Miserabile intervista sulla scrittura

“Esiste per me un piano fonico che è irrinunciabile. Sono per l’abbattimento dei generi all’interno del romanzo, ma lo sono anche tra due macrogeneri che invece vedo essere in perfetta continuità: cioè prosa e poesia…”

di MARIANO SABATINI

Definirebbe l’italiano una lingua facile o difficile? (e perché?)

La lingua italiana è la lingua più difficile al mondo. Su questo sono tanto categorico non tanto in ragione delle strutture sintattiche, grammaticali o foniche – quanto per questioni letterarie. L’italiano è la lingua letteraria più antica del mondo: un iraniano non capisce nulla di Gilgamesh in versione originale, così un greco contemporaneo non comprende Omero e un inglese oggi fatica a capire Chaucer o addirittura Shakespeare, e un francese non coglie nulla di Arnaut Daniel. Noi italiani comprendiamo, seppure non del tutto e perfettamente, Dante, Petrarca, Boccaccio. La nostra lingua arriva a noi praticamente immodificata (si pensi che, dopo Dante, il massimo introduttore di lessemi innovativi nella lingua italiana è D’Annunzio, nel Novecento). Abbiamo quindi un privilegio che è uno svantaggio e un’abnorme chance rispetto alle altre lingue: abbiamo sperimentato ogni forma. Non c’è una lingua più all’avanguardia di quella italiana, poiché non ce n’è una più esausta – forse addirittura ha oltrepassato il coma, la morte. Inventare linguisticamente, per un italiano, è un’opera di folle difficoltà. Se penso a Heaney, ho la percezione che stia facendo (in un inglese che è anche meticcio, come del resto quello di Walcott) quanto fece da noi Carducci più di un secolo fa. La chance sta nel fatto che la letteratura italiana si troverebbe nella posizione di avere superato la lingua di superficie. Tale chance è còlta da pochissimi scrittori contemporanei, e penso a Tommaso Pincio in primis, ma anche a Giulio Mozzi, che a mio parere ha la più profonda autocoscienza del mezzo letterario linguistico tra i prosatori italiani. E’ una tesi non del tutto mia, del resto: basti scorrere la bibliografia di Giorgio Agamben per condurre la latitudine Walser a quella pascoliana, fino a sprofondare nella scrittura in lingua vivente che è già morta.

Pensa che la pagina debba essere bella, e quindi perfetta, o farsi leggere comunque?

La pagina, almeno per quanto concerne un fatto di poetica personale, deve tenere conto di due fattori: quello linguistico italiano sopra accennato, e cioè l’esaurimento del “bello stile” come tradizione unificante – ciò significa l’abbattimento della linea neopetrarchesca o, nel Novecento, calviniana. Io propongo un modello di fondazione organica della narrazione italiana, compreso il piano superficiale linguistico, con lo Zibaldone di pensieri di Leopardi, secondo l’interpretazione datane da Mario Fubini – bisogna partire considerando la struttura come lingua, ma non nel senso dello strutturalismo e del post-strutturalismo, bensì rifacendosi al momento sorgivo in cui una narrazione non lineare ma organica, quale è a tutti gli effetti lo Zibaldone, viene alla luce con una lingua sconcertante. Questa lingua “sbaglia”, appositamente non si fa cristallina. Farsi leggere comunque: è questione di mercato e non mi interessa.

In base a cosa sceglie di narrare in prima o seconda persona?

Di solito la narrazione avviene in prima o terza persona. Rispetto ai miei colleghi contemporanei, utilizzando una modalità di apicalizzazione che mutuo da Hugo, in certi momenti o scene che definisco “emblematici”, adotto la seconda persona in una reiterazione di vocativi rivolti al personaggio. Non si tratta di dare fisicità al personaggio, bensì di fargli attraversare due fasi: una esplicitamente moralistica (io scrittore attacco moralisticamente il mio personaggio) per annullarlo, e quindi giungere a un vocativo che sia pietà, cioè empatia. E’ l’empatia la chiave di tutto l’utilizzo della seconda persona, che tenderei a privilegiare, se il lettore fosse disposto ad accettare un patto del genere, rispetto alla prima persona, che utilizzo per arrivare a sciogliere l’io, mediante visioni o spostamenti radicali della situazione in cui la prima persona viene a trovarsi. La terza persona mi è particolarmente odiosa, poiché è ormai cristallizzazione di una concezione del romanzesco come unico canone espressivo della narrazione: è ciò che contesto. Mi piacerebbe sottrarre la narrazione dal romanzesco, insomma…

Sceglie le parole anche per il suono?

