Il personaggio vuoto del Proprietario, tra “Fine Impero” e “Loro” di Sorrentino

Più prima che poi mi darò a osservazioni su “Loro” (1 e 2), il film di Paolo Sorrentino, ora che è passata la buriana di pareri a ridosso dell’uscita. Per ora, mi limito a considerare che per la seconda volta mi trovo implicato in un nodo poetico, che io, coi miei miserabili mezzi, e Sorrentino, con ben altri mezzi, abbiamo tentato di sciogliere, in direzioni e prospettive assai diverse. Il primo nodo poetico era costituito dal fenomeno Hitler, a cui io ho dedicato un libro e Sorrentino alcune scene fondamentali di “Youth”. Il secondo nodo poetico è Berlusconi: ho provato ad affrontare e universalizzare questa sagoma universale del potere in “Fine Impero” (minimum fax, 2012), Sorrentino ha addirittura consacrato addirittura una dilogia, che è poi un unico film, appunto “Loro”. Ecco cosa scrissi, partendo dalla sagoma vuota del tycoon milanese, qui detta “il Proprietario”, nel libro “Fine Impero”:

«Il Proprietario sembrava astenersi dalla corsa generale alla gozzoviglia. Ero molto spaventato. Le donne soprattutto mi sconcertavano. I denti assai bianchi, tanto da risultare grigi quasi, strappavano le fibre grosse di un brasato, ingollando i bocconi con troppa rapidità. E ai grandi sorsi di un dato Amarone le loro gote si accendevano, se ne vedevano quasi i capillari, la loro pelle di pesca si arrossava.

Avevo visto una volta una persona mangiare con la febbre addosso. Esistono febbri che danno questo effetto, scatenano una fame. E’ facile capirne la ragione, perché gli acidi scatenati dalla materia febbrile, intaccando i nervi del diaframma, vi producono uno stimolo che non si distingue sulle prime da un appetito naturale. Ma l’alimento non è digerito, non è assimilato nel chilo. Una volta si sottoponeva a salasso chi si trovava in uno stato simile.

“Quell’uomo è in grave pericolo” mi dice chinandosi verso di me la giovane donna, i rabbi ora puntano il Proprietario. “E’ un passo oltre la vecchiaia” conclude.

Molti sono morti dormendo. E’ paradossale che si avverta un eccesso di pericolo mentre la perdita si sta consumando, è tutto finito già eppure si ha paura. Sarebbe un errore, se non fosse inevitabile, inscritto in un qualche genoma spirituale di questa specie con molta probabilità.
Prese il pane, lo sbriciolò, ne mangiò, capotavola.

Intanto fui distratto da un nuovo fenomeno, che catturò tutta la mia attenzione e dunque che la televisione è sempre accesa anche quando sembra spenta.
Dallo schermo si poteva apprezzare una colata di immagini e di storia, vedendo in continuazione la sagoma presidenziale e raffrontandola a quella diversa che ho a poca distanza da me.

Egli sembra metallo sonoro.

Il vivente e il non vivente sono ormai un’unica indistinguibile cosa.

Il suo vestito non è altro che lui.

E’ venuto nella propagazione della carne.

Le giovani donne, le giovani bellezze: la giovane, per lui, carne.

Lo osservo. Continuo a osservare immagini.

Osservo la sagoma iridescente che si agita e urla e ritma nella televisione le parole fluttuando nello schermo azzurrino, rigato, in un’attenta comparazione con la sagoma di carne che vedo a poca distanza da me.

La sagoma iridescente nello schermo ha una pelle che pare metallo sonoro, è un magma di sequenze storiche e parole, mentre tutti qui attorno ridono nella crapula, le distanze si annullano, i genitali si preparano, la carne sta per dilagare, si è propagata. Alza il calice e beve.

Lo schermo del televisore sempre acceso illumina di luce azzurra tutti i volti distesi nella risata generale, le ragazze discinte, i vecchi amici e collaboratori, come forti rami di nocciolo, alzano il calice, assistono a un magma di storia delle immagini.

Giungono parole e subito abbandonano il luogo, quasi malate di insufficienza. Le parole trapassano lo schermo: in quale direzione? Sono ancora foniche? Sono istantanee, oramai, queste parole: svaniscono, appaiono per un unico istante isolato e quindi scompaiono. Queste parole sono inesistenti.
Dice agli schermi: “Qualcuno mi ha domandato prima come stanno i miei denti, a seguito dell’incidente che ha visto circolare libero chi me lo ha provocato. Ancora non sono riuscito a mettere l’altro dente, perché il nervo sotto ancora non guarisce e credo che sia un sacrificio abbastanza grosso, un rischio al quale sono andato incontro per il Paese”.

E’ davanti a me e poi scompare come qualunque sagoma luminosa dentro lo schermo che viene visto.

Noi fuori da qualunque schermo non lo saremo mai, rimaniamo per un attimo senza sapere che fare, come coloro che richiamati a una festa si trovano a fine della stessa nell’obbligo di ripulire e rassettare. Dura un attimo, qualche attimo. Senza quell’uomo siamo sospesi in un nonnulla.

Quindi il consesso si scioglie, decine e decine di persone, invadono ogni locale della villa che è centrale, si spargono, fanno ciò che devono fare. Dove sia l’uomo non si sa. Lo si cerca invano.

Era tutta carne apparente, una carne compatta ma priva di ossa, solida ma senza muscoli, sanguinante ma senza sangue, vestita ma senza abito, affamata ma senza fame, che mangiava ma senza denti, che parlava ma senza lingua e con una fantasmatica parvenza di voce.

Era questo.

