Garzanti compie un’opera necessaria quanto potente: la pubblicazione delle poesie di Mario Benedetti in unico volume. È fondamentale il corpus di questo poeta italiano, di origine friulana, la cui capacità di unire ricerca esistenziale e slancio metafisico trova un corrispettivo nell’abilità di tradurre un intero canone poetico in un codice sorprendente, che installa questi versi nel cuore della tradizione contemporanea. Per me, insieme a Milo De Angelis e ad Antonio Riccardi (quest’ultimo è autore di una densa quanto folgorante intuizione), Mario Benedetti è l’interprete principale della letteratura italiana degli ultimi trent’anni. La sua lallazione si distende quasi a cercare il prosastico, facendo proliferare un universalismo integralista nelle cose stesse e tra sillaba e sillaba. Si tratta di una scrittura imprescindibile e continuamente rivelativa, una tappa non eludibile della poesia di questi anni, della poesia italiana sempre. Il libro, che colma una mancanza clamorosa dell’editoria nostrana, sarà disponibile dal 12 settembre. Immensa gratitudine a Garzanti!
Antonio Riccardi: una poesia da “Aquarama”
Antonio Riccardi, da “Aquarama e altre poesie d’amore” (Garzanti):
Ecco l’aurora, lasciami andare…
Anno dopo anno il formichiere
muore lottando col giaguaro.
Da lontano non diresti la verità
di tanta combustione.
Un abbraccio o un passo figurato
invece, o l’incontro con l’angelo.
Se però vai lì lo vedi e lo sai.
Uno artiglia l’altro che lo morde
al muso. Si tengono in tensione
e quasi vibrano uno dell’altro
fissati a un punto della vita
uguale dal primo minuto.
Giaguaro e formichiere imprigionati
nella perfetta luce di una sola azione
selvatica, senza sangue né scelta.
Ferocia con ferocia e attorno
nella siepe tra la stipa delle fate
i fiori sanno solo il loro bene.
Esce per il Saggiatore “Gladiatori” di Antonio Franchini
E anche Antonio Franchini, col suo Gladiatori, sbarca tra i tipi de Il Saggiatore. E’ uno dei migliori scrittori italiani contemporanei. E’ in libreria dal 14 gennaio 2016. Questa nella foto è la prima copia arrivata or ora in casa editrice.
Ho ritrovato proprio oggi per puro caso, all’interno in un archivio on line che fotografa il Web e i suoi contenuti e fa oggi da macchina del tempo, una assai impressionistica “recensione in forma di narrazione” a proposito di Gladiatori, che postai il 27 settembre 2005 su I Miserabili, un sito che gestivo ai tempi. La ripubblico qui, sotto il nostalgico screenshot.
da I Miserabili, 27 settembre 200
In un anno che non ricordo più, un anno perduto nella melma dello scorso decennio, io vissi una delle serate più assurde e quindi interessanti della mia intera esistenza. Garantisco che, di serate assurde, ne ho vissute parecchie: ma questa che vi racconto…
Lavoravo presso Mondadori, facevo il web di Segrate. Internet (credo fosse il ’97) era in Italia un protocollo non precisamente di massa, a quei tempi; figuriamoci quant’era popolare all’interno di un’organizzazione industriale che percepiva la Rete come minaccia futura incombente sulle vendite del suo prodotto. Venivo pagato con un giustificativo patafisico: ero i viaggi inesistenti di un dirigente. Era un bel periodo. Mi piaceva stare ad ascoltare per ore, sorbendo pessima brodaglia alla macchinetta da Camera Cafè, gli aneddoti e le strategie di scrittori ed editor, quando non di editor-scrittori. In questo caso, la qualifica si riferiva essenzialmente a tre persone: il romanziere Ferruccio Parazzoli, il poeta Antonio Riccardi e il narratore Antonio Franchini. Erano tutti miei amici e lavorare con persone che ti stimano senza mai minimamente dubitare delle tue qualità è confortante. Mi sentivo accolto da un abbraccio. Era bello. E’ stato uno dei periodi più intensi della mia vita. Discutere le copertine, ragionare sui testi, immergersi in un brainstorming senza fine, sperimentare dall’interno il funzionamento della macchina: impagabile. Senza quei tre amici non avrei mai scritto una riga di prosa, avrei continuato con le mie poesiuole, precludendomi un’esperienza fondante (lasciamo perdere i risultati: sto occupandomi del vissuto interno).
Un giorno di quell’anno dimenticato, Antonio Franchini mi dice: “Sabato vieni a casa mia. Ti faccio fare un’esperienza eccezionale”.
Gli credetti, e feci un’esperienza eccezionale. Che, evidentemente, non si è ancora conclusa, se oggi, a distanza di quasi dieci anni, quell’esperienza eccezionale si prolunga in un oggetto narrativo eccezionale: Gladiatori, proprio di Antonio Franchini (Mondadori Strade Blu, 15 euro).
Prima di affrontare il libro, però, devo affrontare quell’esperienza. Del resto, non penso di andare fuori tema: trapassare dalla letteratura all’esperienza è in toto la poetica di Franchini.
