Un racconto inedito ispirato a Fine Impero, in 100 tweet, dunque ogni blocco di testo entro i 140 caratteri, quotidianamente somministrato agli interessati da@minimumfax su Twitter e, a fine giornata, depositato su Storify: è stata un’esperienza di scrittura estremamente interessante, di fatto un corpo in continuità col libro.
Si tratta di una trenodia in metrica barbara.
Il protagonista è lo io, insieme allo Zio Bubba: due non-personaggi che dominano e imperano in Fine Impero.
Il racconto è stato pubblicato anche su minima&moralia.
Ecco il testo definitivo, di fatto appartenente al corpus del libro.
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Questo è dedicato a @tommasopincio.
Molte persone nella nebbia dell’inverno, carica di incenso, fuori del cerchio della città vanno, guidate da due orfani al contrario.
Suole su ghiaia: un corteo funebre, il padre con la piccola bara bianca, dentro dondola il cadaverino, la madre è una statua. È sepolta.
Il padre ero io.
Chi uccise la bimba a 10 mesi? Sprofondavo nel dolore cattivissimo, acerbo e ulteriore, dietro le lapidi nel cimitero mi guardava un uomo.
Conoscevo quell’uomo: era lo Zio Bubba. Vestito di bianco, una enorme vaporosa Nuvola di Drago umana.
È un antipasto asiatico, sfogliatine fritte da farina di tapioca e gamberi, dal cinese 炸庀虾片, gratis per tutti all’inizio coi panni caldi.
Zio Bubba era vicino al Proprietario dell’Italia, aveva eretto un impero di luce e corpi da mostrare. Spettacoli, feste, tv, altro ancora.
Avevo conosciuto lo Zio Bubba, faccia flaccida e sorriso di bimbo malizioso, in un privé di moda a una festa, disse: “Ciao, la festa è mia”.
Lo Zio Bubba davanti a corpi giovani allacciati, diceva “spettacolo è il talento, io poi sono a capo di questi nomi, queste cose. Vieni!”
Lo scrittore che ero, fallito, un grande dolore di vivere tutto questo dentro, aveva detto: “Non so” e lo Zio Bubba: “Dài, mangiane. Vieni”.
Aveva anche detto: “È permesso guardare la sventura a tradimento per soccorrerla”.
Il cadaverino sul tavolo in alluminio nella morgue appariva un coniglio spellato. Il cielo strideva con tutti noi sul ghiaìno al cimitero.
Nella scatola laccata bianco della piccola bara trapuntata dentro in cotone, delicatamente pendola il peso della bimba di 10 mesi.
A Casa di Zio Bubba i segreti erano traffici intorno all’entourage del Proprietario. I corpi continuavano a allacciarsi, ragazzi e ragazze.
La voce premierale nello schermo cinescope della tv diceva: “Sono il protagonista come imputato della storia dell’universo”.
“Ciascuno si diverte nella sua propria fiction” aveva detto Zio Bubba carezzando quei corpi oleosi di luce propria, sulle scapole tatuate.
Le feste sono lontane infinitamente: aria calda e drink e toilette a polveri bianche nelle gengive sopra i denti, specchiandosi altri.
È notte, Zio Bubba ordina: “Proviniamo!”. “Chi?” chiedo, io. “Una ragazza, il talent”. “Quale?”. “Musica, chef, enogastro, vediamo, ballo”.
Scendiamo, andiamo a provinare. Nell’ascensore c’è aria condizionata. Sono a contatto con la sua pancia gonfia di sogni promozionali.
Nello studio dabbasso tutto è pronto per questa ragazza, naso norcino e bellezza del corpo. Sopra continua la festa con i suoi echi.
Lo Zio le conferisce il titolo di donna del momento, le infila un rotolino di bresaola alle labbra, lei lo mangia, la divora con il sorriso.
“Cosa sei?” le chiede a voce stridula. Osservo i faretti televisivi, gli operatori, ombrelli da Blow-up. “Ballo, canto, eccetera” risponde.
“Devi studiare per volere tanto questo. Non è facile questo campo. Lo spettacolo dà illusioni di potere fare tutto!” s’esprime lo Zio Bubba.
La ragazza lecca un tatuaggio della mano e scuote il bacino. “Tipo danza del ventre!” “No, la lap dance, ma il palo è immaginario” risponde.
Avvinta a un palo inesistente, assistiamo in tutto e per tutto allo spettacolo lap di lei, seduti pontificali con i nostri sguardi ovunque.
La ragazza è discinta e le trovano un tumore ovarico tra qualche mese, ma si salva, grazie all’intervento dello Zio Bubba all’Oncologico.
“Presa!” grida lo Zio Bubba, batte le mani forte e clamorosamente. Ma c’è sempre un ma: dalla finestra sono blu le sirene lampeggianti.