Fondamentalmente, sì. Esiste per me un piano fonico che è irrinunciabile. Sono per l’abbattimento dei generi all’interno del romanzo, ma lo sono anche tra due macrogeneri che invece vedo essere in perfetta continuità: cioè prosa e poesia. Il lavoro fonico mi àncora a una tradizione che mi ingabbia, e questo ingabbiamento è fondamentale: mi spinge a cercare un varco e a piegare le sbarre. Non considero scrittura letteraria quella in cui non è compiuto un lavoro fonosimbolico (sia chiaro: in Pincio, esiste pochissima foné tradizionale: ma la scelta di scrivere in quella lingua mediana e “bianca” è una scelta dell’autore, che conosce perfettamente il piano fonico).

Meglio tanti o pochi aggettivi?

E’ una discussione che non ho mai compreso. Io sono portato a una scrittura iper-aggettivata, la quale viene tacciata o di barocchismo o di neo-espressionismo. Se si guarda alla scelta epica, ci si renderà conto della ricchezza aggettivale, che probabilmente abbatte il discorso delle formule reiterate e dei treni di parole come motivi mnemonici nel passaggio da una letteratura orale a una letteratura scritta. Posso dire che apprezzo più una scrittura con pochi aggettivi, cioè una scrittura che non pratico in prima persona: in questo, Houellebecq, che rientra tra i miei contemporanei prediletti, è cartesiano.
Quali libri tiene a portata di mano? (dizionario, sinonimi e contrari, grammatiche…)

Non ho mai utilizzato nessuno di questi strumenti. Se scrivo, tengo presenti molti libri che entrano nel libro che sto stendendo, e non sono a portata di mano, ma sparsi in angoli spesso remoti delle mie librerie. A ciò si aggiungono i testi che ho studiato per scrivere il libro – testi che solitamente superano la cinquantina.

Fa delle ricerche prima di mettersi a scrivere? (di che tipo?)

E’ a mio parere impossibile comporre un romanzo senza fare ricerche, cioè studiare. Ho calcolato che per l’ultimo libro che ho steso, il romanzo del 2008, sono circa 15.000 le pagine che ho studiato attentamente. Essendo estremamente pigro, mi muovo poco per ricerche sul campo, anche perché attingo a un patrimonio esperienziale abbastanza movimentato: ciò che ho esperito in passato, muovendomi attraverso varie situazioni, molto spesso entra nella scrittura in qualità di esperienza attuale. Spesso dietro il romanzo c’è un’investigazione, che è quasi sempre condotta in forza di un sospetto e di un desiderio inappagato (fino alla fine) di disvelamento. Ciò significa che i libri che ho finora pubblicato sono costruiti a più livelli. E’ curioso notare come l’investigazione effettiva sia l’elemento meno percepito dai lettori, nonostante sia posto in bella vista – un atto su cui ragiono spesso, poiché evidentemente tendo all’occultamento di quanto cerco senza scoprire nulla.

Cosa pensa degli avverbi? (li odia, li ama, li evita come la peste…)

Non li amo. Però è un’altra questione inesplicabile: dipende dall’uso che se ne fa. L’“ignominosamente” del verso di Luzi sulla morte della Repubblica, nella poesia in morte di Aldo Moro, ha una potenza altissima, per esempio.

Le parole che odia? (qualche esempio)

Quelle derivate senza filtri o ambiguità dalla lingua comune. I treni di parole (“come un libro aperto”). La lingua da supermarket. Per fare un esempio: “io”, il verbo “dovere”, il sostantivo “assenza”.

Meglio frasi lunghe o brevi?

Dipende dal protocollo. Il protocollo è ritmico. Io amo alternare violentemente ipotassi e paratassi, per cui a questa domanda non ho risposta. Amo molto, tuttavia, gli scrittori che si esprimono con frasi brevi, Kafka su tutti.