Dunque un sabato canicolare (mi pare fosse maggio ’97 o ’98, un maggio da effetto serra) presi la mia moto Guzzi sgangheratissima e andai a casa di Antonio Franchini. Antonio Franchini non era ancora sposato e non aveva ancora figli. Viveva da solo, in un appartamentino minuscolo in un condominio dalle parti di Maciachini o giù di lì: comunque a nord di Milano. Zone oscure, per me: pericolose. Labirinti umidi. Le zone a nord equivalgono per me a paludi rischiose. Se uno supera Maciachini, penetrando verso la Bovisa e verso Affori e verso Comasina, si accorge che la temperatura, climatica e spirituale, subisce una brusca metamorfosi: tutto è umido, freddo, appiccicaticcio. Gli uomini sono cupamente assorti in una forma di renitenza assoluta. L’aria digrigna. Un’intera vasta comunità sadomaso, che pratica i suoi riti neri, alligna lì più o meno segretamente.
Quando giunsi nell’appartamento di Antonio Franchini restai talmente impressionato che, dopo qualche mese, lo descrissi inAssalto a un tempo devastato e vile, trasformando Franchini in un sottoproletario extracomunitario, il pugile Gadal. Franchini, al culmine del pomeriggio, di sabato, stava incantato davanti allo schermo della tv, a guardarsi un film di Bruce Lee. Le due stanze erano un disastro che, da single già allora inveterato, conoscevo bene. Il sentore di biancheria smessa, l’arruffamento ubiquo di tessuti e vesti indossate giorni prima, il letto sfatto, i residui di cibo sul tavolo, il lavabo della cucina strapieno: ecco il crisma del solitario metropolitano. Accanto a questi segni di banale comunanza, una variabile che aveva per me, a dire poco, dell’esotico: un sacco da pugile, foto libri e vhs di marziani lottatori, boxatori alieni, leggende sconosciute delle arti marziali.
Franchini, infatti, e da sempre, ha una passione che più hemingwaiana non si può: è un adepto delle palestre di combattimento, degli spogliatoi e di ogni tipo di ring, della violenza controllata e regolata (ma non per questo meno primaria) che si combatte in oasi dove la modernità non entra e dove si realizza la fusione tra l’atavismo della specie e la sua contemporaneità culturalizzata. Il mondo di Antonio Franchini è spaccato in due emisferi nettamente distinti, che sono tuttavia in continua osmosi: la letteratura e la lotta. L’osmosi permette a Franchini di rendere letteraria la lotta (sperando che la lotta persista a essere letterale: uno scacco a priori) e di fare della letteratura un ring (altro scacco a priori). Questi due emisferi raggiungono in Franchini l’apice di un culto. Culto complesso: da un lato, non conosco persona più cinica, disillusa, nichilista, scettica e voltairiana di Franchini; d’altro canto, in realtà, non conosco persona più entusiasta e vitalista del medesimo Franchini. E’ l’adepto di un culto post-nietzschano: egli si entusiasma alla possibilità che esista un dio, sapendo che dio o è morto o non c’è. Franchini, e lo scrittore e l’uomo (e, immagino, il combattente), è sempre in bilico tra agonismo e agonia.
Dunque quella presera Franchini mi prende, mi carica sulla sua (mi pare) Tipo blu, mi porta al PalaTrussardi, che allora era noto come PalaVobis: un angosciante luogo per concerti e grandi eventi che, a oggi, si chiama PalaMazda, in una sorta di strabismo onomastico tra la sponsorship e l’eco di religioni d’epoca zoroastriana (in Gladiatori, di cui non sembra che qui si parli ma di cui invece si sta parlando, Franchini intercetta questo strabismo). Al PalaTrussardi, non epico residuo di grandeur socialista meneghina, si tiene Oktagon. E’ una manifestazione incredibile: poteva essere uscita da un romanzo di DeLillo (ebbi quella sensazione perché erano i giorni in cui scoprivo DeLillo, inculcatomi a forza da un altro editor e amico di Mondadori, Edoardo Brugnatelli: quello che oggi è il responsabile di Strade Blu, la collana in cui esce l’oggetto narrativo Gladiatori). Si trattava di un mischione fetente e anabolizzato (così pensavo) del wrestling della mia pubertà: quello con Antoni Hinochi e l’Uomo Tigre, commentato su Italia 7 da Diego Fusaro. Le mie aspettative vennero presto non deluse, ma illuse con tanto di mantenimento della promessa. Le star convocate a scontrarsi, con tecniche diverse e tutte autenticamente violente, provenivano dagli otto angoli del pianeta. Tuttavia l’attrazione principale era un italiano: Di Clemente. Sulla Tipo, Franchini mi aveva raccontato di questo Di Clemente: colossale mastino napoletano, egli era violentissimo, faceva parte di un giro di incontri clandestini in Brasile dove si poteva morire, aveva cicatrici da coltello e proiettile ovunque. Era certo: avrebbe trionfato all’Oktagon. Un pubblico davvero immenso (vidi) era venuto entusiasta ad assistere a questo trionfo. Ma c’era un problema.
