Una lettera a qualcuno da “Italia De Profundis”

italiadeprofundis[da Italia De Profundis, minimum fax]

“Carissimo,
la tua idea della letteratura mi fa schifo. Neanche: siccome non hai un’idea della letteratura, non posso nemmeno detestare qualcosa che non esiste. Il che significa che odio te, direttamente te, personalmente e nello specifico. Nonostante non ti incontri di persona da anni, conosco quanto dici e quanto fai, insistentemente, sempre – questo ronzio del moscone sulla merda e questo silenzio della merda davanti al calabrone sono, insieme, la medesima cosa: cioè te. Nonostante tu non abbia alcuna idea della letteratura, pensi di averla e propali il tuo credo imbecille che è praticamente ovunque. E’ un credo che è un’allucinazione collettiva e trascina tutto nell’abusata situazione di una ripetuta sodomia: politica, lavoro, musica, televisione, cinema, nutrizione, gioco – non c’è àmbito in cui questo credo non si sia spalmato e abbia mutato i rapporti che correvano tra queste espressioni umane e gli uomini. In praticolare, però, ai tuoi occhi tu incarni il messia di questo credo in àmbito letterario.
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Assegnato a ITALIA DE PROFUNDIS il Premio Corrado Alvaro

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum faxSono estremamente disinteressato ai riconoscimenti letterari, ma devo ammettere che l’assegnazione del premio Corrado Alvaro per la Narrativa mi onora per alcuni motivi. Anzitutto il premio viene conferito per Italia De Profundis, e quindi per un’operazione letteraria in cui ha creduto molto l’editore, minimum fax: è allo staff editoriale tutto di minimum fax che il premio è dedicato. Inoltre, si tratta dell’unico riconoscimento pubblico che sia mai stato assegnato a un libro da me scritto. Infine si tratta di un’iniziativa legata al nome di uno scrittore che mi è molto caro e a un luogo che reagisce con la cultura a una situazione sociale tragicamente nota.
Ringrazio la giuria e l’organizzazione del premio Corrado Alvaro, che andrò a ritirare di persona – come da statuto – il 14 novembre.

Letteratitudine su ITALIA DE PROFUNDIS

Giuseppe Genna - ITALIA DE PROFUNDIS - minimum fax[Sul blog Letteratitudine, gestito da Massimo Maugeri, che ne ha fatto un indispensabile crocevia di discussione umanistica sul Web italiano (tanto che qui è sempre segnalato nei feed in basso a destra, nella terza colonna), è apparso uno speciale su Italia De Profundis, che mi ha lasciato allibito: e per la struttura e per la qualità delle cose scritte e del dibattito nei commenti – ma soprattutto per l’intercettazione a cui viene sottoposto IDP da parte di Subhaga Gaetano Failla. Io non so, francamente, se sia buona cosa che le intenzioni dell’autore, anche quelle che emergono chiare a lui soltanto quando il testo è già stato scritto, siano così totalmente viste. Per certo, so che questo non è un criterio di valutazione letteraria. E’ tuttavia altrettanto certo che a me importa poco del criterio di letterarietà. Non credo di essere mai stato visto così tanto attraverso un testo dallo sguardo di un altro, se non in pochissime eccezioni, spesso molto private e qualche volta anche pubbliche. Vorrei esprimere a Massimo Maugeri e Subhaga Gaetano Failla tutta la mia gratitudine per lo speciale e avanzo decisamente l’invito a inserire Letteratitudine nei vostri blog preferiti e a visitarlo spesso. gg]

Italia De Profundis di Giuseppe Genna
recensione di Subhaga Gaetano Failla

Italia De Profundis di Giuseppe Genna è un libro molto bello, un libro importante.”

Così più o meno ho detto a molti amici. Nient’altro. Perché è difficile parlare d’un libro che ha un’anima. Temevo –  e temo – di dire qualcosa sull’indicibile. Perché d’un’anima non si può parlare. Proverò dunque a dire qualcosa di marginale, che rimane ai margini,  al limite d’un territorio indicibile.

Dono. Compassione. Autocontrollo.

Shantih shantih shantih

Con queste parole “mutuate dal finale del saggio di Wu Ming 1”, presente nel libro del collettivo Wu Ming intitolato New Italian Epic, si conclude Italia De Profundis

Datta. Dayadhvam. Damyata                                                  Shantih  shantih  shantih

Con queste parole si conclude The Waste Land di Eliot, a imitazione della chiusura rituale delle Upanishad.