[…]

Il Proprietario si volta verso di me, lentamente, l’unico umano presente, cerca il mio sguardo? Ruota, legato nei muscoli dorsali, il collo immobile, ruota impedito. Sarebbe bello nuotare nell’aria e non riuscirci è una pena infinita, essere come una pietra. Si sente come il Pirata? E’ abbandonato?
Si volta verso di me, tirata la pelle come una sacca carnale, gli occhi due fessure, la bocca una fessura, le labbra due innesti, la capigliatura artificiale, la mano verso di me come a fermarmi o ad aggrapparsi, lentissimo.

E’ vecchio. Tende la mano lenta. La pietra ti guarda.

Questo è l’impero. Dov’è la sudditanza?

Gorgoglia qualcosa di indistinto. Il linguaggio non gli basta più, lui esorbita.

Pare sia maschera di una persona sottostante, anonima, passibile di qualunque qualificazione. Non è carne e non è sangue sotto questa maschera da uccidere: è solo un’idea. E nemmeno un’idea: è una smania, una potenza. E’ come una crepa elettrica, un fulmine oppure un serpente, che varca tutti i cieli universali, attraversa i legami molecolari, una smania, una potenza che fa le forme, vuole vivere, vuole propagarsi, vuole mangiare. E si inventa la carne, questa pasta, perché si possa propagare il suo sentimento di fame da tenia, che lega le cose e le limita in una forma. Lui non sa nulla di tutto questo.

Il Proprietario è posseduto.

E’ vecchia, la sua carne. E’ fragile, si scolla.

Non è più data la padronanza, nemmeno del gorgoglìo di suoni metallici.

Chi si sente come lui? Sembra colpito? Lo sa che tutto lo abbandona? Si rende conto di non avere mai regnato? Che mai è stato l’imperatore?

Essere alla fine, certa, conclusiva, priva di qualunque appello, priva di qualunque redenzione.

Nessuno è protagonista, nella qualità dell’imputato, della storia dell’universo.

Alza la mano, la tende aperta verso di me, nel buio gorgoglia qualcosa di indistinto.

Torna lentamente a vedere lo schermo, il collo in avanti. E’ fermo, un istante infinito, immobile, una pietra, come della polvere, nel buio. E’ seduto e curvo e pallido, davanti allo schermo.

Esco, apro la porta ed esco, mentre è nella televisione quell’immagine imperiale, primaria, sta sussurrando qualcosa, mi fermo, tento di capire quanto forse sta dicendo, la televisione si sovrappone con la sua miscela di storie e immagini, confonde le parole.
“La mia è una passione che è nata fin dai primi anni della mia giovane età, quando sono stato appassionato, e quindi l’ho sempre avuta”.»

Marco Belpoliti su tuttoLibri: su “Io sono”

Una lavagna nera perla critica della ragion impura di Genna

di MARCO BELPOLITI
[La Stampa, ttL, 30 maggio 2015]

Senza-titolo-1-e1424533197642La copertina è fustellata in modo che si apra una «finestra» quadrata. Dentro c’è un’immagine: un riquadro nero racchiuso da una cornice, su cui è scritto «Et sic in infinitum». Si tratta di un dettaglio della pagina nera di Robert Fludd, tratta da un’opera intitolata: Utriusque cosmi maioris scilicet et minoris metaphysica,physica atque technica historia, e pubblicata da Oppenheim nel 1617. Nessuna immagine definisce meglio l’opera di Giuseppe Genna, sia questa su cui compare (Io sono), sia la sua opera narrativa in generale. Genna è un discendente di Fludd, medico teosofo e alchimista, vissuto nel corso del Rinascimento e l’inizio dell’età barocca. E alchimista è anche Giuseppe Genna, che prova qui a fondare una teoria e una pratica della coscienza.
Cosa sia Io sono non è facile da dire. Un libro di filosofia, un’autobiografia in forma di pensiero, un manuale di terapia della coscienza, uno studio sulle origini della medesima, un saggio letterario, un’esperienza estatica in forma di riflessione, una pratica di ricomposizione del trauma?
Tutto questo, ma anche un saggio di epistemologia condotto da un autore coltissimo e insieme meravigliosamente dilettante, quel dilettantismo che è proprio solo dei poeti e degli scrittori che prescindono da tutto e tutto affrontano. Io sono è un modo per scagliare il proprio Io al di là del muro del narcisismo corrente, elevarlo nel Regno che si apre oltre le identificazioni personali. Si tratta senza dubbio di uno scritto terapeutico, un gigantesco sforzo d’ingaggiare un confronto-scontro con le proprie pulsioni più profonde. Incanalate nelle elucubrazioni di quest’opera singolare, le parole di Genna costituiscono un viaggio dentro la mente estatica, uno dei pochi viaggi oggi possibili ai lettori in lingua italiana. L’estenuazione filosofica degli «istanti coscienziali», opera dell’autore di Fine impero (minimum fax), è perfettamente rappresentata dalla copertina: la «lavagna nera» di Fludd.
Scrivendo la sua «critica della ragion impura», Genna ha cancellato sulla superficie della sua mente tutto quello che c’era prima, e vi ha inscritto un nuovo segno calligrafico, in verticale e in orizzontale: cardo e decumano del suo pensiero zizzagante. Sul fondo bianco elegantissimo della collana «La Cultura» dell’editore il Saggiatore, la «lavagna» di Fludd appare come uno spazio altro, remoto e insieme vicino, dove «io sono». Per sempre, e al nero.

