In morte di Nanni Balestrini

La notizia della morte di Nanni Balestrini, uno dei protagonisti decisivi degli ultimi sessant’anni di letteratura politica e vita culturale del Paese, è per me personalmente raggelante: ne sono agghiacciato. Probabilmente la prima volta che incontrai Balestrini fu trentasei anni orsono, quando io ero tredicenne. Ebbi il privilegio di osservare da vicino questo signore pacatamente incendiario e di apprendere le modulazioni di una barbarie della fantasia, scatenata a portare un costante assalto al cielo, sebbene non ignara delle lunghe ciclicità con cui la politica deve fare i conti, come tara di realismo e carburazione dell’azione. E in effetti si potrebbe inscrivere l’intera opera di Balestrini in questa polarità: da un lato il desiderio e la sua istituzione principale e contraddittoria, ovvero la pulsione, la quale è tesa ad abrogare qualunque istituto; dall’altro lato, il potere come vocazione, come target, come continua polemica, cioè come inesausto “polemos”, ovvero guerra. Il radicamento è nomade: ecco un grande insegnamento della letteratura in genere e di quella balestriniana in particolare. I rapporti che Nanni Balestrini ha intrattenuto con la politica, con il linguaggio, con la psiche, con la storia, dicono che questo grande intellettuale ha scelto, da subito, di lavorare sugli universali, che sono sempre concretezze, entità ravvisabili all’opera nell’immenso lavorìo che la vicenda umana implica come modalità per enunciare il semplice fatto di esistere. Da questo punto di vista, non sorvolando su nessuna delle opere impressionanti di cui Balestrini è stato autore, sarà forse il caso di scrutare i reali avversari che egli ha avuto modo di richiamare in tenzoni non abbastanza esplicite dal punto di vista storico: e sono due enormi artisti e intellettuali: uno è Pier Paolo Pasolini e l’altro è Carmelo Bene. Gli obbiettivi polemici, trattati come nemici all’interno di protocolli da arte della guerra, non sono mai mancati a Balestrini e alla sua *cerchia*, a partire da quella congerie temporale e personale che fu il Gruppo 63: i nemici non se li trovava sulla strada che stava intraprendendo, ma proprio se li cercava. La lite permanente e la questione dell’egemonia, che Balestrini apriva come zona di creazione ininterrotta, ebbero invece nei più grandi artisti e intellettuali del nostro secondo Novecento, cioè Pasolini e Bene, un totem e un tabù, ovvero una polemologia, che non produsse nulla di quanto avrebbe potuto e dovuto un simile helter skelter intellettuale. Il realismo di Pasolini era troppo fantastico per essere apprezzato dai neoavanguardisti, anzitutto perché era questione linguistica, prevalentemente mutuata da un confronto serrato con la peculiare metafisica del linguaggio espressa da Giovanni Pascoli, poeta equivocatissimo dalla neoavanguardia. Carmelo Bene era l’antagonista più pericoloso, perché il discorso del desiderio, e sul desiderio, veniva declinato da e su francesi come Deleuze, che a Balestrini e ai *suoi* servivano e servivano come destrutturatori tutelari di ogni metafisica, mentre Bene li usava come utilizzava Kafka: per farla, la metafisica. Al di là di questo concerto mancato, resta l’opera di Nanni Balestrini: è gigantesca. L’ingaggio politico non obnubila il fatto che, se una scrittura e un pensiero creano una scolastica, qualcosa significa, in termini di verità storica e penetrazione delle analisi e dell’espressione. Non si può prescindere da Balestrini, mai, e non si deve, quanto a pratica artistica della storia e interpretazione della medesima. Ha fatto parlare il non-io, ovvero un automatismo, prevedendo di decenni uno stato dell’arte che stiamo vivendo attualmente. Ha scritto prima e meglio “Gomorra”. Ha stravolto ogni verifica dei poteri, prima che il potere finisse per delirare, applicandosi in continua verifica. Ha creato collettività, dal Gruppo 63 al Gruppo 93 ai Cannibali. Ha inventato “Ricercare”, luogo di aggregazione e sperimentazione della letteratura. Ha innovato sempre, sotto ogni cielo, da Parigi a Roma. Ha fatto la politica, ha fatto l’arte. Con “Le ballate della signorina Richmond” fece questo: mi spinse a diventare scrittore, questa probabilmente è una sua trascurabilissima colpa, ma per me è qualcosa. Ci insegnò a volere tutto. Vai ad averlo, Nanni, il tutto: ti raggiunga l’abbraccio di un tuo lettore affezionatissimo.

