come
condanna dell’energia; si tratta forse della condanna di quell’energia linguistica
implicita nel gioco del Da/Fort, il gioco mortale che i media mettono in scena
quando riproducono immagini. Il lutto personale rischia di dovere affrontare una seconda
morte poiché i mezzi di comunicazione sono sempre pronti ad appropriarsi dell’evento.
Indipendentemente dalla velocità con cui il pericolo si può materializzare, la
partecipazione umana corre costantemente il rischio di venire interpretata. Il segnale di
allarme di Oates, forse ovvio, mantiene comunque una grande forza: la banalità grottesca
dell’immanenza informatica trasforma ogni tragedia in un’ermeneutica grossolana.
NOTE
1) "(…) the room of
getting old"(1988:59). Le traduzioni dai testi, qualora non sia specificata una
edizione italiana in bibliografia, sono mie.
2) "(…) it is premature to
make a serious effort to turn notes into coherent history. Maybe it will always be
premature. Because the data keeps coming. Because new lives enter the record all the time.
The past is changing as he writes" (1988:300)
3) Nell’esergo al racconto, Poe
parla di un libro tedesco che "lasst sich nicht lesen". L’erranza del
protagonista, che gira senza meta tra la folla londinese, barra l’accesso del narratore
alla sua storia. Racconto ante litteram della tecnologia, dunque: laddove il soggetto è
completamente trasparente, in un’estraneità ‘informatica’ alla realtà che lo circonda,
esso si articola come testo illeggibile; l’uomo della folla anticipa così la realtà
prodotta dal motore informatico, inacccessibile a causa della sua immediatezza. In questo
contesto è significativo che l’uomo della folla non colga il paesaggio intorno a sé: la
sua velocità di spostamento non glielo consente.
4) Sul rapporto tra interiorità
e percezione si veda Ritter (1963:43-45) laddove, commentando l’ascesa di Petrarca al Mont
Ventoux, fa notare come il poeta colga il nesso tra ammirazione della natura e una
agostiniana "dimenticanza di sé". Per guardare Dio bisogna guardarsi dentro: la
telecronaca in diretta partecipa, in forma patologica, di questa forma di misticismo;
fingendo di proporre un’estetica del paesaggio (il Muro che cade) impone piuttosto
un’etica dell’interiorità in forma pubblica (l’ideologia dell’immediatezza e della
velocità come forme di trasparenza: il movimento è sempre associato alla purezza).
5) Il legame tra immobilità e
tecnologia viene colto con estrema ironia (e dunque senza la soluzione facile delle
letture apocalittiche del rapporto uomo/macchina) nel film True Stories di David Byrne
(198X); in uno degli episodi una donna, grazie a complicate apparecchiature elettroniche,
riesce tranquillamente a compiere gesti e azioni della quotidianità senza doversi mai
alzare dal letto.
6) "(…) everyone is a
tourist here, in this part of the city, in this part of Europe. We are Westerners in the
East. An oasis of sparkling West in the glum barbed-wire East" (IBB:100)
7) "Look: the radiant
Mercedes-Benz cross, rotating nobly overhead! A sacred vision beamed over the Wall into
the shadowy East" (IBB:100)
8) Sulle versioni letterarie del
Muro di Berlino vedi B.Frecht, Die Berliner Mauer in der Literatur: eine Untersuchung
ausgewahlter Prosawerke seit 1961. Pfungstadt bei Darmstadt, Ergon,1992; A. Jaforte, Die
Mauer in der literarischen Prosa der DDR. Frankfurt a.M., P.Lang, 1991; D.Glass,
D.Rosler, J.White (a cura di), Berlin: literary images of a city/eine Grossstadt im
Spiegel der Literatur. Berlin, E.Schmidt, 1989 (con un’ottima bibliografia
sull’argomento) ; sui graffiti del Muro v. H.J.Kuzdas e M.Nungesser, Berlin Mauer
Kunst/Berlin Wall Art. Berlin, Elefanten Press, 1990
9) "(…) memory fades swiftly,
in this part of the world" (IBB:102)
10) "(…) the presence of something obscene" (OW:233)
11) "(…) humiliation, if
properly absorbed, can be a sacred experience(…). I have never seen the Wall
desecrated" (OW:239)
12) Sul monumento in veste di
tempio di una cultura nazionale vedi l’illuminante saggio di Sternberger, in particolare
la sezione "Templi profani" (1985:171-75)
13) "The Wall appears to be
about 25 feeet high (…). Measurements are imprecise since they must be made — if at all
— at a distance from the Wall, and under cover of darkness. It is a commonplace belief
that the Wall is made of fairly smooth concrete, an ordinary enough material, and in
itself not particularly fearful" (OW:235)
14) "It is far easier —
most of us find it far easier — to assume that the Wall is eternal, that it ever was and
it ever shall be" (OW:234)
15) "(…) stands
majestically alone" (OW:235)
16) "(…) a work of art
(…) an abomination" (OW:236)
17) "The largest percentage
of the population, however, does not ‘see’ the Wall at all — that is, literally"
(OW:236)
18) "(…) waving to me in
my hiding place (…). Come closer, have no fear, long before you were born the Wall was,
and forever will the Wall endure" (OW:241)
19) "(…) in dreams we
scale the Wall nightly, and keep our secrets to ourselves" (ibidem)
20) "Some things can only
be performed in secret" (IBB:97)
21) "(…) might be judged
— or so certain persons have argued, in both prose and poetry — heroic" (IBB:99)
22) "(…) the martyred
youth (…) gave my brother the idea" (IBB:103)
23) "(…) propaganda hero,
amid the neon traffic, the outdoor cafés, X-rated Kino, summer strollers licking fat ice
cream cones, business as usual" (IBB:102)
24) "If they imagine (for
certainly they are watching) I am going to repeat his performance (…) they are mistaken.
History cannot imitate itself without human participation" (IBB:110)
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