I verbi ausiliari: aiuto o condanna? (nel senso che non se ne riesce a fare a meno)

E’ per me una questione irrilevante, nel momento in cui percepisco la prosa come una continuità della poesia.

I suoi personaggi, di solito, sono ricalcati su persone reali?

Non sempre. Molto meno di quanto pensano certi miei lettori. Quando pensano che io sia veritiero e diretto, quasi sempre non lo sono: sto inventando. Nei thriller sono pochissimi i personaggi reali (o loro frammenti) che entrano nel gioco della scrittura. Quando autobiografizzo, spesso cambio un personaggio reale con un altro, per cui può capitare che mio zio sia in realtà mio cugino, che mio padre sia io – e non sempre i fatti sono riportati dal reale, spesso sono inventati di sana pianta.

Le descrizioni dei personaggi sono utili o è meglio desumerle da piccoli dettagli disseminati nella storia?

Odio descrivere i personaggi, sia fisicamente sia psicologicamente. C’è un mio personaggio seriale, l’ispettore Lopez, che regge quattro thriller senza mai essere descritto una volta. Anche la disseminazione degli indizi fisici e psicologici mi pare una tecnica preordinata, quindi finta, attinente alla finzione-finta che è il mio attuale nemico letterario.

Dovendo scegliere le ambientazioni preferisce andare sul luogo?

No, mai. Può capitare a volte che io ci sia stato. In un thriller compare Pechino, dove non ho mai messo piede, e Montecarlo, che mai ho visitato. Altrove c’è un’ampia descrizione di Amburgo, dove sono stato per un giorno. Tenderei a scrivere di Marte, e quindi la risposta viene da sé.

Quali esercizi sono utili per imparare a scrivere?

Leggere moltissimo. Poi leggere pochissimo. Meditare in silenzio.

L’assoluto qui ora del nomade che fa il deserto

‘Il nomade fa il deserto. E’ in un assoluto locale (deserto steppa ghiaccio o mare).’

Il tempo è una forma liquida di spazio mentale e tra istante e istante, cioè in ogni punto, ci è un assoluto locale.

‘Non ci fu dunque un tempo, durante il quale avresti fatto nulla, poiché il tempo stesso l’hai fatto tu; e non vi è un tempo eterno con te.’,

oppure:

‘Questo, in realtà, è il tempo: il numero del movimento secondo il prima e il poi.’,

oppure ancora:

‘Il tempo è un modo di dividere l’energia per amministrarla.’

Questa allusione (“energia”) allude a un sostrato (che è un termine allusivo) a ciò che il nomade fa. Ci sono molti sensi verso cui la nomadica allusione del sostrato si incammina. Tre classici, per esempio, sono:

‘Sostanza è il sostrato, il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza), in un secondo senso significa l’essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero), e, in un terzo senso, significa il composto di materia e di forma’.

La separazione avviene comunque mediante il pensiero, che è un’attività.
Ci si dovrà quindi adattare al fatto che il nomade non pensi, il che non significa che non abbia possibilità di pensare.
Egli, piuttosto, né va né sta fermo, o meglio compie un’attività che non è propriamente tale, per cui sembra non muoversi o fermarsi – e dall’esterno si osservano scosse di movimento, repentini stop, arresti privi di ragione, riprese immotivabili. Tali osservazioni dall’esterno falliscono se e solo se non sono percepite come riflessi del proprio nomadismo e come affezioni proprie.
Se dovesse parlare, cosa che non fa seppure la possa fare, il nomade constaterebbe con un celebre e tragico motto:

‘L’esterno è follia.’,

oppure:

‘La pazzia, signore, se ne va a spasso per il mondo come il sole, e non c’è luogo in cui non risplenda.’

Invece, quando parla, il nomade dice il contrario, in quanto egli è santo, cioè separato dagli altri perché non solo sta investigando, ma ha terminato l’investigazione:

‘Mentre si è impegnati nell’investigazione di sé, si può con facilità badare anche alle altre attività. Inoltre, l’investigazione, essendo puramente interiore, non distrae gli altri che sono intorno.’