Entrano con i registri, Guardia di Finanza e polizia non tributaria. Notificano la carcerazione. “Chiamate le telecamere” dice ai suoi.
Offre i polsi di pelle bambina alle manette, non ve n’è bisogno, sorridendo con una bocca a ciliegia insinua: “Non è me che perseguono”.
“Attaccano chi ha portato il Paese dove è ora e non vogliono che sia, una persecuzione malvagia per condurlo al suicidio. Non ci riescono!”
Squillano insistemente i cellulari, delle forze dell’ordine. Rispondono congestionati. Lo Zio Bubba è calmo. Vanno via. “C’è la festa su!”
Ma “Basta festa!” dice, dando disposizioni circa il SUV, che sia pronto. “Giriamo la notte, là fuori c’è la Brianza che ci aspetta!”
Noi ci troviamo in questo momento in corsa in una lunghissima curva della pista: pianura di nebbia fetida, chioschi, conigli sbranati, fari.
Zio Bubba illustra la Brianza: “È nato tutto qui, io, tutti, noi! All’inizio le trasmissioni le facevamo ignorando i tempi, i ritmi”.
Sento dolore. Devo impalare me stesso nella realtà. Nel tumulto dei cembali io sto in silenzio. Termina la narrativa. Addio, narrazione.
Ecco: rallentiamo, svoltando. Un cancello elettrico dotato di circuito chiuso s’apre. Uomini in nero ispezionano con i radar sotto il SUV.
Lo Zio Bubba fa la legenda e dice: “Questa è la Villa. È sua. È il cuore della Brianza. Batte spiritualmente”. E poi: “Io lo amo”.
Nel silenzio notturno dell’ispezione la natura è addomesticata: i grilli, le nottole, tutti i lipidi in noi.
Io mi ricordo la televisione accesa nel salotto con il divano blu sfondato e i quadri di teosofi comunisti, bui, alle pareti. Vedevamo.
Claudio Lippi e Ettore Andenna poi sopra il ghiaccio in un palazzetto dello sport francese, era “Giochi senza frontiere”, un programma.
Quella era l’Europa composta da San Marino che giocava sempre contro il Lussemburgo, con arbitri severi in gare a fischiare tutto.
Claudio Lippi e Ettore Andenna con una donna sempre incitavano in un microfono che si chiamava “gelato”, peloso dove si parla.
Vestiti carnevalizi compivano fatiche molto estese sui nostri cervelli bambini. Fingevano situazioni tipo: i boscaioli, le piramidi.
Allora tu tifavi San Marino e era per sempre tra quei giochi uguali mentre moriva Aldo Moro.
Una volta, ricordo, lì dicevano che bisognava spegnere la luce tutti assieme in Italia, quando lo dicevano loro e tutti la spensero.
Non esisteva ancora Bruxelles nella mente e le madri facevano la tinta con un henné terra bruciata per avere capelli ramati.
A “Giochi senza frontiere”, tra le difficoltà, non moriva mai nessuno ed erano felici, anche se sconfitti. Non esisteva mai la morte.
Tutto questo lo aveva inventato tra gli altri lo Zio Bubba, esportandolo nella Brianza in una prima emittente privata vicino a Legnano.
Lì costruivano, anche Enzo Tortora, programmi discinti, molte donne giovani nel fango a lottare: era “La Bustarella”, sempre Ettore Andenna.
Partiva tutto di lì con un desiderio infinito verso i cieli di Lombardia.
Nella tv satellitare dell’iPad in questo SUV dove siamo ispezionati il premier italiano sta parlando di se stesso e tutti noi a sorpresa.
“La mia è una passione che è nata fin dai primi anni della mia giovane età, quando sono stato appassionato, e quindi l’ho sempre avuta”.
Ci fanno passare. Una scorta ci segue. C’è lo scricchiolio sulla ghiaia dei copertoni. Nel buio si avvicina un molosso: “È la Villa”.
Zio Bubba tracima di gioia quando vede il Proprietario che arriva sorridendo nella notte della Brianza e si abbracciano. Cosa è il tremendo?
Dentro c’è una festa in un locale, sotto, enormemente ricoperta di corpi e cose: si muovono ondeggiando, bevendo assenzi.
Dei ragazzi parlano del 2.0 e dei social. “C’è un ritorno a quei piccoli social network di nicchia ad invito privato”. “Vuol dire business”.
“Sì, perché il grande business del porno è: finito”. “Resistono vecchie glorie. Veronica Moser ha capitalizzato con il suo official site”.
Veronica Moser era una pornodiva e è che mangia la cacca.
Le ragazze discinte sembrerebbero luminose se non reggessero ombrelli in costume. Fingono piova. I ragazzi: vestiti da templari, con gladii.
L’un l’altro guarda e del suo corpo esangue sul pomo della spada appoggia il peso.