Il problema era che gli organizzatori non avevano capito niente. Gli organizzatori di Oktagon erano essenzialmente una persona: uno che aveva fatto il portaborse di Giorgio La Malfa e che aveva una palestra in via Melzo a Milano. Egli era osteggiato da molta della comunità italiana dedita alle arti marziali. Come in un’emulazione fallita di un film di Frank Capra, costui, che identificai immediatamente come “il Cattivo”, si era fidanzato con una ragazza bellissima che era pure campionessa di una qualche specialità, mi pare kickboxing. Era in effetti una strafiga, penso che si chiamasse Chantal. Bionda, apparentemente una di quelle crocerossine afflitte e pallidissime che sono il mio archetipo sessuale, però anche una potenziale modella (il che non rientra tra i miei archetipi sessuali). Non era affatto né una modella né una crocerossina: menava fendenti pazzeschi. Tuttavia non era una campionessa. Lo era solo grazie alle manovre del Cattivo, che le faceva vincere titoli su titoli. Questo Cattivo, organizzando l’Oktagon, forse essendo distratto da Chantal, aveva piazzato nel medesimo hotel di Milano il maciste Di Clemente e un olandese che era il suo nemico giurato, un bulldog umano che mi ricordava il biondo dei Kim & The Cadillac con molti muscoli. Ne era nata una rissa in albergo che aveva fatto strage degli arredi e della lounge hall di questo hotel. Di Clemente aveva rimediato, nella rissa, una tumefazione allucinante all’occhio (mi pare il sinistro). Non poteva combattere: il Cattivo, plenipotenziario dell’Oktagon, glielo impediva. Era uno scandalo.
Io e Franchini ci accomodammo sugli spalti. Franchini era mesto. Aveva intervistato Di Clemente due giorni prima, era allora entusiasta. Si sentiva suo amico. Di colpo, gli avevano tolto l’acme dello spettacolo. Io, Franchini e le migliaia di intervenuti al PalaVobis assistemmo a una farsa di incontro tra Chantal e un’altra: vinse Chantal…
Di colpo, irruppe qualcosa.
Era davvero qualcosa. Non era umano. Era Di Clemente.
Circondato dallo staff napoletano, questo massiccio montuoso di carne e miofibrille si dirigeva verso il ring. Gli era interdetto. Cercava il prolungamento della rissa. Voleva strozzare il Cattivo con le sue mani, perché costui, con mossa maliziosa e pavida, gli aveva interdetto il PalaVobis. Franchini scattò dagli spalti, trascinandomi nell’occhio del ciclone. Un nugolo di carabinieri, peraltro individualmente spaventatissimi, cercava di contenere il twister Di Clemente. Il Cattivo era scappato, letteralmente si era dato alla fuga. L’aria era ozono e tensione: una tensione fisica, una cosa che spaventava. Tra spintoni e diplomazie da Scampia, Di Clemente e lo staff vennero allontanati dal ring. Fu sulle scale fuori dallo spazio del PalaVobis che Franchini, per il mio stupore, parlò a Di Clemente e quello gli rispose. I carabinieri volevano allontanare Franchini, pensavano fosse un provocatore, e Di Clemente, per giustificarne la presenza e la legittimità, esclamò un’invocazione che suonava assurda sulle sue labbra di divoratore di astici e carne umana: “Lasciatelo stare, è uno scrittore!”.
In quel momento sperimentai la memorabilità.
Poi qualcuno disse che arrivava il clan dell’olandese, ci fu una baraonda…
Non è finita. Continua. L’esperienza e il racconto dell’esperienza, giunti all’acme, continuano.
L’altro giorno sono alla Bovisa, sto andando a fare dance therapy.Dance therapy è tutto tranne ciò che il nome evoca. Non è nulla di new age e nulla di ballerino. E’ una disciplina neopsichiatrica rigorosissima, che mira a scavalcare ogni protocollo terapeutico verbale, una delle molte porte strette attraverso cui passerà la psicologia dopo la seconda morte di Freud. Io sperimento questa cosa e lo faccio in un posto che sta ad Affori. Non ho più la Guzzi, devo andarci in motorino. Passo sempre vicino alla casa che fu di Antonio Franchini, ogni settimana, è lontanissimo ed esasperante per me, piove sempre quando devo andare lì. Ad altezza Maciachini, penso sempre in maniera esasperante a quella serata vissuta con Franchini. A dance therapy funziona così: nessuno ti dà istruzioni, devi muovere il corpo. Muovi il corpo senza musica. E’ allucinante. Il corpo automaticamente assume posture che, dopo un anno di pratica, ho ricostruito essere asana di hatha-yoga o posizioni base del tai-chi. E’, rinnovata e lontana dalle ossessioni di Franchini, l’esperienza a cui Franchini mi fece assistere.
Dunque, l’altro giorno esco dal lab dove faccio dance therapy, in piena Affori, prendo il motorino e a un certo punto vengo speronato da un’auto. E’ guidata da tarri. E’ colpa loro, danno la colpa a me, non posso nemmeno discutere, scendono due tarri enormi, alla Di Clemente, e senza che io abbia il tempo di pronunciare una sillaba mi prendono a schiaffi. Sono choccato, devo scappare, è l’unica cosa che si può fare. Scappo, quelli mi inseguono con l’auto per speronarmi ancora e buttarmi giù, li stacco, e dopo la paura, ecco il vecchio corredo, l’antico, il risaputo: la rabbia, la frustrazione, il senso di colpa per la vigliaccheria.