Shantih. Dal sanscrito: Assoluta pace interiore e serena imperturbabilità. Mi lascia dubbioso il significato dato a Damyata: Autocontrollo. Un paradosso: la mente che controlla la mente. I mistici parlano di osservazione senza giudizio. Essere un puro testimone.
Poi si scorrono le pagine, fino alle ultime, fino ai ringraziamenti e all’indice, e perfino ai Titoli di coda, e troviamo, prima dell’indirizzo elettronico della minimum fax, queste estreme parole:
Non la finisco più di non iniziare.
Vi è forse in questo libro l’intuizione profonda d’una finzione: quella della definitiva conclusione. La finzione della morte. La finzione dell’inizio.
E la quarta di copertina riporta una frase estratta dalla prima pagina:
“Un luogo che ho disimparato ad amare.”
Molti anni fa avevo frequentato un corso di psicologia umanistica, che nelle intenzioni doveva essere costituito da sette incontri, guidati da una donna meravigliosa, Letizia Comba, psicologa e traduttrice di Gurdjieff, dal titolo I sette inizi. Ogni passo è il primo passo? E dunque qual è il primo passo? C’è un primo passo?
Nell’antica pratica buddhista, come ricorda anche Genna,  il discepolo, nella sua strada iniziatica, aveva il compito di contemplare le diverse fasi del disfacimento d’un cadavere.
Genna osserva il disfacimento d’un organismo chiamato Italia. Un luogo che ha disimparato ad amare. Con compassione. Nell’anelito del raggiungimento di shantih. L’io narrante Giuseppe Genna, come si legge nella prima parte del libro,  rimane per molto tempo accanto al cadavere del padre morto per infarto. Chiunque abbia assistito alla morte d’un genitore sa che quella morte è anche la sua personale morte. E Giuseppe Genna intuisce la finzione d’una estrema conclusione, della morte, perché intuisce la finzione di io.
“Io: chi sono?” chiede nel libro l’io Giuseppe Genna. Una domanda del tutto assurda. Una vertigine. Chi chiede a chi? Di questa vertigine è impregnato questo libro coraggioso.
Dagli anni Ottanta in poi rari sono stati i libri di autori italiani per me così importanti, un libro di cui dire dunque: mi importa.
La Diceria di Bufalino, l’eterea presenza di Pereira, Il vicolo blu di Bonaviri, la voce e il passo di Rigoni Stern nel suo Altipiano.
“… proprio nell’atto creativo che tutto questo implicava, io desideravo anche di liberarmi di me stesso, cioè di morire.”
Così dice Pasolini nel suo Petrolio, così Genna, che utilizza in epigrafe queste parole, si avventura coraggiosamente verso “la buia notte dell’anima” di cui parlano i mistici. Quando l’oscurità sembra essere senza scampo, profondissima e infinita, e tutte le speranze d’una nuova alba ci abbandonano, allora, solo allora, giungerà il primo  (il primo?)  raggio ad illuminarci. La libertà più grande, la libertà da sé stessi.
Genna parla di io non disgiunto dall’io dell’Italia. Sa di essere sangue e carne dello stesso disfacimento. E non vi è disprezzo, ma compassione. C’è la contemplazione dell’organismo Italia in decomposizione.
“Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?” gli chiede Luca Vaglio in una recente intervista.
“Davvero restituisco questa impressione?” risponde Genna. “Non è una cosa in cui mi riconosco, certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo.”
Italia De Profundis è percorso da due ombre dense, due ombre letterarie che accompagnano il lettore nella discesa e nell’ascesa, mentre ciò che non è né io né Genna cerca né discesa né ascesa. Queste due ombre si chiamano Burroughs e il Fantozzi di Paolo Villaggio. L’incubo dei mondi e dei corpi che diventano vortici di terra e di carne in mutazione oscura, e il grottesco di minuscoli uomini di Gogol, così penosi, così orribili nell’odierna trasformazione in insetti kafkiani. Comprendo l’irruzione di personaggi fantozziani nelle pagine di Genna – Fantozzi, la  maschera che maggiormente rappresenta questi nostri anni italiani, una maschera ancora non del tutto riconosciuta nella sua grandiosa esemplarità. Ma Burroughs? Perché è tornato Burroughs nella nostra letteratura, e anche nelle pagine di Genna?
Burroughs ha saputo contemplare il suo stesso cadavere, e da esso ha riconosciuto la finzione della morte; dalla carne disfatta  – del suo corpo, del corpo dell’America – ha intravisto un bagliore.
“Hai mai letto Il paese dei ciechi di H.G.Wells?” chiede Burroughs in una lettera (raccolta nel libro Le lettere dello Yage) indirizzata al suo carissimo amico Allen Ginsberg. “È la storia di un uomo che rimane bloccato in un paese dove tutti gli abitanti sono ciechi da tante di quelle generazioni che hanno perduto il significato del concetto della vista. Perde le staffe. ‘Ma non capite che io posso vedere?’ ”.
Così Giuseppe Genna. Giuseppe Genna?