Alle europee 2019 io voto Pierfrancesco Majorino, anche tu #scriviMajorino

Conosco, stimo e amo fraternamente Pierfrancesco Majorino da quando aveva dodici anni. Io ne avevo tre in più e nutrivo un’insana passione per i versi di Montale e di Zanzotto, amministravo un’anoressia tutta mia, ero privo di difese ed elettricamente instabile. Feci conoscenza con Pierfrancesco in un luogo montano, un paesino di villeggiatura discreta e più adatta agli anziani che a giovani virgulti. Si stava verso le Dolomiti e si discuteva di politica (essenzialmente della sinistra, della terza via berlingueriana, dell’opzione socialdemocratica), si assisteva alla proiezione nel circuito off tridentino de “La messa è finita” di Nanni Moretti. E si facevano gite e ferrate sul complesso del Brenta. Per spiegare un individuo, a volte, non servono altro che momenti emblematici, i quali funzionano assai più che i trattati di personologia o, peggio, le diagnosi psicologiche. Eravamo dunque a poche decine di metri dal cambio di valle, uno scavallamento a quota notevole, lasciandoci il passo delle Bocchette alla sinistra, affrontavamo un nevaio indossando ramponi e imbrago, arrancavo. Pierfrancesco aveva fatto questo per tutto il tempo dell’escursione: era davanti a tutti, indicava il percorso ed era continuamente dietro a tutti, segnando la velocità che si doveva tenere: giusta, non eccessiva, nessuno doveva rischiare di essere lasciato indietro. Mentre osservavo Pierfrancesco macinare metri davanti a me e io sudavo sotto il caschetto e pensavo alle Merit che fumavo quando me ne stavo a livello del mare, maledicendo l’esercizio fisico ma beandomi delle ciclopiche conche seleniche in cui mi peritavo da improbabile scalatore, il mio piede destro cede, sprofondo in una fenditura, la neve fresca copriva un piccolo crepaccio, finisco sospeso nel vuoto, finché Pierfrancesco in scivolata arriva da me, mi tende la mano e mi tira fuori. Era arrivato da dietro. Stava davanti e arrivava da dietro. Da anni mi domando come abbia fatto e resto senza risposta. Ho omesso di chiederglielo, perché secondo me non si ricorda e un poco mi vergogno dell’imperizia fisica, a decenni di distanza. Essendo passato dalle Merit alle Chesterfield, ho cambiato molte marche di sigarette, ma sono restato stabile e fedele in questa impressione: Pierfrancesco Majorino è una persona capace di guidare, che non dimentica gli ultimi, chi sta dietro, chi rischia di essere lasciato alle spalle. E’ una declinazione del suo talento, questa, che ha dimostrato cartesianamente con sette anni di capolavoro politico e amministrativo a Milano, nelle vesti di assessore al welfare per la giunta Pisapia e per quella Sala. Ora Pierfrancesco si candida nelle liste del Partito Democratico per un seggio alle europee. Ciò che mi viene dal cuore di consigliare, a chi risieda nella circoscrizione nord occidentale (Lombardia, Liguria, Piemonte, Valle d’Aosta), è di votare Piefrancesco Majorino il 26 maggio. Mi rubate un assessore di cui non vorrei per niente fare a meno, ma concedete in dote all’Italia e al Parlamento europeo uno dei politici più onesti, pragmatici, idealisti, solidali e sensbili che io abbia mai avuto la fortuna di conoscere. Come è chiaro e giusto, non smetterò di importunare su questo social i miei contatti e nuove persone con questo invito: ai prossimi giorni.

Salone del Libro 2019: perché io non andrei

Non ho impegni per il Salone del Libro, ma avrei scelto di presentare libri o partecipare a incontri in luoghi fuori dall’istituzione e dall’evento che sono il Salone di quest’anno. La giustizia è per me più fondamentale della legge e la giustizia è l’antifascismo sempre. Il Salone non è solo del libro, ha un implicito: è il Salone antifascista del libro, che è antifascismo. Si può militare culturalmente, come è ovvio, all’interno di una struttura istituzionale, che non ha il coraggio di revocare gli spazi a fascisti e nazisti. La mia protesta si ergerebbe non solo nei confronti di questi eversori, ma anche dell’istituzione stessa del Salone. Non c’è dialettica con fascisti e nazisti. Ma c’è dialettica con l’istituzione, che non ha il minimo empito libertario e invece si traveste da centrale della libertà di opinione, accettando l’opinione che vuole distruggere le opinioni. Che Chiamparino invochi eventualmente magistratura e forze dell’ordine non mi sorprende, semmai mi conferma quanto penso di questo presidente regionale e uomo d’ordine del Partito Democratico. La dialettica con questa istituzione perduta a se stessa, il Salone appunto, per me significa: non essere nell’alveo di quell’istituzione o nella zona allestita dalla medesima. La scelta dell’antifascismo non può tradursi in una pettinata alla schiena di un comitato di indirizzo. Non mi verrebbe mai in mente di chiedere di boicottare il Salone del Libro, ma nemmeno di boicottare me stesso. Non vale per me l’argomento che, se CasaPound fa un presidio nel mio municipio, io non lascio il quartiere: qui è il municipio che dà il presidio ai fascisti e io lotto contro i fasci e contro il municipio. Lottare con l’istituzione non è lottare contro i fascisti: significa piuttosto affrontare il ventre molle della democrazia. È scuotere Von Papen alla vigilia del colpo di mano di Hitler. Fossi in Nicola Lagioia, inviterei a partecipare al Salone da lettori e da scrittori, ma mi dimetterei. E mi dimetterei perché qualcuno deve assumersi una responsabilità e, se il comitato di indirizzo non lo fa, lo farei io da direttore editoriale, in luogo di una pavidità di istituzioni che, a oggi, mi paiono più angoscianti che angosciate. Il momento è grave e noi dobbiamo, ovvero abbiamo l’obbligo di dovere, rappresentare le ragioni di una generazione perduta, che ha perduto la vita per combattere il fascismo, per assumere si di sé un peso morale e politico, in luogo di un’istituzione che si fece ai tempi contaminare dal fascismo: era lo Stato. Invito ad andare al Salone, ma mi dimetto da partecipante alla kermesse in termini di adesione a un comitato e a una struttura che non è stata in grado di dire no, un semplice no, a chi ha in mente e propaga l’idea della distruzione del sistema democratico.