Io, a quel punto, ho compreso Antonio Franchini.
Se prendete Antonio Franchini e gli dite che ha scritto un bel libro, sotto i vostri occhi prenderà forma una manifestazione di inspiegabile diniego. Silenzio, la curvatura della spalla destra aumenta a scapito di quella della sinistra: il pugile che si mette in guardia. Gli fate un complimento e sembra che gli abbiate tirato un jab. C’è un’inermità a priori, un senso di colpa a priori, che fa l’uomo e lo scrittore. In quei momenti si ha l’impressione che lo scrittore si senta in colpa: verso la vita. Si sente colpevole di non essere dentro la vita. Insanabile ferita. La vita sarebbe altrove: sarebbe la Vita. La Vita si manifesterebbe nello scrittore solo grazie a due attività cognitive ed emotive: l’assistere, da fuori della Vita, alla Vita (e, quindi, scriverne); l’emergere di una delicatezza colpevole rispetto a questa attività non infamante, ma certamente infame. Non è cosa di Franchini soltanto: è di moltissimi. Una fitta al cuore che prende se arriva uno e ti dice: fai lo scrittore, lavorare in miniera è altro, lavorare in miniera è la Realtà. Mettiamoci poi nei panni di uno scrittore il cui giudizio è eventualmente una mannaia per gli altri scrittori, oppure un autobus per il paradiso: Franchini è responsabile della narrativa italiana della più grande casa editrice nella nazione. E’, dunque, sovraesposto a uno tsunami di narcisismi, pietismi, furberie patetiche, angoscianti tentativi di attracco – ciò che fa lo scrittore, non la letteratura. Da questa fluviale invasione di umanaio, si ricava un cinismo devastante.
Inermità, confronto con la Vita idealizzata e disillusione per sovraesposizione al lumpen letterario sono tra le correnti radianti che hanno fatto quello che finora è, a mio parere, il miglior libro di Franchini, cioè Cronaca della fine, laddove viene a incarnarsi una delle più potenti allegorie italiane della narrativa contemporanea – l’uomo nonuomo scrittore nonscrittore Dante Virgili. Stento ad affermare che quello fosse un romanzo perché sono convinto, da una decina e passa d’anni, che Franchini sia tra gli autori più avantpop di cui disponiamo. Ora Franchini non è più solo: con Pincio, i singoli dei Wu Ming, con Domanin, Mancassola, Colombati etc, quell’etichetta non ha più senso, e del resto era un nome di comodo per dire che gli scrittori passano, dal produrre romanzi algebrici, allo scrivere oggetti narrativi. E tuttavia, in tempi in cui l’oggetto narrativo che supera il romanzo algebrico stentava a farsi vedere, Franchini scriveva Quando vi ucciderete, maestro? – testo che considero fondamentale per una ricognizione poetica dell’ultimo quindicennio di narrativa italiana.
Il nuovo libro di Franchini, Gladiatori, quando lui me ne ha parlato, veniva definito così: “Ma è una cazzata, una cosa minore”. Per niente. Si tratta di un autogiudizio formulato in regime di colpa. Gladiatori è invece il recto di cui Cronaca della fine è il verso. Là il motore tematico e poetico era, in fondo, il rapporto tra la letteratura e la Vita. Qui il motore tematico è il rapporto tra la Vita e la letteratura. Là sembrava esplodere in continuazione una tempesta magnetica le cui particelle erano di carattere e identità letterari. Qua la tempesta è la Vita che costeggia la Verità e lo Spettacolo, inerendo con furibonda esplosione di forze a una letteratura scomparsa, una letteratura che nel ring in cui appaiono i Gladiatori non sembra entrare. Questione, come è ovvio, di apparenze. Uno apre Gladiatori e la prima cosa che si trova davanti è una lunghissima sconcertante citazione ciceroniana.
Con Gladiatori, Franchini completa il suo personale (non solo suo e ben più che personale) Tao. Metà bianco e metà nero, con la presenza dell’opposto sempre attiva in campo avverso. C’è da meditare profondamente quando Franchini affronta di petto questa consapevolezza, discettando su quella che si dice essere “la Nobile Arte”, cioè non la letteratura, ma il pugilato. Il suo vitalismo qui raggiunge le vette di un antivitalismo che avverte l’esistenza in entrambe le sue facies: l’oscura e la luminosa. Le tenebre orrorifiche, in cui Franchini procede in un diluvio di paillettes, sono a conti fatti il suo Stige. La riproposizione di un arcaico che si realizza effettivamente nel contemporaneo è identica a quanto accade in Metallo Urlante di Evangelisti. Queste profezie latine in epoca di cloni sono un modulo poetico che si sta trasformando, che sta trasformando la letteratura, dentro e fuori quelle categorie imbarazzanti che furono i “generi”. C’è del latino da Tacito del Germania, anzi, da inno a Mavors in epoca preimperiale, in queste incursioni profonde, che rasentano la fisicità non ultramondana di un orfismo ben noto alla tradizione letteraria. La presenza di foto (bellissime, opera di Piero Pompili) in Gladiatoricertifica una sensibilità secentesca (ma un Seicento non arcadico, non giocosamente barocco: un Seicento alla Taylor, elisabettiano). Un museo fisiognomico che si inscrive nel campo visivo del Benjamin delDramma barocco. Tra Piranesi e Lombroso: figurazione di un’ossessione che alimenta la scrittura di Franchini da sempre, e di cui lui mi pare solo parzialmente consapevole. Non più una scrittura, una visione: piuttosto, una potenza. Una potenza perturbante.