Precisazioni su ITALIA DE PROFUNDIS

C’è un punto in Italia De Profundis, un punto che sta nell’incipit, in cui accade una consecuzione di tre frasi, che pongono termine al primo paragrafo del libro:

“Vedo l’Italia. Vedo me. Non sono io.”

coveridpprecDal punto di vista metrico si tratta di un alessandrino – cioè un’unità. Da un punto di vista sintattico si tratta di un tipico movimento triadico – cioè un’unità. Da un punto di vista logico si tratta di un entimema, sia che lo si voglia considerare all’interno del sistema aristotelico sia in quello di Port Royal – cioè un’unità. In ogni caso si tratta di un’unità non moncabile, ma divisibile in astrazione mantenendo sempre il continuum.
A volte al testo viene fatta violenza. Una giornalista, recentemente, per parlare della supposta autofiction in Italia De Profundis, ha affermato che nel testo si legge:

“vedo l’Italia, vedo me”

Questa è un esempio di violenza al testo. Ciò che, immediatamente, per quanto mi concerne, squalifica in maniera definitiva le ambizioni critiche di chi compie un’operazione simile. E non perché in questo caso si tratti di qualcosa che ho scritto io. E’ che proprio percepisco, e poi vedo espressa nel corso del tempo, un’attitudine antimorale in questo cancellare perché non si capisce. Poiché, in casi come quello che sto prendendo qui in senso emblematico, non è in gioco l’esito letterario di un testo, bensì la capacità basale di sentire e comprendere di un lettore che non è tale, in quanto ha una sede pubblica in cui spettacolarizzare la sua lettura. Non è in gioco nemmeno l’ignoranza di tale lettore spettacolarizzato (che, assicuro, comunque non coglie l’inversione da Leopardi, ma nemmeno la citazione da Plotino): poiché non è che il testo si faccia per nozioni e per algebre, attività che il lettore spettacolarizzato invece propugna nel mentre la contesta. No: qui è in gioco la risonanza di un’indole linguistica che non riguarda lo scrittore, ma la comprensione elementare del lettore spettacolarizzato stesso. Viene applicata una sintomatica censura del testo, per ragioni ideologiche, ragionando e agendo immediatamente nel modo che segue: non comprendo (il che non significa: “non apprezzo”, poiché il gusto è gusto – qui siamo proprio alla basilarità letterale e cognitiva), cioè capisco parzialmente quello che già sono disposto a capire, dopodiché divulgo quello che ho capito come se fosse una prospettiva integrale. E così si perpetra il ghigliottinamento del testo. L’attacco al testo in forma di censura è indice di una violenza che risiede in ciò: un’incapacità, una falla, un disordine, un disguido, una neurosi nel flusso empatico. Dal cognitivo all’emotivo il passo è addirittura invisibile. Tale è la malattia occidentale, patologia che evidenzia un ammanco di autoconsapevolezza integrale e dunque di consapevolezza integrale.
Spezzare un’unità testuale comporta conseguenze, se si è lettori spettacolarizzati. Per esempio, in questo caso, abradere la sintassi e ignorare il corsivo sul complemento oggetto pronominale significa già derapare nella comprensione di tutto ciò che segue. Addirittura sopprimere l’opposizione interna tra “me” e “io” fa deragliare in partenza la normale attività della lettura. Leggere male significa pensare male. Poi uno è liberissimo di pensare quel che vuole – a meno che non si tratti di un lettore spettacolarizzato, quale sono io in questo istante per esempio. C’è una certa responsabilità che coinvolge il lettore spettacolarizzato, così come lo scrittore, con le conseguenze che un testo ha nei confronti e di chi lo ha scritto (nella scrittura si dà infatti un profondo rapporto con se stessi, a patto che si sia conquistato l’io) e di chi lo legge. Il che, naturalmente, non evita la possibilità di fare la critica alla critica, se la critica è avvertita come un gioco inutilmente misconoscitivo del testo e dell’autore che viene erroneamente identificato col testo. Questa identificazione è una malattia critica che corrisponde a una stupidità metastorica, talmente frequente da essere divenuta banalità di base, pur ammettendo che di base non si può correttamente parlare in questo caso, poiché la base manca del tutto.