Giuseppe Genna
«Io sono»
il Saggiatore, pp. 326, € 18

“Alias” su “Fine Impero”: la complessa recensione di Fabio Zinelli

genna_fineimpero_3d_tn_150_173E’ per me sorprendente il ragionamento (complesso, strutturato, pertinentissimo, mai declinato al giudizio di gusto) che il critico Fabio Zinelli ha pubblicato domenica 24.11 su Alias, supplemento culturale de il manifesto, a proposito del tentativo testuale che va sotto il titolo Fine Impero. Si tratta, semplicemente, del rilievo fenomenologico e teorico più interrogante e intellettualmente profondo, che mi sia stato mosso da quando pubblico.
La temperie è tale che, muovendomi in quotidianità otturata da impegni lavorativi e personali, io non possa immediatamente rispondere, controdedurre, come di fatto vorrei. Al più presto, cioè appena possibile, lo farò, sebbene io non conosca Fabio Zinelli né abbia contatti con lui. Nel frattempo lo ringrazio, così come ringrazio i responsabili di Alias.
Ecco il testo in pdf:

icona_pdf_bigFabio Zinelli – Alias – Il manifesto | LA BABILONIA DEL NORD IN SALSA POSTMODERNA: UNA BALLATA ORFICA SUGLI ANNI ’80-’90

“Fine Impero” resumé

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Fine Impero è disjecta membra. Qui esse vengono radunate, a mo’ di “centrale” o di obitorio. Tutto ciò che ruota intorno al libro ed è raggiungibile via Rete viene qui radunato in progress (voci prive di link ne saranno corredate a breve):

 

Il racconto a tweet ispirato a “Fine Impero”

bozzetti_fineimpero_falcinelliUn racconto inedito ispirato a Fine Impero, in 100 tweet, dunque ogni blocco di testo entro i 140 caratteri, quotidianamente somministrato agli interessati da@minimumfax su Twitter e, a fine giornata, depositato su Storify: è stata un’esperienza di scrittura estremamente interessante, di fatto un corpo in continuità col libro.
Si tratta di una trenodia in metrica barbara.
Il protagonista è lo io, insieme allo Zio Bubba: due non-personaggi che dominano e imperano in Fine Impero.
Il racconto è stato pubblicato anche su minima&moralia.
Ecco il testo definitivo, di fatto appartenente al corpus del libro.

***

Questo è dedicato a @tommasopincio.

Molte persone nella nebbia dell’inverno, carica di incenso, fuori del cerchio della città vanno, guidate da due orfani al contrario.

Suole su ghiaia: un corteo funebre, il padre con la piccola bara bianca, dentro dondola il cadaverino, la madre è una statua. È sepolta.

Il padre ero io.

Chi uccise la bimba a 10 mesi? Sprofondavo nel dolore cattivissimo, acerbo e ulteriore, dietro le lapidi nel cimitero mi guardava un uomo.

Conoscevo quell’uomo: era lo Zio Bubba. Vestito di bianco, una enorme vaporosa Nuvola di Drago umana.

È un antipasto asiatico, sfogliatine fritte da farina di tapioca e gamberi, dal cinese 炸庀虾片, gratis per tutti all’inizio coi panni caldi.

Zio Bubba era vicino al Proprietario dell’Italia, aveva eretto un impero di luce e corpi da mostrare. Spettacoli, feste, tv, altro ancora.

Avevo conosciuto lo Zio Bubba, faccia flaccida e sorriso di bimbo malizioso, in un privé di moda a una festa, disse: “Ciao, la festa è mia”.

Lo Zio Bubba davanti a corpi giovani allacciati, diceva “spettacolo è il talento, io poi sono a capo di questi nomi, queste cose. Vieni!”

Lo scrittore che ero, fallito, un grande dolore di vivere tutto questo dentro, aveva detto: “Non so” e lo Zio Bubba: “Dài, mangiane. Vieni”.

Aveva anche detto: “È permesso guardare la sventura a tradimento per soccorrerla”.

Il cadaverino sul tavolo in alluminio nella morgue appariva un coniglio spellato. Il cielo strideva con tutti noi sul ghiaìno al cimitero.

Nella scatola laccata bianco della piccola bara trapuntata dentro in cotone, delicatamente pendola il peso della bimba di 10 mesi.

A Casa di Zio Bubba i segreti erano traffici intorno all’entourage del Proprietario. I corpi continuavano a allacciarsi, ragazzi e ragazze.

La voce premierale nello schermo cinescope della tv diceva: “Sono il protagonista come imputato della storia dell’universo”.

“Ciascuno si diverte nella sua propria fiction” aveva detto Zio Bubba carezzando quei corpi oleosi di luce propria, sulle scapole tatuate.

Le feste sono lontane infinitamente: aria calda e drink e toilette a polveri bianche nelle gengive sopra i denti, specchiandosi altri.

È notte, Zio Bubba ordina: “Proviniamo!”. “Chi?” chiedo, io. “Una ragazza, il talent”. “Quale?”. “Musica, chef, enogastro, vediamo, ballo”.

Scendiamo, andiamo a provinare. Nell’ascensore c’è aria condizionata. Sono a contatto con la sua pancia gonfia di sogni promozionali.

Nello studio dabbasso tutto è pronto per questa ragazza, naso norcino e bellezza del corpo. Sopra continua la festa con i suoi echi.

Lo Zio le conferisce il titolo di donna del momento, le infila un rotolino di bresaola alle labbra, lei lo mangia, la divora con il sorriso.

“Cosa sei?” le chiede a voce stridula. Osservo i faretti televisivi, gli operatori, ombrelli da Blow-up. “Ballo, canto, eccetera” risponde.

“Devi studiare per volere tanto questo. Non è facile questo campo. Lo spettacolo dà illusioni di potere fare tutto!” s’esprime lo Zio Bubba.

La ragazza lecca un tatuaggio della mano e scuote il bacino. “Tipo danza del ventre!” “No, la lap dance, ma il palo è immaginario” risponde.

Avvinta a un palo inesistente, assistiamo in tutto e per tutto allo spettacolo lap di lei, seduti pontificali con i nostri sguardi ovunque.

La ragazza è discinta e le trovano un tumore ovarico tra qualche mese, ma si salva, grazie all’intervento dello Zio Bubba all’Oncologico.