Intraprendere il cammino, laddove il tempo è trasceso, è sempre il tempo trasceso quando si intraprende un cammino, che è fatto di divisioni, di intervalli liquidi, trascendenti essi stessi l’orizzontalità del cammino medesimo.
Del medesimo, infatti, si parla non parlandone.
Intraprendere orizzontalmente il cammino, perseguirlo, tra dune, e quindi discontinuità dell’orizzonte stesso, nella verticalità che si fa implicitamente presente e pressante – questo è ciò che accade a una via che non si desidera percorrere e, proprio perché non la si desidera, càpita di percorrerla.
Così, nel ghiaccio o nel deserto, si può dire, pensando di non essere lì:

‘Cado in disparte e precipito nell’abbandono’,

perché ancora sono attivi gli attaccamenti agli affetti non sentiti e, perciostesso, non trascesi: qui il nomade non fa ancora deserto, non è ancora nomade, è appena apparso in luogo desertificato o ghiacciato.
Del ghiaccio invece si può dire, avendo trasceso gli attaccamenti agli affetti esperiti pienamente, cioè avendo maturato lo stato (che non è uno stato affatto) del nomade:

‘Lo ‘mperador del doloroso regno | da mezzo ‘l petto uscia fuor de la ghiaccia.’

Del deserto allo stesso modo si può dire:

‘or è diserta come cosa vieta.’

Che qualunque ascesi non sia ascesa, e perciò non abbia alcuna connotazione erettiva, muscolarmente dedita al completamento di chissà quale percorso, è cosa che la mente simbolica dell’umano fatica ad accettare. Quando non l’accetta, si manifesta la modalità:

‘Il mondo come suprema finzione’.

Quando l’accetta a forza, a forza si manifesta l’incomprensibile modalità: ‘L’io come suprema finzione’.
A quel punto l’umano è a un bivio, poiché sta morendo. Questo bivio è sintetizzato dalla mente simbolica non umana nella modalità:

‘Questo è il regno di Mnemosine. Qualora tu venga a morire, andrai alle case ben fatte di Ade: a destra c’è una fonte; accanto ad essa sta un bianco cipresso. Venendo laggiù le anime dei morti trovano refrigerio. A questa fonte non ti avvicinare affatto! Ma più avanti troverai la fresca acqua che scorre nel lago di Mnemosine: di sopra vi sono i custodi. Essi ti domanderanno, nell’animo loro prudente, che cosa tu veramente chieda alla Tenebra di Ade funesto. Dì: figlio io sono della Greve e di Urano stellato. Sono arso da sete e muoio, ma datemi subito la fresca acqua che scorre dal lago di Mnemosine”. E, invero, avranno misericordia di te con il consenso del re di sotterrra; e, invero, ti permetteranno di bere al lago di Mnemosine e, invero, anche tu, dopo aver bevuto verrai alla via sacra che anche altri iniziati e baccanti percorrono incliti.’,

la quale modalità corrisponde a questa altra (e a moltissime equipollenti e indefinite):

‘La mente è la base della trasmigrazione e dell’illuminazione, perciò è necessario conoscere la mente.’

In questa introduzione al limbo, a prima vista anodino epperò stracolmo di forze e di possibilità che l’orizzonte scatena, è fatto deserto: la scelta del deserto viene prima e muove l’incomprensione interiore e l’aggressione esteriore, che è il riflesso dell’incomprensione interiore.
L’incomprensione esteriore scatena lo stupor che è l’avvio a quel bivio, alla comprensione interiore.
L’alterità causa stupor e meraviglia, è meravigliosa, poiché è l’espressione teatrale dell’unità.

Agamben: “Del gesto”

agamben_gestodi GIORGIO AGAMBEN
[da La potenza del pensiero, Neri Pozza, 2005]

Kommerell, o del gesto
La critica ha tre livelli, esemplificabili, se si vuole, in tre sfere concentriche: quello filologico-ermeneutico, quello fisiognomico e quello gestuale. Il primo svolge l’interpretazione dell’opera, il secondo la situa (tanto negli ordini storici che in quelli naturali) secondo la legge della somiglianza, il terzo ne risolve l’intenzione in un gesto (o in una costellazione di gesti). Si può dire che ogni autentico critico trascorra attraverso tutti e tre questi ambiti, indugiando, secondo la propria indole, più o meno in ciascuno di essi. L’opera di Max Kommerell — certamente il più grande critico tedesco del Novecento dopo Benjamin e forse l’ultima grande personalità della Germania fra le due guerre che ci resti ancora da scoprire — s’inscrive quasi integralmente nel terzo ambito, dove più rari sono i talenti supremi (fra i critici del Novecento, oltre a Benjamin, solo Rivière, Fénéon e Contini vi si collocano a pieno titolo).

