Le vecchiette al voto amministrativo 2016 questa mattina

Con quale stanchezza, con quale renitenza al niente, con quale dolcezza severa e inattingibile ho visto oggi recarsi al voto le donne anziane, i capelli radi e gli strani spolverini celesti colore tendaggio, oggi, nella calma catastrofica di un giorno pressato tra ore di temporali e di monsoni, sospesa, i capelli radi tinti di biondo granaglia, di fienili visti con gli occhi delle madri e delle levatrici un tempo, nei loro passi sfrigolare le vene partigiane di un sangue rinnovato e latore di senso e di tempo in avanti, la prospicienza di un tempo con il senso che le borsette lucide e screpolate delle anziane dondolavano cullando un tempo antico, che è oggi, quando i passi malcerti in via Salasco, tra gli afrori di gelsomino e urina degli alterati al locale serale lì vicino zaffavano delicatamante, i loro passi minuti, le loro mani aggrappate ai manici consunti delle borsette lucidate a nero, le cisterne del tempo svuotate, le granaglie scomparse, la stanchezza dell’epoca, i pochi giovani assorti nell’ebetismo degli schermi piccoli e luminosi, sì, ma non radiosi, a crocchi, a coppie, solitarie, vecchiette dalla pelle povera di collagene, con i tendini consunti come i manici delle borsette di mercato rionale e una povertà dell’andatura che è un monumento semovente, a se stesso, a ciò che è coriaceo, a ciò che è civile e non mi è distante, io, tremulo, io, assaltato dalle onde continue della marea alta del panico, messo fuori mondo e stato fuori gioco sempre, ambendo alla matita elettorale, verdeblu petrolio, alla garza medica che fa da tendina al seggio, mentre le anziane salgono reggendosi la scalinata larga della scuola prefascista, estratta la tessera elettorale con un anticipo eccessivo e motivato dall’età terza o quarta, che è calma e imminenza e precipitazione e aggrapparsi, i respiri che crocchiano lievemente e le loro nuche in avanguardia, piccole testuggini fuoriuscite dall’ovàme ottanta, novanta anni che sono, e hanno visto la macula di sangue del fratello e allargarsi quell’edema della vedovanze e vanno, come insetti consistenti in morbidezza e carnalità, gli anni ormonali trascorsi quando fresche secernevano felicità sessuali e sorridevano dopo l’amore, nei letti sfatti e più lindi e piegati meglio che oggidì, oggi che non esiste più un lenzuolo, e non esiste amido, e non esistono gli anelli semplici e robusti e graffiati dall’usura umana che portano non accoppiati agli anulari, piegati artritici e così distanti dall’ungulato che la strega ha contorto e duro, le varici all’opera sulle scale e poi sul pavimento screziato di graniglia colorata, solo anziane e piccole, minute, ventitré, prima di me, che ho osservato chi scrutinerà, lo Stato vuoto, l’amministrazione involuta, la permanenza minima di una vita venire meno e farsi convulsa, la ragazza in nerofumo assisa sulla sediòla in plastica fuori dal seggio disinteressata mentre scrollava e scrollava e scrollava, le anziane a due centimetri dal manifesto con i nomi dei votabili, dove un tempo Giacinto era detto Marco e vidi anche Berlinguer, scritto a lettere in grassetto e font bastone, senza fila privo di grazia entro, esprimo la preferenza: cosa preferivamo noi? Che rimanesse intatto il tempo e stabile per il tempo di una vita senza scrolli? Che sempre nelle memorie perissero, cadendo afflosciati e antiacrobatici all’indietro, i partigiani nella loro camicia bianca di tela grezza e si allargasse la macula del sangue sul petto ferito a morte e, da ciò, derivassero i pensionamenti, la morte calma delle sostanze, le vedovanze, il futuro uno e il futuro zero, e che nessun algoritmo, nessun algoritmo disturbasse il corso odierno delle cose, un odierno sempiterno che muta un poco, sì, ma non va a mutare tanto, tanto da non riconoscere oramai il volto umano dalla statua vivente in Duomo bambino che vidi bianca in farina e cosmesi tutta, e che mi sorrise, con i misteri di un algoritmo del sorriso? E le vecchiette vanno, sentendosi lodare…

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