“Presa!” grida lo Zio Bubba, batte le mani forte e clamorosamente. Ma c’è sempre un ma: dalla finestra sono blu le sirene lampeggianti.

Entrano con i registri, Guardia di Finanza e polizia non tributaria. Notificano la carcerazione. “Chiamate le telecamere” dice ai suoi.

Offre i polsi di pelle bambina alle manette, non ve n’è bisogno, sorridendo con una bocca a ciliegia insinua: “Non è me che perseguono”.

“Attaccano chi ha portato il Paese dove è ora e non vogliono che sia, una persecuzione malvagia per condurlo al suicidio. Non ci riescono!”

Squillano insistemente i cellulari, delle forze dell’ordine. Rispondono congestionati. Lo Zio Bubba è calmo. Vanno via. “C’è la festa su!”

Ma “Basta festa!” dice, dando disposizioni circa il SUV, che sia pronto. “Giriamo la notte, là fuori c’è la Brianza che ci aspetta!”

Noi ci troviamo in questo momento in corsa in una lunghissima curva della pista: pianura di nebbia fetida, chioschi, conigli sbranati, fari.

Zio Bubba illustra la Brianza: “È nato tutto qui, io, tutti, noi! All’inizio le trasmissioni le facevamo ignorando i tempi, i ritmi”.

Sento dolore. Devo impalare me stesso nella realtà. Nel tumulto dei cembali io sto in silenzio. Termina la narrativa. Addio, narrazione.

Ecco: rallentiamo, svoltando. Un cancello elettrico dotato di circuito chiuso s’apre. Uomini in nero ispezionano con i radar sotto il SUV.

Lo Zio Bubba fa la legenda e dice: “Questa è la Villa. È sua. È il cuore della Brianza. Batte spiritualmente”. E poi: “Io lo amo”.

Nel silenzio notturno dell’ispezione la natura è addomesticata: i grilli, le nottole, tutti i lipidi in noi.

Io mi ricordo la televisione accesa nel salotto con il divano blu sfondato e i quadri di teosofi comunisti, bui, alle pareti. Vedevamo.

Claudio Lippi e Ettore Andenna poi sopra il ghiaccio in un palazzetto dello sport francese, era “Giochi senza frontiere”, un programma.

Quella era l’Europa composta da San Marino che giocava sempre contro il Lussemburgo, con arbitri severi in gare a fischiare tutto.

Claudio Lippi e Ettore Andenna con una donna sempre incitavano in un microfono che si chiamava “gelato”, peloso dove si parla.

Vestiti carnevalizi compivano fatiche molto estese sui nostri cervelli bambini. Fingevano situazioni tipo: i boscaioli, le piramidi.

Allora tu tifavi San Marino e era per sempre tra quei giochi uguali mentre moriva Aldo Moro.

Una volta, ricordo, lì dicevano che bisognava spegnere la luce tutti assieme in Italia, quando lo dicevano loro e tutti la spensero.

Non esisteva ancora Bruxelles nella mente e le madri facevano la tinta con un henné terra bruciata per avere capelli ramati.

A “Giochi senza frontiere”, tra le difficoltà, non moriva mai nessuno ed erano felici, anche se sconfitti. Non esisteva mai la morte.

Tutto questo lo aveva inventato tra gli altri lo Zio Bubba, esportandolo nella Brianza in una prima emittente privata vicino a Legnano.

Lì costruivano, anche Enzo Tortora, programmi discinti, molte donne giovani nel fango a lottare: era “La Bustarella”, sempre Ettore Andenna.

Partiva tutto di lì con un desiderio infinito verso i cieli di Lombardia.

Nella tv satellitare dell’iPad in questo SUV dove siamo ispezionati il premier italiano sta parlando di se stesso e tutti noi a sorpresa.

“La mia è una passione che è nata fin dai primi anni della mia giovane età, quando sono stato appassionato, e quindi l’ho sempre avuta”.

Ci fanno passare. Una scorta ci segue. C’è lo scricchiolio sulla ghiaia dei copertoni. Nel buio si avvicina un molosso: “È la Villa”.

Zio Bubba tracima di gioia quando vede il Proprietario che arriva sorridendo nella notte della Brianza e si abbracciano. Cosa è il tremendo?

Dentro c’è una festa in un locale, sotto, enormemente ricoperta di corpi e cose: si muovono ondeggiando, bevendo assenzi.

Dei ragazzi parlano del 2.0 e dei social. “C’è un ritorno a quei piccoli social network di nicchia ad invito privato”. “Vuol dire business”.

“Sì, perché il grande business del porno è: finito”. “Resistono vecchie glorie. Veronica Moser ha capitalizzato con il suo official site”.

Veronica Moser era una pornodiva e è che mangia la cacca.

Le ragazze discinte sembrerebbero luminose se non reggessero ombrelli in costume. Fingono piova. I ragazzi: vestiti da templari, con gladii.

L’un l’altro guarda e del suo corpo esangue sul pomo della spada appoggia il peso.

Tante modelle giovanissime ucraine parlano di Femen, Putin, Pussy Riot. Si guardano invidiandosi, invidiano alle italiane le labbra spesse.

L’invidia allunga il laccio di malizia che tende alla gente e festeggia scandalizzando gli altri.

Nella festa sono, io, in una bolla, galleggiante in un dolore estremo e sordo, in una separatezza di sofferenza e storia, negata, nel buio.

Niente è più vuoto di un sarcofago vuoto. In una stanza attigua, museale elettronica sotto allarme, vedo disteso un sarcofago in una teca.

Ligneo, dipinto in lamine auree e polvere di lapislazzulo triturato, sotto faretti nel buio ha occhi spalancati. È un faraone vivo e morto?

Guarda ovunque reggendo due bastoni ricurvi heqa. All’interno filtra il puzzo mummificato di un cartiglio antichissimo con le mebrane.

