Un’altra poesia del 1990


Come già accennavo l’altro giorno (vedi: http://wp.me/psp0w-1Yg), liberandomi di centinaia e centinaia di libri, ho ritrovato un volumetto pubblicato in occasione di una lettura poetica ad Ancona, a cui partecipai nel 1995. Vi appaiono cinque testi, che scrissi in quegli anni. Una di quelle poesie sta appunto al link di cui sopra, un’altra la copio qui sotto. Mi ricordo quando la scrissi, era il 1990, d’estate, c’erano i Mondiali di calcio, una sera luminosa arancione io pensavo a mio padre, fragile, solitario nella casa buia dove ero cresciuto io, distante, un essere fatto di frassino fradicio e foglie secche, che avanza verso di me mentre io avanzo verso di lui, io mi premo lievemente le tempie ascoltando un ronzìo psichico, un ronzìo d’anima, e lì in quella fantasia, proprio come fantasmi dunque, ci salutavamo entrambi oltre la morte, dove lui secondo me sempre era un po’, dove stanno tutti i padri secondo me sempre un po’, qualunque maschio spogliato e antico reso fossile magro, poche ossa, tendini e parole auree che fanno rimbombare Omero, spaventano Shakespeare, aboliscono Gilgamesh. Inoltre percepivo la fase aurorale: stava arrivando tutto, tutta la vita, per me, frontale, impudica con un chiasso e uno smottamento violento e l’indifferenza dei massicci montani nei confronti dei panorami in cui avviene la loro propria subsidenza – arrivava Maura, che era il primo amore del tremito e dell’imposizione del sacro nome, arrivava la povertà nella ricerca affannatissima di un lavoro che definiva fallimentare l’identità, arrivava che abbandonavo l’università, arrivava che decidevo come combattere il duello finale con la filosofia, arrivava che mi sfrattavano dalla casa popolare e dove andavo?, arrivava che venivo sopraffatto da una psicopatologia di natura equivoca. Non era attesa, era imminenza. Era un germoglio di fine inverno su un ramo che non sa di prepararsi alla primavera. Non era uno sbocciare, era la timidezza che risponde all’annuncio di un tempo nuovo, ripetuto ma sempre nuovo, roseo, albale, ma anche tanto crepuscolare. Tutto ciò era ed è, per me, la madre.
Ecco la poesia.

Ripeto, non ho paura, parlo per altri…

O padre deputato all’inverno
che carne, qui, che denti… Tu,
sedimentata stagione del buio
e richiesta ripetuta nell’enorme
corpo del sonno, dici:
è solamente un dolce
aprile
un’aria semplice di petali
una fecondità inattesa
il tempo che ti attendo rivedendo
dolce la tua figura a occhi chiusi
che dondola e si avvicina
cantilenando…
Ti amo, ti sono
vicino accanto dentro ingoiato
padre, come un dolce caritatevole
che gioia… Vedrò lontananze
sublimità del cielo in semipioggia
rosato capovolgersi dell’anno, sarà
una deriva d’angeli, nient’altro

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