Vengo alla spiegazione dell’abc cognitivo di quel movimento triadico, ma metricamente sintatticamente logicamente e filosoficamente unitario. Se io vedo me stesso, introduco una dissociazione: io vede me, cioè io non è me. Me non sono io: agisce un me che non sono io. Agisce, cioè, un ologramma. Io non è un personaggio. Personaggio è il me. Quale personaggio è il me? E’ il personaggio io, solo che non è io. E’ la mimesi più piena che si possa rappresentare, perché conduce alla domanda essenziale: “Che cosa è io?”.
Ora, qui c’è da intendersi: in questo caso, “io” non va interpretato come un io psicologico, per cui io sono un maschio trentanovenne di nome Giuseppe Genna che ha determinate caratteristiche fisiche, emotive, psichiche. Il motivo della citazione da Plotino risiede proprio in ciò: si mira all’attività nuda dell’io, cioè al sentimento della coscienza, che nulla ha di psicologico e tantomeno di biografico. L’io inteso riduttivamente (non concedo nemmeno la patente di riduzionismo a tale acerbissima posizione) come qualificato da rapporto con il somatico, fibrillato dalla scossa emotiva, colmo di qualificazioni psicologiche è in realtà il me: quell’io qualificato in quel modo non è l’io, che è vita continua, poiché è continuamente cadavere, in quanto risulta oggettificabile e oggettificato di fatto. E’ una valva fossile.
Non esiste un momento in cui chiunque legga queste righe non abbia sentito nella propria vita il suo io privo di psiche (la semplice attività di presenza c’è sempre); esistono molti momenti, invece, in cui chiunque ha sentito il proprio io privo di psiche (per esempio: svenendo, dormendo senza sognare…).
Quale autofiction è, dunque, quella in cui il me è distaccato dall’io? Quella in cui l’io dice solamente “Non sono io”? Non è una autofiction. E’ fiction e basta. Non capire questa elementarietà non è attribuibile all’opera dello scrittore, poiché non si tratta di un fatto letterario – è piuttosto imputabile a uno scotoma che definisce lo status (quello sì e psichico ed emotivo e finanche somatico) del lettore in questione.

Una scrittrice che stimo, a proposito di quanto accade all’io in Italia De Profundis, ha affermato, in un momento in cui si è trovata a essere una lettrice spettacolarizzata:

“Poi esistono casi come – per me – quello di Genna, dove la stessa modalità [di utilizzo dell’io nel testo, ndr] è convincente in alcuni libri come Assalto a un tempo devastato e vile (scritto negli anni novanta) o nelle potentissime parti autobiografiche di Dies Irae, mentre ho trovato l’io di Italia de profundis troppo caricato di significati che non riesce a reggere e soprattutto piuttosto di maniera, alla maniera degli scrittori che a un certo punto fanno il verso a se stessi, il che è una cosa assai comune.

Un’analisi perfetta, in quanto l’io in questione non è l’io: è il me, che è per l’appunto di maniera e fa il verso a se stesso (quando il me è solo, è puro verso di se stesso: significa che un distacco è avvenuto). Italia De Profundis non c’entra nulla, ma davvero nulla con Dies Irae: laddove l’io coincideva con il me, e perfino con l’egli nei momenti in terza persona (in Dies Irae, le componenti autenticamente autobiografiche ristanno nel personaggio “Paola C.” e non in quello “Giuseppe G.”). Peraltro, ma è questione di critica di gusto, le potentissime parti autobiografiche di Dies Irae non sono a mio parere per niente potenti: anzitutto perché non sono autobiografiche e in secondo luogo perché fanno scattare nel lettore identificazione per mimesi, che è il contrario di ciò che l’autore sperava di fare e non è riuscito a fare. Per questo motivo, stando a quanto concerne me, il Dies Irae è un libro fallimentare e fallito, mentre Italia De Profundis (che vuole creare identificazione del lettore nel me in cui l’io non si identifica affatto) è un testo riuscito (il me provoca disgusto).
Poi i gusti sono gusti – ma questa è un’altra storia. Anzi: non è nessuna storia, nonostante disperatamente il lettore spettacolarizzato (non è il caso della scrittrice citata, ovviamente) desideri disperatamente creare una storia e non ci riesca, non ci riuscirà mai.