Torna “Cibo” di Helena Janeczek: l’oggetto narrativo non identificato

E’ finalmente riedito “Cibo” di Helena Janeczek, uno dei più formidabili (nel senso che lo si deve temere) oggetti narrativi degli anni Zero. Lo ripubblica Guanda, l’editore con cui Helena è andata a vincere l’ultima edizione del Premio Strega. Che cosa dunque è “Cibo”? Quando fu pubblicato, da Mondadori (non perdonerò mai al mio editore di avere perso questa autrice splendida e commovente, una delle poche a tentare il tragico in Italia – e a riuscire a farlo), non c’era la dicitura “Romanzo”. E in effetti, per quanto mi sembrasse surreale vietare a questo testo una categoria tanto desueta e pronta a deflagrare a fronte della saturazione che il romanzesco avrebbe imposto all’atmosfera non soltanto nazionale, “Cibo” non è un romanzo per come si è pensato nel Novecento, ma soltanto perché nel Novecento i teorici e i critici non si erano resi conto che da Gadda a Pasolini, passando per Calvino e per Eco, l’etichetta famigerata, che doveva garantire chissà perché le vendite, era esattamente il bersaglio poetico di qualunque prosatore di rilievo. L’ibridazione è il nostro codice genetico letterario. Lo è a partire dallo sbilanciamento linguistico, che fa della poesia, la purissima e sporchissima poesia italica, l’autentico esordio della letteratura nazionale: di lì non si uscirà mai più. A maggiore ragione sembra oggi vagamente ridicolo il tentativo di imporre una letteratura consolatoria, bassamente emotiva, decorativa nello stile facile, piatto, anonimo, bianco, edulcorato, ad altezza di supposti “lettori forti” sensibilissimi alle foglie, spaventabili con un “buh” grafico in copertina, tremuli per la dolcezza delle loro esistenze risaputamente traumatizzabili con un nonnulla di realtà – qualcosa di conoscitivamente privo di qualunque apice o gradiente e di passionalmente asexual. Un’alessitimia di sé e del mondo. Arrivò nel 2002 questo testo che seguiva il prodigioso “Lezioni di tenebra” di Janeczek, una meditazione che perforava in qualunque direzione: il male, la storia, l’amore, la nuda vita, l’idea, il fato: appunto la tragedia. Qui era invece il cibo, questa secrezione della nuda vita che si produce in cultura basale e poi via via sempre più raffinata, paradossalmente omicida, in una corsa all’affettivizzazione pressocché irresistibile. Un’ossessione inconscia, un’ossessione conscia. Una disgrazia collettiva per la grazia della sopravvivenza e poi del consumo e poi della fine del pianeta. L’individuo esplode. La storia si intrica. I personaggi sono il femminile, il femminino, l’assenza di qualunque genere. Si sta male, leggendo: quindi si sta benissimo. Al termine del libro, c’è l’inizio: non è un saggio, non è un excursus o un incursus, non è una compilazione, non è psicogeografia, non è metafisica: è letteralmente la “Mucca pazza”, ovvero la patologia della realtà modificata dall’umano, il cibo avvelenato che diviene sistema nervoso. So bene di non avere qui dato appigli riconoscibili alle lettrici e ai lettori, “forti” o “deboli” che siano: andate a leggervi la quarta di copertina. Qui io devo soltanto rendere grazie a Helena Janeczek e, evitando la pelosa ipocrisia del critico partigiano o meno, esortare a leggere questo testo fondamentale, che aiutò a giungere all’unica acquisizione rilevante della mia generazione letteraria: l’oggetto narrativo non identificato, la poesia nella prosa: la verità.

