Aggressione alla lingua: “Smetti di scrivere difficile!”

C’è un’obiezione che non reggo più davvero: riguarda la lingua. La semplicistica affermazione che un intellettuale deve scrivere semplice, non risultare ostico e, se possibile, nemmeno ostile – no stile, no ostile. Una controaffabulazione che punta sull’estinzione della complessità linguistica, una mansuetudine all’eterna neolingua dell’eterno neocapitalismo. Peraltro, la difficoltà aumenta nell’istante in cui una lingua ridicolmente enfatica e implausibilmente neologistica (cspita: quanti aggettivi ho impegnato! E prsino una traiectio! Le figure retoriche fanno male!) la impegna un sarpedòne come il supposto filosofo suppostamente erotico Diego Fusaro. Ed è poi tra l’altro tutta una questione di fama e di successo: Massimo Recalcati utilizza liberamente Jacques Lacan e va benissimo, anzi, si istituisce una zona di popolarità attraverso un ricorso linguistico che accontenta l’ex borghese e il restante ceto riflessivo. Se ci si sposta nelle aree, disciplinari e *di mercato*, più propense alla produzione di ciò che fu la lingua letteraria, dall’editoria al giornalismo mainstream, si noterà un timore tremulo, un pallore essudato, una vaghezza ipocrita a fronte di qualunque emersione di ordine stilistico – è il midcult post-letterario (qua sembro davvero Fusaro!), è l’emissione ammansita, pretraumatizzata, morbidissima, piana, ai limiti dell’insignificanza, in quanto il lettore e la lettrice non vanno aggrediti, sono anime belle che non vedono su Netflix qualunque horror e splatter o, se lo vedono, quando poi entrano in libreria, sono fantasmi harmony, innocentissimi bimbi (nessun bimbo è innocente), pudicissime animulae vagulae blandulae, spaventabilissime larve di tenue umanità. Questo opposto della levità e del peso pretende che le mucche si facciano mungere secernendo latte scremato. E’ il contrario della natura *e* il contrario della cultura. Ti spaccano il cazzo, se tenti una lingua complessa per ambiguità complesse e, al limite, tragiche. Mi ricordo tanto tempo fa, in uno dei miei ripetuti esordi letterari, la discussione editoriale sull’aggettivo “lattescente”, che avevo sventuratamente inserito nella prima pagina di un mio implausibile thriller: c’era questa atmosfera da apocalisse in atto, questa violazione suprema del comandamento dell’alta digeribilità, questo imperio dell’estinzione della mente, degli inconsci, dei superconsci, degli archetipi. Di colpo, gli archetipi erano diventati non potenze qualificate e dinamiche, ma algoritmi della buona narrazione, patenti per la commerciabilità non dell’idea, ma dell’assenza di idea. La preclusione del ridondante, della retorica come persuasione, dell’indecenza automatica della scrittura in sé, che prescrive cinismi e morbosità a ogni livello, diventava un’ideologia pragmatica, un sentiment del mercato. E che fine faceva il mercato? Si estingueva. Si inventava che un lettore forte è colui che legge un libro al mese: la pochezza zodiacale del dodici, numero sacro e apostolare, un archetipo che viene letteralmente speso in tempi di black friday morale e tanto più intellettuale. Questi operatori del nulla, che imponevano il codice della lingua più anonima praticata nella storia umana, assistevano alla fine del mercato della cultura e lo corroboravano con un entusiasmo sospetto, privi di sanzione come erano e come sono, poiché, se la scrittrice o lo scrittore si incazzano, poi ci mettono due secondi e mezzo a denunciare la cospirazione del silenzio e del securitarismo (io lo feci in un libro titolato “L’anno luce” e mal me ne incolse 😀 ). Oggi questa pratica della semplificazione giunge a estremi tipici di un’evoluzione digitale, di un’accelerazione tecnica che impone l’azzeramento della componente emotiva e di quella cognitiva. L’imbecillità come valore non isola più i Bouvard e Pecuchet del 2.0, ma li porta in trionfo come eroi impliciti. E’ un pensiero unico, che quindi non è pensiero. Non si contano più le occasioni personali in cui, alla proposta di un testo un minimo ornato, arriva il rimprovero che l’intellettuale è contro il popolo, perché necessariamente il popolo è bue, il che viene rivendicato con forza in questi interventi censori: si è fieri di essere bovini, non di essere popolo. Della dialettica non resta traccia alcuna, poiché ciò che colpisce qualunque stile è al contempo ciò che colpirà qualunque contenuto. Del resto non c’è molto da sperare circa i destini del fatto linguistico – si va a nicchia, sempre più piccola, fino all’inesistenza, entra un paio di decenni. Si sottraggono a tutto ciò i successi clamorosamente mainstream, i macroggetti che si impennano nelle vendite, ma che recano con sé, dato il carattere dell’epoca, l’irrilevanza stessa dell’autrice o dell’autore, che pure potrà accedere alle emittenti unite in tv, ma non riesce a scalfire l’immaginario collettivo, poiché non c’è più immaginario, ma soltanto polverizzazione del medesimo, e sul collettivo andrebbe anche fatta qualche riflessione dubitosa, poiché la generalità non è affatto il collettivo. Questo moloch impoetico è la cifra dell’estinzione della mente, dunque: la mia, così come quella di chiunque ha avvertito nel testo uno strumento di interpretazione e di messa in forse del mondo. Una sovversione può essere reazionaria: sì, lo dimostrano questi giorni tossici e accelerati. Se chi scrive non è più sovversivo, chi allora determinerà una sovversione? Si va in giro con la lanterna, cercando la donna e l’uomo della sovversione, piccoli Diogene forse troppo illusi da se stessi e dagli altri: e se ne trovano tantissimi, di sovversivi. Il genio c’è ed è molto diffuso. Ciò che serve è l’innesco del genio e, se la lingua non è più un mezzo per fomentare ciò che già è antagonista nella realtà, non mancheranno certo i modi per sostituire questa antica sorella: la lingua. Addio, antica sorella.

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