Questo libro è perturbante. I suoi Gladiatori sono anche gli scrittori morti che, come in un dramma di Kantor, lottano in un’immobilità esasperante, prossima alla calma perfetta degli atleti marziali che operano sul prana più che sul fisico denso. Ciò è, ancora una volta e per sempre, la letteratura.
“Altra idea centrale”: una poesia per tre poeti viventi
Pensando a certi tre poeti dell’Italia mia, che ho vissuto, stranamente trapassando di tempo in tempo (è incredibile), tre ominazioni così distanti, per le parole e la vita di ciascuno di loro, dal mio 1981 in seguito entrandomi nella vita fino a questo giorno, quando sono esausto e in una felicità che dice: “Non entrare ora più in alcuna immagine, storia, stai soltanto dentro il meridiano, dentro la grande nube tossica senza corpo alcuno”, scrivevo una poesia pensando a loro, strane carni, strane radiazioni, eccola, scusandomi:
E poi l’idea centrale era uccidere
le mirabelle, o Milo,
e i reggimenti della ruggine
nelle screziature della mente e amarle,
quelle screziature, simili a una figlia
ad agosto sulle mattonelle in cotto siculo
a due anni, nemmeno, a fare un’arancia
a farla rotolare come il pianeta
senza asse, non più… “Non più di un secondo
arrivato quando è accaduto tutto,
quando è giunto il primo giusto e è accaduto tutto già,
la strage, la palinodia dei testimoni
e chi si è finto presente e non sa
quanto triste è l’ematocrito sulle mattonelle
dove la hanno strascinata
e lasciata lì, sui gradini, verso la tavernetta”
e fuori la vegetazione è polvere padana
qualsiasi la concentrazione dei poeti
qualsiasi lapide hanno fatto estetica
si sono dimostrati inverecondi e strani.
Meditano una traccia
di sé sulle gricce del pianeta
ovvero i rictus del pianeta.
O vero e tondo e grinzito spazio
dove avanziamo in uno stato di perennità che è poca
senza i biasimevoli, con poco padre,
con una infinitudine della madre materna,
o dubbio scaltro o dubbio vero
di immagine in immagini in immagine
e sotto la lingua pone la città
sotto una lingua muschiva e padre
io chiedo a te di fuoriuscire da uovo e stare male
da quel reparto protetto ti chiedo di uscire
dacci ancora i tuoi versi sottili e strani Mario
noi li condurremo al mondo.
da Facebook http://on.fb.me/1TRPnd9
Antonio Riccardi: “Cosmo più servizi”, un saggio-labirinto
Il 10 di giugno dell’anno 2000, un sabato, alle 17, un’afa approssimativa induceva inerzia e disagio a Milano, città in cui, nella via Spartaco al civico 8, io incontrai un caro amico per assistere a una mostra allestita nell’allora prestigiosa sede della Fondazione Prada. Si trattava di un’esibizione dell’artista Marc Quinn, che consisteva anzitutto nell’introdurre gli spettatori in una Galleria delle Statue in ottavo. A differenza del celebre corridoio degli Uffizi, erano qui distribuiti in prossimità delle pareti otto corpi a grandezza reale, scolpiti in un marmo candido, tra cui mi pare di ricordare la celebre Selma Mustajbasic. Quinn non era ancora approdato alla forma dei Flesh paintings o tantomeno di Evolution. Le figure umane rappresentavano corpi monchi, raffiguravano disabilità, includevano pacatezza neoclassica in un’oscenità svuotata del dolore. Io e l’amico, che lievemente claudicava per via di un’infiammazione tendinea dovuta all’utilizzo persistente di certe calzature scamosciate, superammo lo schieramento di quei marmi forse grossolani, riflettendo sull’indistinguibilità nel contemporaneo tra grossolanità e raffinatezza, tra speculum e figura, tra superficie e superficie. Svoltando a sinistra fummo introdotti nella seconda sala della mostra. Qui, a dire il vero in uno spazio troppo ristretto per apprezzarne l’aura e la pressione psichica, stava l’installazione Garden: una vetrina parallelepipeda raggelata con un circuito raffreddante, alta più di tre metri e larga più che dodici e profonda cinque, che in sé custodiva in sonno criogenico una miriade di vegetali, sotto silicone. Osservai il pallore dilagare nel volto del mio amico, la sua cifra nervosa esprimersi con rari tremiti nelle posture, una delle mani che sistemava gli occhiali secondo certi standard comportamentali, a significare che questa installazione lo interessava. Pronunciò poche frettolose parole a commento dell’opera di Quinn, tra cui: “alchimia”. Intendeva, lo sapevo, in senso letterale, ammesso che un senso letterale l’abbia, questo ambiguo