La scuola al centro di tutte le cose

Ci sono riforme urgenti da attuare – da pensare e da attuare. Tuttavia ce n’è una più urgente delle altre e, a mio parere, si tratta della scuola. Il sistema educativo, dopo molto riformismo, il che è uno dei tanti paradossi, produce dissociazione, asocialità, appiattimento della possibilità di centrarsi in un’esperienza formativa perché anzitutto è un’esperienza emotiva. Sono coinvolti corpi sociali di estensione e intensità profondissime: famiglia, genitori, ragazzi, operatori. Definire operatori gli insegnanti, i dirigenti scolastici e l’aberrante comunità curativa di psicologi e logopedisti e neuropsichiatri dell’età evolutiva – già questo mostra il segno di un crollo strutturale e modale. La visuale preferenziale, nella contemporaneità italiana, intercetta solo il dato problematico e mai le risorse, il positivo, l’apertura, vale a dire, in una parola ambiziosa: l’esistente. La comunità nazionale è coinvolta in questo processo di disfacimento del senso, della progettualità o, per dirla più banalmente ma non con un atomo di verità in meno: il futuro. Ritengo sia impossibile realizzare l’ennesima riforma della scuola, prescindendo da altre riforme che devono accompagnare questo profondo ripensamento di ciò che si dice corpo intermedio, il che include una mutazione radicale del concetto e del ruolo di lavoro, quindi dello sfruttamento e del materialismo più nichilista e tossico, da cui le giovani menti si vedono presentato un conto salatissimo per qualcosa che non hanno fatto, venendo investite da una situazione concreta, per cui non avrebbero la possibilità di agire qualcosa che sia rivoluzionario, ovvero all’altezza delle loro soggettività. L’isolamento a cui il sistema teratocapitalista costringe le persone, e i giovanissimi e giovani in primis, è omogeneo alla richiesta delirante di performance continua, inutile perché non arricchisce in nulla il corpo fisico ed emotivo e psicologico degli individui che sempre si organizzano in collettività. Intendo che il punto di attrito più acuto, che non manca di rendere incandescente la vita nazionale, è una visione dell’umano alienata e una responsabilizzazione incongrua di quell’alienazione. Il primo centro visibile dell’azione politica è per me questo. Riconsiderare la società è un processo che non si può compiere senza partire da questo centro visibile, necessario, inderogabile. O si parte da qui o qualunque battaglia per i diritti è destinata al fallimento. E’ dunque questo il nuovo modo in cui un testo si scrive: non più su carta, non più con un racconto. Lo scrittore prenda atto di questa fine che è un inizio.
[Per un approfondimento che formula una proposta nuova, propongo l’intervista al neuropsichiatra Stefano Benzoni, uscita su L’Espresso dopo la scorsa estate]

Leggendo l’analisi di Paolo Mieli sull’egemonia Pd

Oggi sul “Corriere della Sera” l’ex direttore Paolo Mieli pubblica un’analisi sulla debolezza della proposta da parte di sinistra e centrosinistra attualmente rappresentati nei parlamenti, sia l’italiano sia l’europeo. C’è un discorso da fare, intorno alla abituale centralità di quel repertorio di voti che è stato e sta continuando a essere il Partito Democratico. Giovedì, a PiazzaPulita, il fu padre nobile del Pd, Romano Prodi, ha testualmente asserito che la formazione dem “non è più il partito dei ricchi”. Bisogna intendere bene, dico filologicamente, ciò che Prodi intende e, a mio umillimo parere, sta intendendo questo: il Pd è il partito dei ricchi. Nessuno aveva mai estratto una simile definizione su una formazione che ha progressivamente tradito gli ideali di una sinistra governativa, a cui nessuno chiede di essere una lista di quella arcobaleno, ma che ha comunque perpetrato politiche devastanti e un abbattimento del comparto identitario, e dunque popolare, da cui veniva o pretendeva di venire, sintetizzando i portati sociali e storici sia dell’esperienza comunista e postcomunista sia di quella cattolica illuminata. Il Pd attualmente sta dimostrando che una sorta di mélange tra vecchissima classe dirigente e nessuna novità autentica, in un contesto di pura idraulica politica, mercè il progressivo collasso dei Cinque Stelle, porta la formazione di csx un poco sopra il 20%. E questo sembra non dico bastare ai dirigenti piddini, ma addirittura pare euforizzarli. La questione del ritorno al governo del Paese è distante anni luce rispetto a questo orizzonte. Cosa deve dunque accadere? Il Partito Democratico può salire al secondo posto tra le liste più votate alle europee, ma proseguirà nell’impossibilità di sciogliere il nodo identitario e la relazione con le molte persone che non intendono tornare a votarlo – senza dire di quelle che non hanno mai avuto intenzione di sceglierlo e a cui nessuno è andato a recapitare una proposta di valori (al massimo, gli si è fatta giungere un telegramma a timbro neoliberista, confidando nella disastrosa prospettiva che si disse Terza Via – il faccione che si deve avere in mente in questo caso è quello di Matteo Renzi). La mitografia implicita, coltivata soltanto dalle classi dirigenti di questo partito sull’orlo dell’esaurimento della propria autosufficienza, davvero, è l’egemonia a sinistra. Questa vocazione maggioritaria è una delle più devastanti ipotesi lanciate dalle storiche dirigenze della Cosona di centrosinistra. La propalò Walter Veltroni – e continua a propalarla. Sostiene Paolo Mieli che devono sorgere due soggetti politici, uno a destra e uno a sinistra del Pd. Ciò determinerebbe la fine di questa follia, che è stata l’autosufficienza su cui hanno contato tutti i segretari e i quadri dello partitone. Io non concordo con Paolo Mieli, ma soltanto perché penso che si debba andare a un soggetto di natura modalità e persone davvero diverse. E’ una sfida complessa, anzitutto perché è una sfida della complessità, ovvero la cifra autentica del tempo che viviamo. Va ridefinita la rappresentanza, la delega, il rapporto tra leadership e collettività, in una concretezza virtuosa del discorso. Non credo che si tratti di aspettare Godot. Credo che Godot sia arrivato, sia già tra noi. Sono un osservatore, a volte anche privilegiato, e a questo sto. Il passaggio storico è complicato e serve un’inventiva enorme, una capacità di prassi altrettanto enorme, un’intensa capacità di coniugare coraggio e rischio, calma e accelerazione, processo e contenuto.
Si vede l’alba, non è quella dorata. E’ luminosa.