Tante modelle giovanissime ucraine parlano di Femen, Putin, Pussy Riot. Si guardano invidiandosi, invidiano alle italiane le labbra spesse.
L’invidia allunga il laccio di malizia che tende alla gente e festeggia scandalizzando gli altri.
Nella festa sono, io, in una bolla, galleggiante in un dolore estremo e sordo, in una separatezza di sofferenza e storia, negata, nel buio.
Niente è più vuoto di un sarcofago vuoto. In una stanza attigua, museale elettronica sotto allarme, vedo disteso un sarcofago in una teca.
Ligneo, dipinto in lamine auree e polvere di lapislazzulo triturato, sotto faretti nel buio ha occhi spalancati. È un faraone vivo e morto?
Guarda ovunque reggendo due bastoni ricurvi heqa. All’interno filtra il puzzo mummificato di un cartiglio antichissimo con le mebrane.
Mi guarda in questa fiction di vita. Io sono nel buio. Lui è nella luce.
“Diventeremo quello. Già lo siamo: faraonici”. È il Proprietario. È alle mie spalle. Mi volto, ne apprezzo la grana epidermica del volto.
Spira da lui un sentore di incenso come nei completi che indossano nella bara prima di seppellirli.
Perché come fossero vivi vestiamo i morti? Quanto più casta e giusta è la nudità dei corpi che li avvicina al loro finalmente disincarnarsi!
“Una volta conobbi Niki Lauda dopo l’incidente. Lei ricorderà: pilotava la Ferrari. Nel 1976 al Nürburgring, la monoposto prese fuoco”.
Io: “Ricordo perfettamente. Lauda rimase intrappolato nella vettura in fiamme. Uscì dall’ospedale con ustioni gravissime. Volto sfigurato”.
“Infatti. Non chiesi nulla a Niki Lauda, quando me lo presentarono. Avvicinai la mano alla sua guancia, sentii la plastica di pelle”.
Era un morto vivo ridotto a plastica combusta, con i denti incisivi fuori e senza ciglia, un sarcofago che mangiava la propria carne.
A quel punto il Proprietario crolla per un infarto miocardico acuto. Dodici secondi di spasimi e muore.
Io vengo travolto dalle scorte e dalle ragazze e i ragazzi dentro il panico congestionato. Tutti i suoni sono ostinati. Le sirene lancinano.
Il corpo si snoda, tentano la rianimazione. Versa in una condizione nuovissima. Socchiude la bocca morta, una schiuma un poco si addensa.
Lo spostano, lo agitano. Egli sembra metallo sonoro.
Il vivente e il non vivente sono ormai un’unica indistinguibile cosa.
Il suo vestito non è altro che lui.
È venuto nella propagazione della carne.
Le giovani donne, le giovani bellezze: la giovane, per lui, carne.
Lo osservo. Continuo a osservare immagini.
Portano via il cadavere. Il cadavere è l’autentico sarcofago.
Dove era la festa e passano ora i servizi e militari agitati è vuoto. Gli schermi continuano a rappresentare immagini del premier.
Dice il premier degli italiani: “L’amore vince su tutto”.
Quando moriva le iridi appannate diventarono di pesce e si contrassero le labbra bianche, il corpo cadde, il jiva si ritraeva sontuosamente.
Lo Zio Bubba in fretta dietro la salma che si pensava recuperabile muoveva agevolmente il corpo flaccido, mi osservò come una telecamera.
Su una tavolata antistante quella del buffet vi era una serie di cadeau per le ospiti, ninnoli che luccicavano innocentemente.
Lo Zio Bubba piangeva senza accorgersene stando dietro una barella a body bag, sembrava un eunuco persiano affranto.
Ululava di dolore come uno scotennato dagli indiani nella fantasia dei bambini con le pistole finte nei Settanta.
“I timoni dei giornali da rifare questa notte. Tutti i giornalisti d’Italia diranno una cosa sola. Ha vinto lui”. Era un direttore di tg.
Ognuno di voi avrà sentito il sonno morbidissimo, il vortice dolce che si adagia sul letto, i flaconi nella luce chiaroscura, la lettiga.
E poi, improvvisa, la quiete.
Al cimitero c’erano tutti uniti nell’ustione del dolore faraonico, effettuavano atti dimenticati subito da tutti, anni evaporati in un’ora.
Lo scrittore non esiste più, compiendo il fallimento con una gioia lenta di crepuscolo maturo e albicocca, che si allarga al mondo.
È come vivere in una terra tragica in un tempo tragico. Era un battere di tamburi che udivo, era fame, erano gli affamati che gridavano.
Le onde erano soldati in movimento. Le aurore vestivano l’idea immateriale. Tutti noi eravamo padri e madri di figli morti e piangevamo.
Non vidi più quell’uomo, il suo corpo grande e bianco, rattrappito in me passavo a un nuovo impero, stando nel precedente.