Mi guarda in questa fiction di vita. Io sono nel buio. Lui è nella luce.

“Diventeremo quello. Già lo siamo: faraonici”. È il Proprietario. È alle mie spalle. Mi volto, ne apprezzo la grana epidermica del volto.

Spira da lui un sentore di incenso come nei completi che indossano nella bara prima di seppellirli.

Perché come fossero vivi vestiamo i morti? Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi!

“Una volta conobbi Niki Lauda dopo l’incidente. Lei ricorderà: pilotava la Ferrari. Nel 1976 al Nürburgring, la monoposto prese fuoco”.

Io: “Ricordo perfettamente. Lauda rimase intrappolato nella vettura in fiamme. Uscì dall’ospedale con ustioni gravissime. Volto sfigurato”.

“Infatti. Non chiesi nulla a Niki Lauda, quando me lo presentarono. Avvicinai la mano alla sua guancia, sentii la plastica di pelle”.

Era un morto vivo ridotto a plastica combusta, con i denti incisivi fuori e senza ciglia, un sarcofago che mangiava la propria carne.

A quel punto il Proprietario crolla per un infarto miocardico acuto. Dodici secondi di spasimi e muore.

Io vengo travolto dalle scorte e dalle ragazze e i ragazzi dentro il panico congestionato. Tutti i suoni sono ostinati. Le sirene lancinano.

Il corpo si snoda, tentano la rianimazione. Versa in una condizione nuovissima. Socchiude la bocca morta, una schiuma un poco si addensa.

Lo spostano, lo agitano. Egli sembra metallo sonoro.

Il vivente e il non vivente sono ormai un’unica indistinguibile cosa.

Il suo vestito non è altro che lui.

È venuto nella propagazione della carne.

Le giovani donne, le giovani bellezze: la giovane, per lui, carne.

Lo osservo. Continuo a osservare immagini.

Portano via il cadavere. Il cadavere è l’autentico sarcofago.

Dove era la festa e passano ora i servizi e militari agitati è vuoto. Gli schermi continuano a rappresentare immagini del premier.

Dice il premier degli italiani: “L’amore vince su tutto”.

Quando moriva le iridi appannate diventarono di pesce e si contrassero le labbra bianche, il corpo cadde, il jiva si ritraeva sontuosamente.

Lo Zio Bubba in fretta dietro la salma che si pensava recuperabile muoveva agevolmente il corpo flaccido, mi osservò come una telecamera.

Su una tavolata antistante quella del buffet vi era una serie di cadeau per le ospiti, ninnoli che luccicavano innocentemente.

Lo Zio Bubba piangeva senza accorgersene stando dietro una barella a body bag, sembrava un eunuco persiano affranto.

Ululava di dolore come uno scotennato dagli indiani nella fantasia dei bambini con le pistole finte nei Settanta.

“I timoni dei giornali da rifare questa notte. Tutti i giornalisti d’Italia diranno una cosa sola. Ha vinto lui”. Era un direttore di tg.

Ognuno di voi avrà sentito il sonno morbidissimo, il vortice dolce che si adagia sul letto, i flaconi nella luce chiaroscura, la lettiga.

E poi, improvvisa, la quiete.

Al cimitero c’erano tutti uniti nell’ustione del dolore faraonico, effettuavano atti dimenticati subito da tutti, anni evaporati in un’ora.

Lo scrittore non esiste più, compiendo il fallimento con una gioia lenta di crepuscolo maturo e albicocca, che si allarga al mondo.

È come vivere in una terra tragica in un tempo tragico. Era un battere di tamburi che udivo, era fame, erano gli affamati che gridavano.

Le onde erano soldati in movimento. Le aurore vestivano l’idea immateriale. Tutti noi eravamo padri e madri di figli morti e piangevamo.

Non vidi più quell’uomo, il suo corpo grande e bianco, rattrappito in me passavo a un nuovo impero, stando nel precedente.

Il racconto a tweet ispirato a “Fine Impero”: loading 50%

ziobubbaUn racconto inedito ispirato a Fine Impero, in 100 tweet, dunque ogni blocco entro i 140 caratteri, quotidianamente somministrato agli interessati da @minimumfax su Twitter e, a fine giornata, depositato su Storify: è un’esperienza di scrittura estremamente interessante, di fatto un corpo in continuità col libro.
Si tratta di una trenodia in metrica barbara.
Il protagonista è lo io, insieme allo Zio Bubba: due non-personaggi che dominano e imperano in Fine Impero.
Seguite lo hashtag come dice Formigli.
A oggi, siamo alla pubblicazione di metà del testo.
Qui sotto, la finestra da Storify in cui si depositano i tweet narrativi. Al termine dell’emissione dei 100 tweet, il racconto verrà compattato e pubblicato in una splendida sede di cui si daranno per tempo notizie.

//storify.com/minimumfax/fineimpero.js[View the story “#FineImpero” on Storify]

Linkiesta: intervista su “Fine Impero”

Michele Weiss mi ha intervistato per il bellissimo portale Linkiesta.it, a proposito di Fine Impero e anche un poco oltre – domande che superano i 360°… 🙂 Ringrazio Michele e lo staff del sito.