Presentazione de “I fratelli Michelangelo” di Vanni Santoni: il supertesto

Questa sera alle 21, alla libreria Verso, ho l’onore di discutere con Vanni Santoni del suo nuovo romanzo, “I fratelli Michelangelo”. Checosa è questo oggetto fraterno che ci viene offerto da una delle menti più vibratili e innovative della comunità letteraria italiana? E’ una summa, anzitutto, ma anche dopotutto, poiché la summa apre un discorso che prevede la propria fine, essendo una grande sintesi e rilanciandone i contenuti e le forme in un’avventura successiva. L’ultima delle cose che desidero dire intorno a questo libro è la descrizione che se ne trova in aletta, così come le informazioni spicce che riempiono normalmente metà degli articoli dedicati a un lavoro letterario. E’ necessario anzitutto affrontare Dostoevskij. Nel caso di questo masterwork di Santoni il ruolo del titolo è delicatissimo e si tratta della risoluzione davvero originale di un problema modale: confrontarsi col passato, mettendo in difficoltà il passato stesso. Se i Karamazov, a cui IFM rimanda nel titolo, fossero stati i fratelli Puškin, allora avremmo qualcosa di simile al tentativo che compie l’autore de “La stanza profonda” (un altro titolo perturbante, che non decresce nella sua attualità e potenza anche rispetto al nuovo testo, di cui costituisce una traiettoria tra le moltissime). Eppure è Michelangelo, non Alighieri: il passato viene utilizzato contro il passato, facendo schiantare Dostoevskij contro l’immanità del Buonarroti, artista diverso e probabilmente più vasto del grande padre russo del romanzo occidentale. La storia è un viaggio: sono molti viaggi. C’è la convocazione di un padre che è Zeus e Coglione al tempo stesso – un padre novecentesco, ma della seconda metà del Novecento. Egli emblematizza una storia, nazionale e non soltanto, a cui i suoi figli, segreti e non, furibondi e non, sono stati convocati di colpo, in un esercizio di confronto con il gigantismo. Che è lo stesso confronto che Vanni Santoni è chiamato a risolvere con un gigantismo parallelo e coincidente, ovvero la storia della lettertura: della *sua* letteratura, dei suoi canoni, dei balzi in avanti che ha osservato praticare in un agone artistico in cui si è formato, precocemente e avidamente. Ogni figlio costituisce una categoria dello spirito. Ogni figlio è narrato da o narra una costruzione storica della personalità. Ogni figlio rappresenta una mossa del contemporaneo. Ciò che fatalmente accade è che la rivoluzione antropologica con cui il mondo trascende le epoche, ovvero il complesso digitale e la psiche collettiva che ne deriva, avviene proprio all’interno della vicenda storica della “famiglia” Michelangelo. La variabile spirituale, così come quella materialistica, ottengono, in questo multitesto che è un ipertesto, la più cristallina e tormentata delle esposizioni narrative. E’ per me impossibile ritrovare, non dico in completezza, ma almeno in una forma accettabile, le tracce sotterranee e le chiavi che Santoni allestisce e seppellisce nel suo macrotesto: citazioni, easter eggs perfino, allusioni, rimandi. Del resto io non leggo in questo modo i testi, perché ragiono sui medesimi come assolutismI: e questo testo è un assolutismo. Il postmoderno viene divorato, esplicitamente, e non è più un modulo all’altezza dei tempi e della mente: si è postmodernizzato e poi è stato dimenticato – e tutto ciò in pochissimi anni. Venature horror (ancora: il perturbante), dispositivi biblici o provenienti dallo stile delle Antiche Scritture di ogni metafisica, improvvise evoluzioni in direzione Risi & Monicelli, una visionarietà che coniuga Cattelan a Richter, Balzac a Lynch, Gadda ad Ariosto – e così via pressoché all’infinito. La lingua di Santoni è congeniale a questo progetto di inabissamento nei saperi e nella vita, questi labirinti che potrebbero, come sempre hanno fatto, trovare un punto di incontro, se non una pacificazione, nel grande mistero della Biblioteca, luogo in cui i libri riposano o sono morti ma comunque attivabili, per costruire l’adeguata interfaccia rispetto alla realtà. Non è questa la sede per un’opera di rigore ermeneutico, su questa architettura narrativa e questa esecuzione sinfonica (à la Penderecki) – qui c’è spazio soltanto per un impressionismo, che risulta impressionato, a fronte dell’impressionante che Vanni Santoni, compositore e direttore d’orchestra e strumentista *e anche pubblico in sala*, ha realizzato con “I fratelli Michelangelo”. Leggetelo, seguitelo nelle sue evoluzioni dal vivo e in Rete, non perdete contatto con questo monstrum letterario.