sostantivo. Avvertii in lui, insieme al suo interesse, crescere una forma di diniego a fronte dello scabroso, il ritrarsi davanti allo sciabordare di un’onda panica, capace di azzerare le gerarchie e le geografie a cui ci si è dedicati con ardore freddo e a cui si è lavorato con minuziosa devozione. La sua giacca scamosciata veniva afferrata dalla sinistra essangue ad altezza del bavero. Il mancamento di senso che colpisce il fare o il lavorare o il costruire – qual è la reazione più assennata e glaciale di fronte a questo scempio? Forse queste aggressioni alla pazienza, queste guerre nemmeno più tumultuose al mistero che pervade il fenomeno, queste impotenze esibite in faccia alla potenza che qualunque arte ha tentato di intercettare e veicolare – forse questi disfacimenti privi di regola, ammiccanti e che credono di essere seducenti, meritano una vendetta: in qualche senso gelida anch’essa, quindi nipponica, o perlomeno marziale. Si tratta di superare e, forse, di trascendere la forma disagevole e nichilista, incapace di arginare il disordine delle acque e gli sprechi dissennati che l’universo perpetra in oscure, distanti regioni…
Mi sono dilungato su questo aneddoto perché, a distanza di anni, qualcuno ha vendicato l’affronto supponente con cui Garden di Quinn si presentava all’assalto non dell’arte, ma del sistema artistico del suo tempo. A compiere in modo raffinato questo rito vindice è Antonio Riccardi, con la pubblicazione di un ibrido narrativo e filosofico e poetico, “Cosmo più servizi” (edito da Sellerio). Il titolo completo è in verità: “Cosmo più servizi. Divagazioni su artisti, diorami cimiteri e vecchie zie rimaste signorine”. Un tempo alcuni avrebbero definito “prezioso” questo libro. Già una simile osservazione esprime con precisione quanto fu orrendo quel tempo. Prezioso, questo libro, lo è; ma il senso è altro. Di cosa si tratta, dunque? Per conoscerne materia e profilo, è utile un’occhiata alla scheda editoriale: http://bit.ly/1pCRJfJ. E’ molto bella anche l’intervista dell’autore a Fahrenheit: http://bit.ly/1pCRBwS.
E’ un ibrido totale, come qualunque opera d’arte, la quale non è fatta di un’unica materia, non si regge su un’unico genere, non accade un’unica volta e non appartiene a nessuno o a niente. “Cosmo più servizi” è un ibrido anche dal punto di vista degli stili del tempo. Formalmente e per certi versi è un trattato settecentesco (direi: francese) e per certi versi una variazione seicentesca, una convocazione della civiltà occidentale ottocentesca e una progressione di stampo novecentesco. In sé, è un puro libro del ventunesimo secolo.
A parte la volutamente eccessiva premessa aneddotica, sono costretto a produrre su questo libro un ragionamento approssimativo, vista la natura dello spazio in cui tento di svolgerlo. E’ imbarazzante per me, perché dovrei distendere la descrizione di questo oggetto con falcate mentali ampie, intorno a un esercizio di attenzione che la splendida e insidiosa prosa di Riccardi esige e, volente o nolente il lettore, con lieve tirannide induce. Ci sarebbe da scrivere tanto su un libro che a prima vista parrebbe un intrico molto strutturato di testimonianze culminate in emblemi. C’è qui, forte, fortissima, una poetica che è una metafisica “qualificata”. Ci sarà tempo, in altri modi, per pronunciare che missa est e in questo testo ci ritroviamo, comunità di sparuti, piccoli ammiratori di un perpetuo mistero.
Va tenuto presente, anzitutto, che l’autore è un poeta e un poeta abbastanza centrale nella nostra scena, attuale e italiana. Perfino affrontando il labirinto, la sua consapevolezza sarà di ordine poetico. Si tratta infatti di un saggio labirintico nel senso più mitico del termine: non c’è qui via di uscita e c’è sempre via di uscita. Tale rapporto tra fuoriuscita e contenimento è anzitutto interno al testo (e, quindi, all’individuo che lo scrive e a quello che lo legge). Si danno qui un’intimità e un’esternazione, un dentro e un fuori, che stipulano la necessità di una corrispondenza perfetta tra interno ed esterno nella propria psicologia. Intendo che sarà necessario ripercorrere la propria formazione, confrontarsi e collimare con i movimenti millimetrici che l’autore imprime alla sua materia, ai suoi articolati saperi, ai pozzi artesiani di scienza che negli anni ha acquisito e reso più profondi con un lavoro paziente e monastico.