L’INTERVISTA SUL PORTALE LINKIESTA.IT

 

Conversazione con l’autore

Giuseppe Genna: “Non c’è scampo alla fine dell’impero”

di MICHELE WEISS

Fine Impero racconta il crollo epifanico di una civiltà che ha smesso dall’inizio di essere tale

genna_impero (2)È arrivato nelle librerie “Fine Impero” – Minimum Fax – l’ultimo romanzo di Giuseppe Genna. Si racconta la storia di uno pseudo-scrittore fallito che, dopo la morte della figlia di dieci mesi, in preda a un dolore così forte da cambiargli la struttura del viso, si tuffa nella Milano del circus tv – zeppo di tronisti, modelle e fiumi di droghe – manovrato da Zio Bubba, strambo personaggio che lo trascina a una festa in cui aleggia la presenza di uno sfuggente e decrepito padrone di casa (che assomiglia all’ex premier Berlusconi). Un singolare voyage au bout de la nuit contemporaneo, a metà tra narrazione pura e spunti di critica antropologico-letteraria e filosofico-politica – in cui l’Io romanzesco collassa nella miriade di episodi e immaginari innescati dal proprio tuffo nella più grande deriva splatter del post-moderno.

Anche “Fine Impero” ha un immaginario denso, materico e ipercontaminato: a scegliere un’immagine non letteraria, fa pensare a una crocifissione sospesa a metà tra quelle di Grünewald e Bacon (ma forse più di Grünewald). Tu ne avrai mille altre.
“Fine Impero” è uno strano romanzo, secco e impostato su un basso continuo. Le analogie con la pittura, da un punto di vista meramente personale, sono quelle con i Rothko della Chapel, certi yantra indiani di medio periodo e il “San Sebastiano” di Antonello. Ciò riguarda premesse e esiti e momenti interni della scrittura. Quanto a rappresentazione dell’affollamento compresso di immagini e immaginarii, Grünewald è perfetto, nella sintesi tra luce e carne della “Crocifissione”; oppure, da un punto di vista laicissimo e molto sociologico, il ciclo di Terry Rodgers, “The fluid geometries of Illusions”. I riferimenti espliciti e le citazioni sono tuttavia fuori dalla pittura, richiamano espressioni che vanno dalla fotografia non artistica di Alex Prager ed Erwin Olaf a certi frame di Bill Viola, al “Censimento” di Anselm Kiefer. In ogni caso ciò che mi ha più impegnato nella stesura del romanzo e che richiamo continuativamente è il film “La notte” di Michelangelo Antonioni.

La neonata che muore ha una valenza simbolica che parrebbe evidente, ovvero la morte della purezza e/o della possibilità del nuovo – oppure c’è dell’altro?
No. il libro si rifà a una poetica del trascendimento del simbolico, che in epoca nostrana ha molte manifestazioni, dal teatro di Jerzy Grotowsky alla critica di Peter Szondi; dalla filosofia di Gilles Deleuze alla teoria di Jacques Lacan; dalla scrittura di Don Delillo alla saggistica di Michel Houellebecq; dall’arte di Carsten Höller al cinema di David Lynch. La questione che si dà è sfuggire alla solidificazione del significato simbolico. Il simbolico non lo si traduce, non è una metafora o un’analogia. La bambina è tutt’altro che pura: muore e impone un dolore acutissimo e psichicamente insormontabile. La bambina è innocenza feroce. Inoltre è una bambina e non la Bambina, non può essere un simbolo. Il simbolo manifesta il trascendimento, si tenta di forare il simbolo, la sua immagine cangiante, si tenta di entrare nello spazio a cui esso veicola. Ci si chiede, nel libro, come sia possibile che chi perde i genitori sia “orfano” e chi perde i figli non sia etichettato da una parola specifica – ecco, è quello lo spazio a cui si tende, siamo consapevoli di quello stato eppure non si parla… la parola si sottrae introducendo a una pratica indifferentemente terribile o oscena o gioiosa. Stare nel niente, che non può mai essere niente. C’è un equivoco che si manifesta, evidentemente: la bambina muore e la società prespettacolare pure. Non è quanto intendevo scrivere.

Però sembra un libro in cui ci si occupa di un cadavere, da becchino e da anatomopatologo – o meglio, tutta una serie di cadaveri – la morte aleggia in maniera totalizzante, ma il vero grande defunto sembra essere l’Immaginario, inteso come possibilità di creare/dare vita a nuove visioni, nuovi sogni e quindi, a una vera nuova epoca: il grande scopo del libro è l’annuncio della morte (e il seppellimento) del postmoderno (o del suo soffocante trionfo definitivo)?
No. Esistono immagini di un parto a ciclo continuo, dall’inizio alla fine c’è un’ecografia che sarebbe un annuncio. Il libro è saturo di immaginari, non soltanto storicamente dati. A un certo punto siamo negli anni Settanta, sotto la luce fredda in una cucina piccolo-borghese, quattro umani immobili che mangiano apparentemente senza progressione temporale, nitidi, tutti unificati dal “pasto nudo”, che per William Burroughs era il momento preciso in cui si è consapevoli che la forchetta si avvicina e sta per entrare nella bocca: è un’installazione? Un quadro iperrealista? una narrazione minimalista? E, a proposito di installazioni, c’è un momento in cui il narrante, questo scrittore fallimentare e fallito che è l’avversario poetico del Jep Gambardella de “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino, per sopravvivere cerca di spacciare suoi lavori artistici, stanze che raccolgono immagini e luci nere, zodiaci fatti con statue in cera di morfologie umane patologiche – anche questo è immaginario. Non c’è bisogno di certificare artisticamente la supposta morte del supposto Postmoderno: al limite lo fa certa critica, certo giornalismo, certa storiografia. Il paradigma di base in cui cerco di muovermi è la letteratura, o, meglio, la testualità.