Intervista audio a RadioAlt su Italia De Profundis

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Giuseppe Genna: Requiem per uno Stivale.
di di MARIA ANTONIETTA GIUDICISSI
[da RadioAlt]

L’intervista completa in mp3

Ovvero Italia de profundis (edizioni Minimum Fax). Parliamo con il bravo e prolifico scrittore del suo ultimo libro, cogliendo l’occasione per fare assieme a lui alcune riflessioni sul Paese in cui viviamo. Un paese – dice Genna – la cui narrativa, oggi, è quanto di più all’avanguardia si possa trovare al mondo. Peccato che – continua il nostro – venga fatto poco o nulla per promuoverne la consapevolezza. L’Italia è – nelle parole di Genna – “un luogo che ho disimparato ad amare”.
Un romanzo che è “un’autobiografia impazzita”, recita la bandella. Impazzita – aggiungiamo noi – nel senso proprio in cui si potrebbe dire che impazzisce una maionese sbattuta nel verso sbagliato, un’autobiografia in cui un IO appena dissimulato (Genna nell’intervista mette i puntini sulle “i”, però, rivendicando il diritto ad una coincidenza solo parziale tra scrittore ed io narrante) attraversa i segni di un disfacimento che non è solamente morale, ma è anche linguistico e antropologico.
Una scrittura densa, densissima, per raccontare una storia che è collettiva prima che individuale.

Italia De Profundis libro dell’anno 2008 su Rodeo

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Giuseppe Genna – Come si disimpara ad amare l’Italia
di ENZO MANSUETO
[da Rodeo – versione cartacea, 2.09]

frecciabr.gif L’intervista completa in pdf

La definizione di autofiction restituisce solo pallidamente ciò che Italia De Profundis, l’ultimo oggetto narrativo firmato Giuseppe Genna (minimum fax, pp. 352, euro 15), è. Un’instabile scrittura di sé, che sutura storie e memorie personali indicibili, dal ritrovamento del cadavere del padre nella solitudine domestica del Capodanno a degradanti esperienze sessuali a esperimenti con l’eroina, l’eutanasia, sino ad un infernale e grottesco viaggio fi nale in un villaggio turistico siciliano. Il tutto composto con frammenti eterogenei di cronaca, echi massmediali, protesi web che ci sbattono nell’inferno contemporaneo. Una scrittura che si fa carico delle mutazioni profonde in atto nella società e che supera d’un balzo ogni cerebralità neoavanguardistica e ogni residuo ideologismo. Anche per questo il libro sta avendo ampia
risonanza. Italia De Profundis è il testo narrativo italiano più importante dell’annata appena trascorsa. (…) [CONTINUA]

il Mucchio Selvaggio su Italia De Profundis

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Italia De Profundis di Giuseppe Genna
Una autobiografia fittizia ed esplosa in più direzioni che cerca di fare – e di farci fare – i conti con l’inabissamento del Paese in cui viviamo
di ALESSANDRO BESSELVA AVERAME
[da il Mucchio Selvaggio – versione cartacea, 1.09]
frecciabr.gif La versione jpg della recensione e dell’intervista su IDP [286k]
Dopo il romanzo biografico, Hitler (attenzione, non biografia di personaggio storico, ma elaborazione letteraria e mitopoietica), la dichiaratamente finta autobiografia, Italia De Profundis. Per molti versi è la conferma dello sguardo ampio e metabolizzante dell’autore, ma c’è una ulteriore continuità: anche questo, come il libro precedente, è un esorcismo, un tentativo di neutralizzare attraverso la scrittura una malattia. La malattia è nello specifico l’immobilità congelata e la morte emotiva di un intero paese, quello in cui viviamo, incapace di accettare la fine delle esperienze e degli eventi, marcendo in un pantano da cui non si riesce ad uscire. Lo scrittore, come ci dice l’autore stesso in sede di intervista, qui più che altrove personaggio, è il corpo narrativo attraverso il quale mostrare gli effetti della patologia.
La scrittura ha momenti ostici, con costruzioni associative che fanno venire in mente, tra gli altri, Burroughs, altrove ci si stordisce per accumulo e valanga emotiva, ma l’immersione di chi legge nel flusso della storia non ne risente affatto. La forma del romanzo – non è una novità per l’autore – deborda e si va a prendere tutto lo spazio che gli occorre. Cambia strada, si frammenta in alcuni episodi (im)morali vissuti dal personaggio Giuseppe Genna, finisce in un villaggio turistico, ecosistema che riproduce in scala ridotta la malattia del Paese. È proprio in questa parte finale che c’è il rischio di suonare didascalici o moralisti, o quantomeno scontati, ma è esattamente in questo spezzone finale che la scrittura si fa più brillante, in alcuni momenti addirittura divertente, forse più strettamente letteraria ma sempre fortemente empatica. Ovviamente non c’è proprio niente di cui ridere, stiamo assistendo alla tragedia di una patologia di cui si stenta a trovare la cura. E tuttavia l’alleggerimento necessario per farci metabolizzare quanto letto nelle pagine precedenti. Difficile dire se questo ci aiuti a guarire: quel che è certo è che provoca una reazione. (…) [CONTINUA]