E’ un libro grave. Intrattiene una sorta di feeling (e nell’àmbito semantico di questo esotismo si gioca una sfida lirica molto importante) con il memorabile, inteso in quanto vita da sempre morta. La collazione è collezione: un artificio, certo, però un artificio umano, in cui la narrazione conduce a esiti assoluti. Ci si ferma un passo prima della pratica metafisica, in un’ascesi oggettuale e spirituale, condotta in forza di un sentimento al contempo raggelante e fecondo, sempre rinnovato, dei saperi e della finzione, come esigenza psichica di senso dell’apparizione umana sul pianeta Terra. Tutto è in “Cosmo più servizi” assolutamente psichico e non psicologico, anche se sempre viene sollevata una barriera di discrezione su ciò che è personale. Personale sì, ma non individuale, poiché qui individuo è identico ad assoluto: è l’assolutezza del topico, un ring in cui viene giocato l’incontro di lotta immobile, come in certe gare di arti marziali. Si coltiva tale sensazione di immobilità che rappresenta ogni dinamismo possibile. La vita o, meglio, le vite tutte fanno perno su un nucleo allegorico che paventa e certifica un’imminenza continua, senza requie ma con reliquie, e ogni reliquia testimonia della requie e ogni requie è tutto: movimento, stasi e inframmezzo esistenziale. La “poetica delle reliquie” inquieta e tale inquietudine è un brivido umano che rende conto, come può, di un mistero fittissimo e incoercibile, clamoroso in un murmure silenzio, meccanico come meccanica è la circolazione del sangue attraverso la sede cardiaca che lo tempera nel calore e nel gradiente glaciale, azzittendo le proteste del flegma e inducendo una flemma impassibile ma attenta, sempre attenta, continuamente attenta: è la “veglia interna”.
Fa impressione notare come, in un arco di tempo che oggi pochi considerano tale, la narrazione autentica sia stata demandata alla responsabilità dei poeti. Molto concretamente: non c’è una narrazione più aperta e perturbante di quella che, con i loro testi, hanno consegnato alla lingua e letteratura italiane alcuni poeti, tra cui lo stesso Antonio Riccardi, che in “Cosmo più servizi”, in un modo estremamente diverso e e con differente potenza rispetto alla poesia di cui è autore, mette in scena la scena muta, dove sinistramente brillano in una luce spettrale tutti i racconti, resi cristallo e pietra dallo sguardo di Medusa della storia storica e metastorica, cioè dal fenomeno umano. E’ quindi come un’estensione cognitiva e sentimentale della poetica che Riccardi ha espresso da subito e una volta per tutte con il suo capolavoro “Il profitto domestico”, a cui qui aggiunge, poiché la prosa è di necessità meno intensa della poesia, una vibrazione di incertezza per l’appunto “personale”, sorta di tasca dell’esistenza dove si fanno i conti con la propria egoità e dove si toccano i piccoli misteri dell’io. Diorami, maschere funebri, dipinti, architetture, immaginari coagulati e infine solidificati per sempre in teche, ossa, oggettini che trattengono grammi di tabacco e microingranaggi, bambole secentesche, tassidermie, rosòlii, oritteropi e tutta Brasilia: la lista è infinita e non lo è, in quanto è più indefinita che infinita, l’acribia del catalogatore è l’unica strenua avventura che fa corrispondere la scoperta antartica alla conservazione della minima memoria da parte di un’avuncola. Il gesto è dunque assoluto, così come lo sguardo. E’ un’interezza ontologica coincidente con la sua espressione totale estetica – si gioca qui nella rima che frattura il tutto con il nulla. Non c’entra il crepuscolare, poiché qui si misurano i gradi e le convoluzioni delle tempeste solari, identiche a quelle geologiche che, nei millenni, fruttano un geomorfismo in cui la chimica minerale è uguale a quella organica. Tutto ciò esprime un sentimento energetico del mondo, uno spazio alchemico dove cade tutto, come in una Stonehange ubiqua ab aeterno: cade la parola (e quindi la frase e quindi il verso e quindi la struttura e quindi il libro e quindi la forma e quindi la lettura ovvero la percezione…) e cade l’azione. Parola e azione cadono, ma concorrono alla descrizione del consolidamento o della fluidificazione di un’energia, dalla concrezione fino alla sparizione subatomica. Questo è il culto della penultimità: enuncia implicitamente che l’ultimità è ben altra cosa. Si tratta di un momento assoluto della composizione artistica: la necessarissima testimonianza, che conosce l’indifferenza con cui viene assunta dalla storia, e però continua a testimoniare. Mi pare l’unica prospettiva (non l’unica poetica, sia chiaro, anche se la sento tanto tanto vicina al mio “personale”) con cui uno scrittore possa guardare al mondo e tentare di stare prossimo alla presenza di senso.
Questo saggio andrebbe letto e riletto da chiunque nutra, non si sa perché, la sconsiderata ambizione e di scrivere davvero. E’ “Il bosco sacro” eliotiano di Riccardi.
Oggi, più che mai, superata una certa mente umanistica, il tempo esprime nitidamente l’elemento umanistico, e “Cosmo più servizi” non è che una delle molte manifestazioni del tempo nel tempo, una conchiglia in cui risuona la totalità dei mari, dagli oceani ai laghetti aziendali (che sono mari), dall’Egeo al Bacino di Canberra, verso il poema assoluto, che non è testo cosa forma lingua cosmo o servizio.
Antonio Riccardi: “Il profitto domestico”
Non che in questi anni io abbia cessato di leggerlo, però forse è il caso, oggi, di riproporlo, con la forza comunicativa che posso avere, in questi anni di nebulizzazione di qualunque forza comunicativa: Il profitto domestico di Antonio Riccardi è (insieme a Umana gloria di Mario Benedetti) il libro di poesia contemporanea italiana più potente degli ultimi due decenni.
