Nel crollo

La città va in rovina. I venti la sferzano, gli dèi la hanno abbandonata. L’eccesso di presunzione degli uomini è risultato fatale. Si aggirano come oggetti animati e inconsapevoli. Si spalanca da tempo, presso i loro focolari, un abisso di amore e riconoscenza. Oggi l’inerme è debole e il fato è una dura necessità, una dura necessità. Vagano come greggi senza la nozione del gregge e cedono all’impero interiore del numero più stolido: non contano negli infiniti. Un infinito è maggiore all’altro, su questo non vi è dubbio, ma loro non sanno cosa sia un infinito e tantomeno cosa sia un numero. Il maggiore si è convertito in una ricchezza vile, così come si dice che il denaro è vile. Il minore è per tutti costoro l’abbassamento verso lo scolo della fogna e non conoscono più le gioie della polvere rossastra e della riesumazione di ciò che, veneratissimo, fu fossile e tornerà a esserlo. Coloro, umani, sono fossili viventi per un piccolo tratto di tempo, il quale è colla e pregiudizio, statua e non più monito. Restaurate gli antichi costumi e non avrete un uomo restaurato, non più. Pochissimi di coloro, determinati non si sa se per follia o cabbala, restano in piedi tra i resti fumanti di una civiltà pregressa e improponibile. Le loro lingue modulano il falso, nei loro orecchi si riversa una musica stolida, un basso alternato di frequenze infime e roboanti: questo è il rumore della fine, di qualunque fine! Ma tu, solitario e centrato nel punto in cui la procella è calma e i venti smettono il loro dominio, centrato nell’invisibile che è e tranquillo perché ogni mondo è dominato, resta immoto osservando, strappando te stesso alle pareti vorticose dell’ultima spirale: testimonia la fine, che è anche di te stesso e ama quanto riesci ad amare, senza infilare parola nella tempesta che infuria, essa stessa fatta di parole e forme instabili, assai spaventose – e varca la soglia dello spavento supremo.

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