Italia De Profundis su Fahrenheit: intervista radio al Miserabile

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Dalla splendida trasmissione radio Fahrenheit (Rai Radio3, ore 15), di cui si caldeggia l’ascolto quotidiano e la vissione approfondita del sito, l’intervista al sottoscritto su Italia De Profundis.
frecciabr.gif ASCOLTA L’INTERVISTA IN STREAMING

Affari Italiani: intervista al Miserabile su Italia De Profundis

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“L’Italia? E’ un’avanguardia dell’osceno”. Giuseppe Genna ad Affari
di LUCA VAGLIO
[da Affaritaliani.it]
genna_affari.jpg“L’Italia in questo momento è un paese di avanguardia, una frontiera dell’osceno dove stanno arrivando a maturazione processi disgregativi e trasformazioni dell’umano che sono la china su cui discenderà tutto l’Occidente…”. A parlare è lo scrittore Giuseppe Genna, che ha scelto Affari per spiegare la sua visione del degrado culturale italiano e per parlare di alcuni dei temi trattati nel suo ultimo libro “Italia De Profundis” (Minimum Fax). Le ragioni della degenerazione? “Stanno nella spettacolarizzazione dell’immaginario, iniziata negli anni ’80 con la nascita delle tv private…”
Perché nel suo ultimo libro parla dell’Italia come del luogo che ha “disimparato ad amare”?
“L’Italia ha avuto una mutazione antropologica e sociale negli ultimi 30 anni, da noi l’oscenità si sta manifestando in modo più potente che in altri luoghi. Si è inverata la profezia pasoliniana dell’involgarimento di massa, della spettacolarizzazione, del discorso unico che sostituisce il dialogo… E se da un lato c’è un imbarbarimento del luogo Italia, dall’altro io stesso sono connesso, con ossa, nervi e muscoli, a questo processo di anestesia emotiva e disamore. Io, che ho disimparato ad amare e ad amarmi, sono questo luogo…”
E fuori dall’Italia le cose stanno diversamente?
“Sì, senza dubbio. Penso che l’Italia sia in questo momento un paese di avanguardia, dove stanno arrivando a maturazione processi disgregativi e trasformazioni dell’umano che sono la china su cui discenderà tutto l’Occidente… Altri popoli sono più indietro lungo questa forma di evoluzione, la metastasi lì è rallentata, c’è ancora qualcosa che frena la metamorfosi dell’umano in insetto. Ad esempio, recentemente a Copenaghen ho avvertito una maggiore pietà per l’altro, una percezione che l’altro sia parte di sé, che da noi, attorno a me e dentro me, è come evaporata”.
E perché, a suo avviso, in Italia questa disumanizzazione è più accentuata che altrove?
“In primo luogo perché noi non siamo un popolo, non abbiamo mai elaborato una cultura nazionale… al più abbiamo una cultura statale e parastatale. E la storia del paese, dalla 2a guerra mondiale agli anni ‘70 è continuamente messa in discussione da revisionismi devastanti. Lo Stato è da sempre un’entità distante dai cittadini. A questo si aggiungano i misteri di Stato mai chiariti e le ferite mai sanate, in primis quella del terrorismo in rapporto quale si pretende un pentimento carcerario, una reclusione sine die e non il recupero della persona. E sopra tutta questa disgregazione noi ci abbiamo steso lo spettacolo”
In che modo?
“E’ un processo che inizia negli anni ’80 con la nascita delle emittenti televisive private, che si fanno veicolo di un immaginario fragile e distorto. Non c’è nazione in cui l’immaginario è stato contaminato dallo spettacolo come in Italia. Basti pensare alle masse di ragazzini, correva l’anno ’84, che urlavano parole senza senso come “Ass Fidanken”… La memoria del paese è spettacolare, è una berlusconizzazione… di cui lo stesso Berlusconi è un sintomo, non la causa. Il presidente della Repubblica Sandro Pertini che è in tv, durante la diretta da Vermicino, mentre un bambino muore in un pozzo, e l’anno successivo è al Nou Camp di Madrid, mentre l’Italia sta per vincere la finale dei mondiali calcio, e dice “Non ci prendono più…”. Ma si rende conto Pertini di essere dentro uno spettacolo, che segna una linea di discrimine nella nostra storia? O Antonio Ricci che dice che “Striscia la notizia” è servizio pubblico, quando non è altro che un veicolo di un trauma dell’immaginario. Tutto questo espropria l’umano dell’umano, del linguaggio e di ogni idea o possibilità di cambiare la realtà”
Ma questo fenomeno non riguarda un po’ tutto l’Occidente?
