“Si era a un punto che non era più un punto, uno, però nebulaglia sì, era questo, immersione, scoscendimento improvviso, repentinità e eccesso, pneuma, schifiltosi, era, anziani loro con i quarant’anni loro sprecati a dibattere tra sé e sé e i loro sieri sessuali, le loro trascorse sessuofobie, di ordine e di grado ordinamento e insinuazione, culto del tempo unico plumbeo e murmuri di segreto in segreto allo sfinimento, 40/80 sfiniti da tempo, saturo di annoiamento e inviso a adulti addomesticati a alienazioni altre, a sonicità improvvise e lente, meccaniche pesanti, ovvero tossiche, templari di un dualismo ovunque, ovunque, che era bello e falso o vero, non a piacimento, fino a che vi sia trasceso il piacimento nella smorfia ventrale in volto, con la cannula dell’eiezione e la magia rossa dello schermo improvviso che s’era esploso e saturava, noi nati in quello – la loro statica era stolidità, invece, la loro enfasi su emozione e sogno non ci forniva un millimetro di spirito o di speranzosa condiscendenza verso noi stessi, coetaneità e spirito, della cui esistenza, del resto, ci importava neanche zero almeno quanto morire in che intonsità chi sa a cui tenevano tanto, però non il pensiero di morire, che ci dotava di agibilità al panico e ci serviva il panico, l’automutilazione per dire a chiunque che eravamo nessuno e eravamo, le sciattezze non erano una consolle adeguata ai nostri vizi estranei alla morale. Non eravamo donne, uomini morali e bene, allora, e allora avevamo paura di cessare, di terminare qualunque cosa noi, noi stessi, ignari di noi e ignari di stessi, poiché eravamo apparsi andandocene in un istante non collocabile da quei pachidermi con il cuoio addosso che prima erano venuti e a chi importava oramai che non se ne andassero, poiché era il tempo di non importare a nessuno, né a noi né a stessi, l’evasione era da queste nebulaglie sature di elementi troppo pesanti e, insomma, in quei giorni finiva in noi con noi l’Ottocento umano”. [G. Genna, da “E. (d.i.e.d.m.)”]