Che cos’è – nella prospettiva che qui ci interessa – un gesto? Basta scorrere il saggio su Kleist Il poeta e l’indicibile per misurare la centralità e la complessità del tema del gesto nel pensiero di Kommerell, e la decisione con cui egli riconduce ogni volta l’intenzione ultima dell’opera in questa sfera. Il gesto non è un elemento assolutamente non-linguistico, ma qualcosa che sta col linguaggio nel rapporto più intimo e, innanzitutto, una forza operante nella lingua stessa, più antica e originaria dell’espressione concettuale: gesto linguistico (Sprachgebärde) definisce Kommerell quello strato del linguaggio che non si esaurisce nella comunicazione e lo coglie, per così dire, nei suoi momenti solitari.

“Il senso di questi gesti non si compie nella comunicazione. Il gesto, per quanto cogente possa essere per l’altro, non esiste mai unicamente per lui; solo, anzi, in quanto esiste anche per se stesso, può essere tanto cogente per l’altro. Anche un volto che non ha testimoni ha la sua mimica; ed è problematico se a lasciare sulla sua superficie un’impronta più profonda siano i gesti coi quali esso s’intende con gli altri o quelli che gli sono imposti dalla solitudine o dal colloquio con se stesso. Spesso un volto sembra narrarci la storia dei suoi momenti solitari.”

In questo senso, Kommerell può scrivere che «la parola è il gesto originario [Urgebärde], dal quale derivano tutti i singoli gesti» e che il verso poetico è, nella sua essenza, gesto («Il linguaggio è, insieme, concettuale e mimico. Il primo elemento domina nella prosa, il secondo nel verso. Prosa è, innanzitutto, l’intendersi su un contenuto, il verso è, oltre a ciò e in modo più deciso, gesto espressivo»). Se questo è vero, se la parola è il gesto originario, allora ciò che è in questione nel gesto non è tanto un contenuto prelinguistico, quanto, per così dire, l’altra faccia del linguaggio, il mutismo insito nello stesso esser parlante dell’uomo, il suo dimorare, senza parole, nella lingua. E, quanto più l’uomo ha linguaggio, tanto più forte è, perciò, in lui il peso dell’indicibile, finché nel poeta, che è, fra i parlanti, colui che ha più parole, «l’accennare e il far segni si stremano e ne nasce qualcosa di corrosivo: la furia per la parola».

Nel saggio su Kleist, i tre gradi di questo essere, senza parole, nel linguaggio, sono l’enigma (Rätsel), in cui il parlante si rende incomprensibile quanto più cerca di esprimersi nelle parole (come avviene ai personaggi del dramma kleistiano); l’arcano (Geheimnis), che resta inespresso nell’enigma e che non è altro che l’essere stesso dell’uomo in quanto vive nella verità del linguaggio; il mistero (Mysterium), che è la pantomimica messa in scena dell’arcano. E, alla fine, il poeta appare come colui che «rimase senza parole nel parlare e morì per la verità del segno».

Proprio per questo — in quanto, cioè, esso non ha propriamente nulla da esprimere e nulla da dire oltre a ciò che è detto nel linguaggio, ma ha da esprimere lo stesso essere nel linguaggio — il gesto è sempre gesto di non raccapezzarsi nella parola, è sempre gag nel significato proprio del termine, che indica innanzitutto qualcosa che si mette in bocca per impedire la parola e, poi, l’improvvisazione dell’attore per sopperire a un’impossibilità di parlare. Ma vi è un gesto che s’insedia felicemente in questo vuoto di linguaggio e, senza proferirlo, ne fa la dimora più propria dell’uomo: qui lo smarrimento si fa danza e il gag mistero.