“Sì, ma in Italia si è manifestato in modo più vistoso, anche rispetto agli Stati Uniti, dove, grazie alla struttura federale e al fatto che la tv pubblica, la Pbs, non era sotto controllo politico come la Rai, la disgregazione culturale è stata meno drammatica. Ricordo che nel ’69, quando venne fermato dalla polizia l’anarchico Pietro Valpreda, a pochi giorni dalla morte di Giuseppe Pinelli, c’era un giornalista che intervistava il questore di Milano e dava per certo, usando un tono quasi autoritario, che fosse stato preso il colpevole. Il giornalista veicolava una falsità, spacciandola per verità, in relazione a un fatto intricato e complicatissimo… Bene, quel giornalista era Bruno Vespa, che oggi continua a fare le stesse cose. Questa è l’Italia. Si veicolano falsità e spettacolo come se fossero verità… La realtà viene spogliata sua della verità, in modo pop…e poiché, salvo poche, luminose eccezioni non ci sono intellettuali in grado di opporsi, il paese è in balia di un unico linguaggio, di un unico discorso”.
Quali sono le luminose eccezioni?
“Beh, l’Italia è un’avanguardia per quanto riguarda l’espropriazione dell’umano, ma lo è anche nella produzione dell’umano. La nostra è la lingua letteraria più antica tra quelle moderne. Alcuni scrittori italiani stanno producendo cose che a livello planetario non si fanno. Nessun americano o inglese è all’altezza del poeta Andrea Zanzotto… pochissimi agiscono politicamente e linguisticamente dentro il testo come Tommaso Pincio, i Wu Ming, Valerio Evangelisti o Walter Siti, probabilmente il più grande scrittore vivente in Italia. Si tratta di minoranze esigue… ma molto costanti nel tempo e avanzatissime. Seamus Heaney o Derek Walcott, gli ultimi Nobel anglosassoni, sono fermi a quello che Giusuè Carducci faceva nelle sue “Odi Barbare”. In Italia siamo oltre la morte della lingua… lo ha detto Carmelo Bene, e negli ultimi anni non si è visto un altro come lui… Ma se si guarda al campo della pubblica attenzione la figura dell’intellettuale viene attaccata, ignorata oppure spettacolarizzata, come è successo a Roberto Saviano, che è stato trasformato in un’icona che non corrisponde a quello che Saviano sente e vuole provocare nel lettore”.
In “Italia De Profundis” esprime un giudizio critico sullo stile della poesia italiana di oggi…
“La poesia italiana non parla più… salvo pochissime eccezioni, come l’ultimo libro di Mario Benedetti, “Pitture nere su carta”, edito da Mondatori o Milo De Angelis e lo stesso Andrea Zanzotto. Questi poeti rappresentano un’avanguardia mondiale. Tutti gli altri fanno piccole cose, nel solco della nostra tradizione lirica, quasi a prolungare una sorta di deriva neopetrarchista… non entrano nell’immaginario e nemmeno nello scavo di sé… è inevitabile che se non scavano dentro di loro non possono parlare agli altri”.
Le cose vanno così male anche per il cinema?
“Qui c’è un problema di industria culturale, non si ha la voglia e la capacità di rischiare, di uscire fuori da alcuni schemi rigidi e prestabiliti. E, sia chiaro, non si rischia producendo “Gomorra”, che pure è un film molto interessante, o “Il Divo” con Servillo… Nella mia esperienza di giurato alla Mostra del Cinema di Venezia (2006, ndr), grazie allo sguardo panoptico sulla cinematografia mondiale regalatomi da quella occasione, mi sono reso conto di quanto sia povero, debole e morto il cinema italiano… Anche l’ultimo dei cinesi ha un impatto estetico, etico, politico, emotivo di una forza a cui nessuna opera del nostro cinema attuale può arrivare”.
E non c’è soluzione a un simile degrado culturale?
“L’Italia per diventare paese deve subire uno shock forte, passare per una fase dura di depauperamento determinata da varie ragioni, dalla crisi climatica alle ondate migratorie provenienti dalle aree più povere. Questo shock sociale diventerà un grande evento politico per il nostro paese. Gli italiani, da poveri, probabilmente recupereranno la loro umanità… forse mi sbaglio, ma io vedo solo questa possibilità di cambiamento. Chi spende il 18% del suo stipendio per il telefonino e non se ne rende conto non è più umano…”.
Non le sembra di avere un approccio un po’ pessimista, di legare la sua analisi a dei presupposti radicalmente negativi?
“Davvero restituisco questa impressione? Non è una cosa in cui mi riconosco, certo rispetto allo stato di cose che ci circondano denuncio una negatività. Ma se non avessi dentro di me l’idea di una positività non parlerei in questo modo”