In “Dies Irae”, il sistema del terziario avanzato – la società della comunicazione – veniva descritto come una bolla, e il narratore diceva di non essere al passo di questo nuovo decennio. Cos’è cambiato qui? Il protagonista è sempre un outsider afflitto da un incurabile nichilismo di stampo umanista, ma alla fine sembra anche attratto dai salotti-format dello Zio Bubba con i suoi mostri bellissimi, che appare il motore immobile di questa società dello spettacolo putrescente.
Il protagonista è uno scrittore fallimentare e fallito. Vive un immedicabile dolore. Nel primo capitolo porta una piccola bara in cui è custodito il corpo della sua bambina, morta a dieci mesi. In questo dolore acutissimo o basso, comunque continuo, egli si muove in una nebulizzazione di una storia precedente, all’interno della quale è sussunta in micronizzazione anche la cosiddetta Società dello Spettacolo, la quale non esiste più, non ha più la forma che aveva quando essa significava uno dei paradigmi dominanti della vita occidentale. La lingua distorta è afona eppure molto, troppo carica di storia, di emblemi, di possibili analogie. Nel crollo del business e del suo erede, il b2b, nel collasso del digitale e dell’analogico, nell’ipertrofia della chiacchiera diffusa, nella crisi endemica e irreversibile della comunicazione, nell’esplosione degli schermi, appaiono corpi che non sentono di esserlo, psicologie che non sono tali in quanto è venuto meno il paradigma psicologico, emozioni prive di un soggetto unificante, moltissimi “io” a legioni sterminate senza che avvenga una centralizzazione dello sguardo dello “io”. Il protagonista di “Fine Impero” quali libri ha pubblicato? Perché dovremmo considerarlo uno scrittore? Perché ce lo dice lui? E il suo turismo nell’esistente, dolentissimo, è davvero quello del Pontano protagonista de “La notte” di Antonioni, laddove vediamo lo scrittore che presenta il suo libro con Livio Garzanti e Umberto Eco con Antonio Porta gli chiedono l’autografo? E che cosa nasce dal rivolgimento che essenzialmente significa ogni catastrofe? Avevo scritto in passato un libro, “Io Hitler”, per cercare di cogliere fino a che punto esistessero presso di noi le condizioni per parlare di una vittoria postuma di Hitler: eccole realizzate, le condizioni – sono manifeste.

Zio Bubba è chiaramente ispirato a Lele Mora e al suo circus. Pensando anche a Videocracy che ha mostrato il fenomeno su larga scala ma in forma più o meno docu, tu invece lo hai trattato con i crismi dell’“iperrealtà”, caricandolo ancora di più fino a stravolgerlo: non hai temuto quindi che la semplice “datità” della cosa – mostrata dai video e poi dai processi – fosse più efficace?
Non esiste proprio, per quanto mi riguarda, l’idea dell’efficacia, e meno ancora mi interessa la prospettiva sul personaggio. “Io”, il personaggio centrale e illusorio, è miliardi di personaggi. “Videocracy” è molto bello, sociologico, un documentario interessante, l’ultimo sguardo di Silvio Berlusconi alla telecamera di Gandini in mezzo a centinaia di telecamere che egli riesce a centrare tutte, è un emblema notevole. Non è però il ciclo di vita di Lele Mora a interessarmi. In “Fine Impero” mi interessa una modalità mentale dell’imperio, che certo è passata attraverso spettacolo e dominio politico, tra ribaltamento valoriale e oscenità, e che però non si conclude affatto con il tramonto della televisione o con il fatto che al posto del “Drive In” e dei reality arriva “MasterChef”. È uno degli indefiniti “compimenti” della mente occidentale a interessarmi. Lo spalancamento di un’evidenza, soprattutto: la fine dell’interpretazione, in occidente, del mondo come un testo misterioso da decifrare. Lavorare a un testo nella momentanea fine del testo è il punto in questione. Intorno a quel punto si affollano spettri, storie, pixel, echi, motivetti, lottatori e troie: è l’eterna migrazione della specie, che è eterna appunto finché la specie vive.

Esiste una risposta sensata al perché si diventa scrittori? Intanto, il protagonista cita rabbiosamente Kafka e la blatta de “La Metamorfosi” – è un omaggio a quel modo di vivere e praticare la letteratura?
Non ho nulla da dire a questo proposito. Credo che si manifesti un sentimento della lingua, molto precocemente, che incanta e si condensa in immaginazioni e storie, e che spinga per prendere una forma linguistica. Poi avviene del tutto naturalmente che la scrittura, non gli scrittori, porti l’assalto ai limiti estremo dell’umano. Pochi sono i geni che vengono veicolati dalla scrittura a quelle latitudini. Kafka è secondo me tra costoro.

La scena letteraria italiana appare “disrupted” oltre maniera, emerge tutto e il contrario di tutto, l’editoria sembra aver perso la bussola e le librerie come Hoepli e anche Feltrinelli sono in cassa integrazione senza che in apparenza nulla possa cambiare le cose: ha ancora senso parlare del libro e di letteratura – e di un mercato collegato?
Il libro è una cosa, il testo è un’altra, la letteratura un’altra ancora. Per decenni si è stati molto tranquilli, lottando ideologicamente su piattaforme di mercato industriale, declinato in questa formula superficiale: l’industria culturale. Era, come tutti gli stati, uno stato momentaneo. Si trattava di un mecenatismo a plurimo valore, che impulsava autocensure, spettacolarismi, patetismi e sentimenti di gloria. Quel tempo è finito. Finisce, prima che ovunque in occidente, qua in Italia, laddove è un dato antropologico a fare crollare quella piattaforma: gli italiani hanno in odio geneticamente la cultura, l’intellettuale, l’artista – è ciò che Wu Ming 1 chiamava “microfascismo antropologico”. Nessuno, se non pochi, oggi ritiene che la lettura di un libro sia un’esperienza immersiva capace di trasportare nello stato decisivo e interiore in cui si affaccia la domanda di verità e di senso – una domanda che non ha risposta: è impensabile, in quanto inefficace e frustrante, stare oggi in una domanda che rifiuta ogni risposta. Che poi le cose debbano cambiare è un’illusione ottica, a mio avviso: è una richiesta alla realtà che appartiene a paradigmi pregressi, sociologicamente minoritari oggidì. Comunque, le cose cambiano.