L’editoria alla fine: trascendimento dell’editoria. Su Book Pride 2019 e vasti dintorni

Passeggiando, rubricando gli spazi, esplorando i milioni di pagine, scrutando migliaia di volti, conversando per niente fitto con pochissimi colleghi e amici, intervenendo a tre incontri, dando sette pacche sulle spalle a sei persone, contando i volumi che fuoriuscivano tra le mani degli avventori, ammirando lo spazio postindustriale molto milanese, commuovendomi un paio di volte, osservando con distacco certe dinamiche di piccola comunità, sentendomi dire che sono ingrassato enormemente, trovando un compagno di sigaretta filosoficamente attrezzatissimo, cercando con lo sguardo l’intesa degli astanti ai dibattiti in cui ero frontale agli intervenuti che ancora vengono detti “pubblico”, constatando che moltissimi nomi di moltissime scrittrici e moltissimi scrittori venivano richiamati con una facilità sospetta perché accumulativa e incrementale ma per nulla progressiva, abbracciando il direttore Giorgio Vasta, sedendomi solitario continuamente su panchine tra la vegetazione tipica delle gentrificazioni, notando lo scandalo dei professionisti per la nomina di dodici libri al Premio Strega, continuando a ripetere che il testo al momento non c’è più perché è trasceso e di fatto non è mai conduttore elettrico di verità per la collettività odierna, assistendo all’assalto dell’appunto pubblico della poesia, annusando l’incongruo puzzo di merluzzo fritto accanto a un foodtruck bio, misurando lo tsunami di pareri sui “ragazzi” “in” “piazza” e su Greta Eleonora Thunberg Ernman ovvero “Greta”, notando che nessuna parola rimbalzava dall’assemblea nazionale del partito maggiore di opposizione che eleggeva il nuovo (…) segretario, sorvolando qualunque chiacchiera e passeggiando mite e testimoniale e solitario in mezzo alla folla, assaporando il sentore di primavera lombarda e calda come una guancia, andando a prendere il motorino a cui si staccava il fanale posteriore, facendo circonvoluzione della città distratta, controllando lo smartphone e trascorrendo a telefono per un tempo inconsulto – ho dunque fatto l’esperienza della fiera dell’editoria indipendente Book Pride in Milano, che si teneva in contemporanea con l’omologa fiera dell’editoria indipendente Libri Come in Roma, e mi sono sentito felicemente solo. Mi sono sentito in connessione, molto intensa, con le persone che intervenivano agli incontri a cui ho partecipato: sguardi di complicità e opposizione, mite e veritiera, una dialettica che non ricordavo possibile negli ultimi anni. Ho sempre tentato di portare il rovello della verità ovunque intervenissi, ma sempre misuravo un gradiente, come dire?, di spettacolo, una finzione tutta connaturata alla frontalità, alla supposta preminenza degli editori e dell’editoria, che ora, e secondo me fortunatamente e molto motivatamente, non ha luogo di accadere, non ha spazio per esistere, crolla con un sentore di miserevole irrilevanza, non può nemmeno nascondersi dietro l’idolo del mercato, questa parolina che ne ha giustificato le malefatte anticulturali e le dinamiche di finzionalizzazione della realtà. Mi è sembrato di percepire la questione editoriale come un secondarismo, un minoritarismo schiacciato da movimenti giganteschi, una riduzione imposta dalla storia, che l’editoria e ciò che molto tempo fa si poteva chiamare industria culturale non stanno capendo e, di fatto, non avevano capito nei decenni scorsi. Gli svolazzi ridotti a svolazzi, gli orpelli a orpelli, la fede sempre interessata non nella letteratura ma nell’editoria stessa decresciuta a elemento microprofessionale, ridotta a una tenera sopravvivenza la saccenza del popolo del testo che se ne fotteva di ciò che accadeva in microfisica tanto quanto in teologia. Insomma: una fine umana. L’aggettivo surclassa il sostantivo: questo è importante sottolinearlo e comprenderlo. La disumanità di una classe intellettuale legata all’editoria è ora divorata dalla disumanità delle idrauliche 4.0, che a me pare tuttavia più accettabile di quell’angosciante cerchio della verità prestabilita in cui sono cresciuto. E’ bello morire, è dolce vedere morire con serenità: le gemme, le foglie, i fiori appassendo – e, appunto, l’editoria. Che si trascende, sia chiaro: c’è un’altra cosa, enorme, che esplode, che trasforma, che trasmuta tutto: la forza che attraverso il verde talamo preme il fiore preme la verde età dell’epoca nuova. A interpretare una tale forza sono pochissimi umanisti, perlopiù giornalisti, il che mi sorprende: pensavo che avrei vissuto la fine del giornalismo e mi ritrovo a vivere la fine dell’editoria, dei librari, degli ipermetrici del testo. Le filologie esplodono, si trasformano, trasmutano: muoiono per come le abbiamo trattate nei millenni. I romanzi non sono più romanzi e, se lo sono, è inutilissimo che lo siano: devono essere *veri*, devono condurre la vibrazione della ricerca di verità e dell’ipotesi di una risposta assoluta all’approssimazione dell’umano che pensa di interfacciarsi con una realtà. Ciò non accade? E chi se ne frega: questi giorni dimostrano che si può vivere senza testo, cioè senza ermeneutiche, senza strategie disgiunte dalle tattiche, senza momenti templari perché inferiori. Un effetto paradosso, che ulteriormente mi prende in contropiede: il luogo dell’estinzione è sovrappopolato. Del resto, come osservava il sempre inquietante Spengler, le forme finali assumono dimensioni ciclopiche. Allora ho visto una lucertola, tra l’erba poco rasata della vegetazione 2.0, in un metro quadro di verde dietro il footruck, dove nessuno passeggiava, è arrivato un cagnolino e la ha mangiata.