Rai Radio1: Nudo e crudo intervista il Miserabile su Italia De Profundis

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L’intervista al Miserabile sottoscritto nel corso della puntata del 20.1.09 di Nudo e crudo, trasmissione in onda su Radio1 Rai, ideata e diretta da GIULIA FOSSA’.
Poiché è risultato impossibile lavorare sul file originale, mi scuso per la non eccelsa qualità della riproduzione (qui lo streaming dell’intera puntata, dedicata al rapporto tra letteratura e politica e società italiana, con Alberto Asor Rosa, Walter Siti, Luca Mastrantonio e, appunto, il sottoscritto).
E’ possibile ascoltare direttamente in questa pagina l’intervista, cliccando l’icona azzurra di “play” qui sotto. Per chi non la visualizzasse, si può cliccare sul file mp3.
http://static.delicious.com/js/playtagger.js L’intervista a Nudo e crudo [6 min.]
frecciabr.gif Il file mp3 dell’intervista a Nudo e crudo [6 min. – 5.7M]

tuttoLibri de La Stampa: Sergio Pent su Italia De Profundis

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De Profundis per il Belpaese
Genna – Il ritratto di un mondo in disarmo, regredito a divertimentificio, non lasciando più spazio al pensiero. La drammatica corsa verso il nulla, un’isteria contagiosa che mette a tacere la realtà e il tempo
di SERGIO PENT
[da ttL, inserto letterario de La Stampa – versione cartacea, 17.1.09]
frecciabr.gif La versione jpg dell’articolo su IDP [243k]
(…) Il masochismo autofagocitante con cui Genna spala letame dall’italica quotidianità, è quasi esemplare. Vittima e artefice dei suoi furori assoluti, questo scrittore unico, assordante, narcisista e autolesionista, va delineando con sapiente confusione il ritratto di un Paese in disarmo, regredito ai riti tribali di una sopravvivenza all’insegna di un fittizio tutto-compreso, dove l’illusione di essere calati in un perenne divertimentificio non lascia più spazio ai pensieri concreti del malessere e del disagio. Basta non pensarci, sostiene chi ci governa.
Giuseppe Genna dà il meglio di sé quando affonda il bisturi nei mali incurabili del Belpaese. Libri come Nel nome di Ishmael e Dies Irae, che avrebbero dovuto caratterizzare stagioni letterarie, sono stati liquidati come un thriller fantapolitico e una deprimente analisi autocelebrativa. (…) [CONTINUA]

Tommaso Pincio sul manifesto: l’Italia, il romanzo di Brizzi e il De Profundis

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SPETTRI ITALIANI – TRE VARIAZIONI SULLO SFONDO DEL MALPAESE
di TOMMASO PINCIO
[da il manifesto – versione cartacea, 11.1.09]
frecciabr.gif L’ultimo romanzo, di recente uscita, di Tommaso Pincio: Cinacittà
frecciabr.gif Il sito ufficiale di Tommaso Pincio
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«L’Italia è il paese che amo»: così, con solenne e televisiva semplicità, il nostro attuale premier si dichiarò alla nazione. Era il 26 gennaio 1994, nessuno osava allora immaginare quanti e quali frutti sarebbero nati dall’idillio tra un magnate della comunicazione e un paese di miracoli e miracolati. I malevoli ritengono che sia disceso in campo per salvare se stesso e le sue aziende; il diretto interessato sostiene che in cima ai pensieri avesse lo spettro di una nazione in mano a forze illiberali, i famigerati comunisti. Comunque sia, in quel famoso discorso registrato su videocassetta e trasmesso a reti quasi unificate, disse che l’Italia «giustamente diffida di profeti e salvatori». Eppure è proprio così che si è proposto, ed è proprio così che una cospicua fetta d’italiani lo ha accolto. In questo, che gli piaccia o no, ha qualcosa in comune con Mussolini. La grande campagna antimalarica con la quale si promise la bonifica integrale delle Paludi Pontine fu uno dei capisaldi della propaganda fascista e servì a presentare il duce come il «grande medico» della nazione. Similmente, Silvio Berlusconi si è annunciato come il rimedio definitivo all’annosa piaga della politica senza mestiere, tutta malaffare e chiacchiere incomprensibili.

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