La nudità

Ha detto un Maestro:

E’ così difficile riconciliarci con, tornare ad aderire a, rammemorarsi della natura? E della propria natura? E’ difficile, a quanto pare, per gli umani.

Provo a meditare con una metafora. Una forma di essenzialità umana è la nudità: noi non compiamo alcuna fatica a essere nudi. Così, a essere la natura che siamo, non compiamo alcuna fatica. Nel mondo capita che ci vestiamo. Ci sono ragioni climatiche e cliniche che hanno imposto alla specie, una volta trasmutata e giunta a una sua nudità, di adottare vesti. In seguito è accaduto che le vesti venissero fortemente culturalizzate. Infine, che lo spettacolo delle vesti annullasse l’idea stessa di nudità. Soltanto nei momenti di massima intimità, compresa quella dolorosa degli attimi terminali o di intensissima sofferenza organica, ritroviamo la nudità lì dov’era sempre stata. [Un poeta italiano contemporaneo, Giovanni Giudici, scrive in una sua poesia, nel libro Il male dei creditori: “Per ché come se fossero vivi | vestiamo i morti?”. E’ una domanda sintomatica, non anamnestica. gg].
Il rapporto con la nudità è un rapporto sorgivo che, a causa delle pressioni dell’inconscio e del conscio collettivo, diviene via via liberatorio, frustrante, umiliante. Essere messi a nudo o denudarsi appare fondamentalmente rivelatorio, un atto ultimo: ciò che ci resta, il nostro corpo nudo e semplice.
Tutto ciò storna l’attenzione dal fatto che la nudità c’è da quando esistiamo, cioè da quando siamo, e quindi è una metafora accettabile di quanto siamo naturalmente. La nudità è sempre stata lì e, come la nostra natura, ha sviluppato coperture che hanno attratto l’attenzione stessa.
Ora, la domanda su come riconciliarsi o come ricordarsi della natura quintessenziale dell’essere umani suona all’incirca al pari di questa seguente: come si può riconquistare la nostra nudità?
La risposta alla domanda è che non si può: già siamo nudi. Si possono compiere alcune operazioni: togliersi le vesti e tornare a vedersi nudi. Si può pensare che, sotto le vesti, siamo nudi, essenzialmente nudi.
Le vesti sono le sovrapposizioni: i pensieri, le tendenze latenti, tutto ciò che inibisce l’attenzione, l’accorgersi che esiste una nudità naturale che non fa fatica. E’ inutile riflettere sullo stato adamitico, che è proprio la nudità: questo riflettere è già una veste.
La nudità è la sensazione di essere, che tutti noi sperimentiamo internamente, a prescindere da nome, sesso, posizione sociale, azioni compiute o che compiamo nel mondo, che sono tutti vestiti, belli o brutti che siano, ci piacciano o meno, essi non hanno nulla a che fare con la nudità e la ricoprono, la velano.
E’ da porre attenzione alla nudità, cioè alla semplicissima e sempre presente sensazione “Io sono”.

Agamben, da Che cos’è il contemporaneo?

[…] Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri.
[…] Che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”?
[…] Che cos’è il buio che allora vediamo? I neurofisiologi ci dicono che l’assenza di luce disinibisce una serie di cellule periferiche della rétina, dette, appunto, off-cells, che entrano in attività e producono quella specie particolare di visione che chiamiamo il buio.
[…] Percepire questo buio non è una forma di inerzia o passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare.
[…] Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità.
[…] Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.
Giorgio Agamben, Che cos’è il contemporaneo?, edito da Nottetempo, € 3,00

Avvicinamenti al romanzo: rappresentare le vittime del Male, rappresentare chi fa il Male