[Nella foto, scattata da Jonathan Bazzi, un momento dell’incontro a Book Pride con Viola Di Grado]

A Book Pride 2019

Da venerdì 15 a domenica 17 si tiene a Milano presso la Fabbrica del Vapore la nuova edizione di Book Pride, fiera degli indipendenti, diretta da Giorgio Vasta. Per le interessate e gli interessati: sarò presente a tre eventi – tutti costituiscono un onore per il sottoscritto. Il primo appuntamento è previsto venerdì 15, alle ore 17 nella sala Salinger, con un incontro per me molto intenso, dal punto di vista letterario e anche emotivo, poiché sono a colloquio con Viola Di Grado, a proposito del suo nuovo, splendido romanzo “Fuoco al cielo” (La nave di Teseo), una narrazione potente che sconfina nella poesia, creando una vertigine linguistica e immaginale che, a mio modesto parere, risulta cruciale nel panorama italiano contemporaneo, il che è molto coerente con quanto percepisco di Di Grado, ovvero che siamo di fronte a una delle scritture imprescindibili del nostro tempo. Sabato 16 sarò alle 18 in sala Brera, con il direttore di Wired” Federico Ferrazza, a celebrare i dieci anni di vita del magazine dedicato all’innovazione e ai nuovi immaginari e che pubblica un numero dedicato alla storica occasione: dieci racconti su dieci eccellenze italiane, compreso un robot, cioè iCub, l’umanoide realizzato dall’Istituto Italiano di Tecnologia, guidato da Roberto Cingolani. Domenica 17 alle 12 sarò all’arena Robinson (l’inserto culturale di Repubblica, insieme al vicedirettore de “L’Espresso” Alessandro Gilioli, a rispondere alle domande di Marco Bracconi su “Quell’oscuro oggetto del desiderio italiano”. W gli indipendenti, w Book Pride!