Dall’epopea di Clarence alla tua webzine “I Miserabili” fino al wall interattivo con i “cascami” di Fine Impero: il web e l’avvento del digitale li hai vissuto dal principio – com’è cambiata la rete e la produzione di contenuti digitali in questi quasi vent’anni?
Sono rimasto sorpreso dall’accelerazione: oggi è impensabile occuparsi di contenuti. La Rete è il luogo in cui, quanto alle professioni, si realizza il peggiore precariato cognitivo del momento. Da anni c’è Facebook, che ha contribuito all’alfabetizzazione di Rete attraverso la coincidenza tra back-end e front-end, e lì ci si è fermati. Twitter è angosciante, mi sembra di essere costretto a giocare ai videogames degli anni Ottanta mentre c’è il 3d. La retorica della battuta sarcastica, che fuoriesce dall’utilizzo della Rete in questo modo apparentemente ubiquo, è insopportabile e terminalmente enfatizzata da una pubblica opinione morente. Tutti gli sviluppatori sono dietro a fare app, nel Web non si impone da anni qualcosa di nuovo. Il trolling esiste dagli albori della Rete, quando nemmeno c’era il Web, quindi non mi scandalizza. Le quote di attenzione degli individui sono crollate. Gli streaming eiettano icone che hanno vita post-spettacolare per qualche ora. Nessuno ancora si è incaricato di fare arte con questa digitalità, così come pochissimi (penso a Lynch di “Twin Peaks” e a Kieslowski di “Decalogo”) si misero a fare arte con la televisione. Lo sviluppo degli hardware è la traiettoria: entreranno nel corpo e al contempo ci porteranno su Marte. La Rete è un passaggio, pensare che sia un contenitore era errato e sarà sbagliato. Niente di fatale, comunque.

Ti sei sempre occupato di politica anche se incidentalmente: a Roma per il sindaco al ballotaggio ha votato meno del 50% dei cittadini, vale il discorso per la letteratura/editoria o è pure peggio – sembra che ormai stia finendo un’epoca, con i cittadini che hanno abbandonato il capitano – ma chi guiderà la nave?
Quell’epoca è già finita ab initio. Si vota da pochissimo, in realtà. La militanza deve essere continua, condotta con acribia e ossessività. Non mi illudo che, senza strategie e volontà, si possa mantenere eretto il fronte democratico. Quanto alla situazione attuale: manca la sinistra in Italia, non esiste un contenitore realmente socialista, la barca non la guiderà Barca. Tutto ciò, però, non ha a che vedere con la letteratura.

Adelchi Battista: videorecensione di “Fine Impero”

Essere intercettati da chi si stima è una gioia che la vita riserva con generosità ambigua: diciamo che è un caso mediamente eccezionale. Per esempio, io stimo molto Adelchi Battista, l’autore dell’eccezionale romanzo, monoculare e corale al contempo, Io sono la guerra, un testo di testi che per me, che avevo pubblicato io Hitler, faceva scattare migliaia di archi voltaici e una corrente di inesausta ammirazione nei confronti di questo scrittore capace di allegorizzare tutto topicizzando ogni momento, montando e smontando non la storia bensì le storie tutte, mandando in secondo piano qualunque distinzione di genere. Quello di Adelchi Battista è uno dei libri che indubbiamente alzano il catalogo Rizzoli a vertici importanti, in anni in cui al catalogo non si pensa nemmeno sotto tortura. Nella comunità degli scrittori autentici di questa nazione slacciata, Adelchi Battista mi è parso uno dei nomi su cui puntare. Da editor del Saggiatore avrei voluto e vorrei pubblicarlo, a occhi chiusi.
Tra me e Adelchi Battista sono intercorsi tre messaggi di posta privata e un centinaio di commenti su Facebook. Mi imbarazza tantissimo, quindi, ascoltarlo e vederlo parlare di Fine Impero, accostarmi a scrittori che molto stimo (da Aldo Nove a Teresa Ciabatti), mentre ricorda i tempi in cui leggeva Catrame e arriva a identificare punti per me nodali del libro che ho appena pubblicato per minimum fax. Si dà per me un abbraccio totalmente gratuito, che ricambiavo a priori, adesso sembro goffo e interessato nel praticare un gesto di affetto e stima profondi, però giuro che è così – si stava nello sguardo reciproco che è uno e ci trascina di testo in testo, di opera in opera, miscelando vite individuali in un’avventura esistenziale che vale la pena di attraversare, e non perché si parla bene ognuno delle cose dell’altro, non è questo il punto. Sono felicissimo di questa recensione in video, ringrazio Adelchi Battista e anche coloro che saranno interessati ad assistervi.

Il tumblr di “Fine Impero”

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genna_impero (2)E’ on line il wall di Fine Impero: un sito a scroll infinito con video, testi, immagini, link e audio legati agli immaginari compressi nel libro. In continuo aggiornamento.

Parte un work in progress indefinito: lo scroll continuo e inesausto di materiali e materiali fatti deflagrare dagli immaginari che ho compresso in Fine Impero.
L’indirizzo del tumblr è:

http://giuseppegenna.tumblr.com

Ci sono video, canzoni, immagini, fotografie, quadri, testi, citazioni, volti e luoghi che vanno da Michel Houellebecq che canta a un documentario sulla vita di Massimo Boldi, da Gotico Americano al wrestler anni 80 André the Giant accompagnato a scuola da Samuel Beckett, dai Kraftwerk a Don DeLillo, da Tommaso Pincio ad Aldo Nove, da Ennio Doris a Franco Fortini, dalle modelle a Tom Ford – e così via, per uno scroll che via via sarà sempre più infinito.
A oggi siamo circa a 200 inserimenti. Di giorno in giorno crescerà.
Buon* visione lettura ascolto.

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