1. Avvicinamenti al romanzo: Wu Ming 1 e Piperno su Littell
2. Avvicinamenti al romanzo: Claude Lanzmann
3. Avvicinamenti al romanzo: Paolin sulla recensione a Littell di Piperno
4. Avvicinamenti al romanzo: Solinas e la conferma dell’errore di Littell
5. Avvicinamenti al romanzo: io, Littell e Leopardi
6. Avvicinamenti al romanzo: le bozze
7. Avvicinamenti al romanzo: audio – Levi Della Torre e Mengaldo
8. Avvicinamenti al romanzo: da Autet su Littell
9. Avvicinamenti al romanzo: la rappresentazione del Male
Su suggerimento di Antonio Scurati, a proposito del romanzo, di cui qui si possono visionare i materiali di riflessione che hanno condotto alla stesura, ho visionato un testo fondamentale del filosofo e semiologo Hubert Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, uscito per i tipi Cortina. didi_huberman.jpgE’ a partire dalle sequenze di immagini scattate all’interno del campo di sterminio di Auschwitz (nel ’44, da un deportato noto col nome di Alex) che il filosofo francese, evitando la feticizzazione dell’immagine stessa, tenta di avvicinarsi alla possibile rappresentazione dell’orrore. La rappresentabilità degli esiti del Male Assoluto è qui in questione. Qualcuno ricorda un monito di Agamben: se non fosse possibile immaginare quel Male, si darebbe ragione ai nazisti, che sostengono: “La storia dei lager la detteremo noi”.
Fatto sta che la storia dei lager non l’hanno dettata i nazisti e nessuno ha impedito a nessuno di immaginare cosa successe ad Auschwitz. E’ piuttosto nella disgiunzione tra il sentire metafisico e l’immaginarsi Auschwitz che avviene la sconfitta di tutto il protocollo umanistico occidentale – o, meglio, il suo inveramento, che è Auschwitz stessa. Poiché l’immaginare viene pensato dall’Occidente come connesso eventualmente all’emotivo, e l’emotivo non è il piano dell’ontologico, dove risiedono gli effetti del Male Assoluto. Quando scrivo “piano ontologico” non intendo qualcosa di differente rispetto alla storia umana. Se però la storia umana non è sacra in forza della pietas e dell’empatia, o se l’empatia e la pietas non giungono alla percezione dell’assolutezza del gesto umano, l’emozione e l’immaginazione e tutta la cultura divengono un campo di coltura delle premesse che giungono a una conclusione inevitabile, inevitabilmente voluta: il disgiungimento assoluto tra umano e umano. Quando Adorno sentenzia che “è impossibile scrivere dopo Auschwitz”, ha ragione – poiché ormai conosce bene il potere delle immagini, sganciate dal sacro e dal metafisico. E’ questo lo snodo fondamentale: se si perde la sacralità dell’empatia, l’umanesimo si rovescia nel suo opposto, l’antiumanesimo.
Non è perciò data, almeno per me, alcuna rappresentabilità degli esiti del Male Assoluto: non immagino, cioè non invento, l’orrore abissale avvenuto in quella breccia della storia umana che fu il campo di sterminio nazista. Se lo immaginassi, la storia dei lager verrebbe dettata dai nazisti. La rappresentazione del Male Assoluto è possibile soltanto quando la rappresentabilità stessa è nella sacralità, è nella metafisica: soltanto chi ha vissuto la storia del campo di sterminio può rappresentare. E’ questo a conferire l’unicità della Shoah. Altrimenti, all’unicità dello sterminio ebraico corrisponderebbe l’unicità di chi lo ha perpetrato – e questa è una vittoria postuma che non si può concedere ai nazisti.
A noi tocca creare all’interno di un cerchio ristretto di rappresentabilità: si esige una potente, lunga e ponderatissima meditazione sulla rappresentazione di chi ha commesso il Male, non del Male commesso. Questa rappresentazione esige lo sforzo di adoperarsi per una forma che annulli il primato ontologico di chi esercita il Male, per disgiungerlo dall’unicità dello sterminio. Se non fosse così, l’unicità della Shoah manterrebbe in vita il ricordo di chi praticò quel Male, mitologizzando. Di ritorno, l’unicità della Shoah rischierebbe di essere considerata alla stregua di un mito: ed è proprio il movimento che compie chi secerne vergognose tesi revisioniste. Bisogna andare al di là della nozione di persona, a proposito di chi compie il Male. Se è un unicum, si tratta di un unicum che non esiste, che non è, che non ha statuto di essere: bisogna sottrarre statuto di essere a colui che compie il Male assoluto. Questo zero, questa Non-Persona è una discontinuità nella storia umana: appare come umano e non è un umano. Quale forma di rappresentazione, dunque, utilizzare?

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