“Fuoco al cielo”, l’ibrido assoluto di Viola Di Grado

E’ un tempo, questo, di molte scritture, di autorialità finita per eccesso di diffusione e disintensificazione dell’autorialità. Non ho più nulla da dire a proposito di questo: non soltanto sono disinteressato al 90% delle scritture che circolano, ma proprio mi infastidiscono, mi nauseano e mi fanno giungere all’esito naturale della nausea. Questa premessa mi sembra personalmente necessaria per dire che: grande è la confusione sotto il cielo, dunque la situazione è eccellente. In questa eccellenza, e non da ora, inscrivo l’opera e la scrittura di Viola Di Grado. Questa prosatrice in poesia è una poetessa in prosa e costituisce uno dei vertici qualitativi nell’attuale paesaggio basso padano della narrazione contemporanea in Italia. In quanto è un’acuzie, Di Grado è riconosciuta non soltanto in Italia, è tradotta e apprezzata un po’ ovunque e, per ciò che concerne la percezione collettiva potrebbe apparire un equivalente nazionale di Amélie Nothomb e infatti ciò appare ai giornalisti nostrani, quando non c’entra nulla di nulla con la scrittrice belga, a cui, secondo il generalismo cronachistico italiano, la accomunerebbe il fatto di vestire e truccarsi *strana*. Di Grado in realtà a me non pare c’entrare niente con Nothomb e, al tempo stesso, niente anche con la supposta tradizione prosastica e narrativa in lingua italiana. E’ uno strappo che Di Grado compie, da subito, violentemente, per appartenenza anche generazionale a una nuova anagrafe italiana, che non è più tale: né anagrafe né italiana. La sua specificità è accogliere, modificare, inventare, tragicizzare storie dal nuovo mondo, che è un nuovo tempo – un tempo molto feroce. Molto più di sue colleghe e suoi colleghi, Di Grado affronta il dramma di una nuova sostanza del tempo, che tende all’abolizione dell’autorialità e, per paradosso, all’imporsi soltanto dell’autorialità, ovunque e sempre. Questa supponenza dell’epoca è, credo, uno degli avversari impliciti della narrazione di Di Grado, che reagisce esaltando la lingua italiana, poeticamente avvertita e restituita in pagina, attraverso stridori e crepature, stupri e tenebrosità, rintocchi del cristallo e dolcezza pensativa, che ha in Pascoli forse il referente naturale, dal cosmismo all gracchìo del fantasma, della natura morta eppure ancora esistente. Le prose di Viola Di Grado sono ibridazione, sempre, tra acrilico e lana, tra bambini e ferro e, adesso, tra fuoco e cielo. Con il nuovo romanzo, “Fuoco al cielo”, edito da La nave di Teseo e in libreria dal 21 marzo, si accoglie la prova forse più radicale dello helter skelter privato e poetico (dunque: collettivo) del percorso iniziato con il sorprendente “Settanta acrilico trenta lana”: una vicenda di psichismo intensissimo, così difficoltoso da reggere, nell’assolutezza di una amore privo di compromessi e ricco di compromissioni, un gorgo di anime in un’ambientazione ibrida e carcinomatosa per eccellenza, in Siberia, nella zona più radioattiva del pianeta e nell’epoca più sconvolgente di sempre, per chi visse la dissoluzione del gigante sovietico a inizio Novanta. Regesto di forze all’opera secondo una psicologia dell’aberrazione che coincide con la corruttela di tutte le cose, mutagena e tumorale, in un esotismo impressionante, che sposta chi legge fuori dal cerchio prestabilito del controllo di sé e della conoscenza mitigata da ciò che è familiare. Una paratassi che conferisce velocità suprema, conturbante, mai assolutoria, e la precisione ottica, ma anche fonica, in una spirale che avvolge di colpo, tragicamente, senza insinuarsi, senza sedurre: questo movimento circolare è per ibridazione una frontalità che non dà scampo, l’onda anomala delle parole che si schianta e spacca il temporale umano per pressione, soffoca il brochìolo, fa battericidio del vivente, non gose mai: mai, mai, mai. Questo avverbio di tempo diviene in Di Grado un’ontologia, un antiumanismo che è l’ultima salvezza della specie che scriveva e che ora, forse, va a non scrivere più, perché si limiterà a ricevere visioni. In “Fuoco al cielo” è tutto un corpo, un avvinghiarsi dei boa umani come in gruppo laocoontico, una spigolarità scabrosa e scalena, urtante, tossica. E’ una delle prose più artisticamente valide e impietose che abbia letto in questi anni. Sono onorato e orgoglioso di affrontare il discorso con l’autrice, Viola Di Grado, il 15 marzo alle 17 presso BookPride.

“Capitano fragile”: il fenomeno che non è un fenomeno

C’è una dimenticanza, una disattenzione di massa, e dico non dei seguaci del fascismo collettivo ispirato a Salvini: quest’uomo di mezza età, paffuto e via via mascherato con felpe da mercato rionale e divise militaresche, è fragile perché banale, è debole perché portato in alto da uno stato di cose e non da una propria intelligenza. Non esiste alcun Salvini grande politico, come invece si affannano a enfatizzare i corsivisti e i mediatori mediatici – e dico coloro che sarebbero critici. Il ragazzotto nullafacente che partecipava a “Il pranzo è servito” nell’edizione condotta di Mengacci (nemmeno quella eroica di Corrado…) è privo di voli pindarici, sprovvisto di retoriche e acuzie dell’ingegno, un sottoprodotto degli anni Ottanta e della generazione-sandwich. La sua incapacità a comunicare, scambiata per una raffinatezza del tutto inesistente, mi fa venire in mente certi muri ciechi della Barona a Milano, certi triangoli di prato all’incrocio di tangenziale e Forlanini, certo kebab mangiato sotto un fungo per il riscaldamento d’inverno, certi panzerotti di Luini: una produzione di massa, cioè, del tutto coerente con le kilocalorie e i trigliceridi. Questa vulgata, dimentica della paciosità normodotata del Medesimo, si scorda che Salvini e i suoi collaboratori non sono cime (l’unica cima, a onor del vero, sarebbe Giorgetti: ma è proprio quello che come ministro per la scuola ha scelto il Bussetti, dimostrando assai poca lungimiranza), che la Lega non dispone della benché minima classe dirigente, che questi qua si schiantano contro i giovani e le donne. Per correggere il tiro, dunque, rimanderei alla fragilità del capitano (con la minuscola, che si fa maiuscola solo perché a inizio titolo), con cui Marco Damilano intercetta su L’Espresso la cifra grigia, fumigosamente spersa tra cassoela e possa Girella, di un fenomeno che non è un fenomeno.