Ne scrissi su Società delle Menti (la sezione letteraria del portale Clarence) nel 2000. Lo leggevo in realtà già da anni, perché alcuni testi erano usciti, con altro titolo, in silloge su Poesia di Crocetti. Ripropongo qui quanto annotai, frettolosamente, molto imprecisamente, quattordici anni fa, raccogliendo il parere analitico espresso nel 1996 dall’importante critico Guido Mazzoni. Ci sono anche poesie dal Profitto domestico, alla fine di questo stream. Che inizia sotto il video, il quale si consiglia di vedere a partire dal minuto 4’05”, cioè da quando inizia a parlare il poeta.
Su Il profitto domestico di Antonio Riccardi
Entrate in un cerchio in cui si esercita un magnetismo mentale schiacciante, assoluto. Ovunque, figurazioni allegoriche emergono come relitti fuori dal tempo, a riassumere la tradizione mitica e letteraria dell’uomo, da Omero a Ovidio a Dante a Shakespeare a Hugo. Persone sospese tra spettrale larvalità e angelologia rivelatrice pronunciano parole che s’iscrivono in una specie di orfismo tutto laico, ben più che postmoderno. Così si dipana un poema che comprime l’epica collettiva e quella privata. Il profitto domestico è il progetto poematico a cui ossessivamente Antonio Riccardi lavora da più di vent’anni ed è anche il titolo della prima parte della saga poetica più sorprendente della nostra letteratura contemporanea: una vicenda familiare che è universale, priva d’ossigeno come lo sono le idee, metricamente innovativa, narrazione non lineare eppure riconducibile a uno sviluppo di più trame. E’ un poema mistico, è un poema ermetico, è un poema industriale: Riccardi è riuscito ad allargare il canto lirico, facendo salire gli elementi del nostro presente a un grado allegorico di potenza impressionante.
Probabilmente nel 2004 vedrà la luce la seconda parte di questo poema in corso d’opera. Non bisogna attendersi da Riccardi le variazioni innovative che i contemporanei si aspettano sul piano dello stile: non è questa la prospettiva con cui si deve guardare al progetto del Profitto domestico, che è più un’opera di grandissimo barocco, di tradizione bruniana, e non una sorta di testimonianza in cui stile e psicologia entrano in osmosi. La psicologia moderna (con il suo insopportabile “mito dell’interiorità”) è completamente assente dalla poesia di Riccardi. Lo sguardo del poeta è quello antico del profeta ultrapsichico, che presta voce a una rarefatta vocalità proveniente dal mondo, senza sovrapporre la propria personalità, se non in senso allegorico. Ecco come.
Le vicende personali di Antonio Riccardi (la sua formazione, gli amori, gli affetti familiari, i paesaggi che ha visto e in cui ha vissuto e vive) non connettono direttamente il poeta milanese ai suoi versi. L’operazione compiuta da Riccardi ha un crisma completamente diverso e soltanto cogliendo la plumbea luminosità di questo crisma è possibile cogliere lo specifico de Il profitto domestico. L’operazione è un allargamento. Riccardi racconta in poesia una vicenda familiare: quella dei suoi avi e della loro rovina, la gloria apicale e la caduta del complesso di Cattabiano, frazione minuscola nel parmigiano, tre case arrampicate in una zona collinare e selvatica. Tuttavia, pur restando quelle figure storiche, Riccardi le allarga: oltre se stesse, oltre la sua memoria e i suoi affetti, oltre le ossessioni personali. Figure ombrose nella luce di una scena assoluta, questi antenati monologano biblicamente, ermeticamente, pronunciando la parola di un’umanità via via tesa verso il centro del potere e del controllo sulla conoscenza di sé, oppure sull’oblio di sé.
Le figurazioni dei vizi capitali e delle virtù cardinali trovano in questo poema una sorta di recupero fuori della decadenza a cui il simbolico è andato incontro. E’ questo un punto qualificante non secondario dell’opera poetica di Riccardi. Il simbolico, sottoposto a un logorio duplice dovuto alla laicizzazione della letteratura e allo sfruttamento intensivo che la stessa ne ha fatto, ha perduto potenza metafisica, cioè evocativa. La strategia del recupero attuata da Riccardi passa così per l’allegorico: è questa storia sacra, istoriata per pannelli di metope raggelate in un fuori tempo, che Antonio Riccardi anima con un racconto in versi che torna ossessivamente sui propri moduli linguistici e immaginali – esattamente come nel caso delle Opere magiche di uno degli autori più studiati da Riccardi, Giordano Bruno. Un’allegoria vastissima, non risolvibile nella formulazione razionale in cui l’epoca moderna ha risolto l’allegoria stessa: qui non c’è una formula che tutto spieghi, e invece si spalancano buchi neri in cui il racconto sembra enigmaticamente sprofondare. E’ proprio la cifra dell’enigma, per via allegorica, che Riccardi utilizza per fare giungere (secondo una strategia che Walter Benjamin ha messo perfettamente in evidenza nel suo Dramma barocco tedesco) a uno sprofondamento. Si sente: si sprofonda in questa storia inquietante, bassorilievo a salti che continua. Questo sprofondamento è precisamente la potenza del simbolico, che Riccardi occulta con genio secentesco.
Preti, feudatari, epilettici, parenti cupamente silenziosi entrano a fare parte di un bestiario umano che ha il suo simmetrico corrispettivo in una sorta di umanario bestiale. durer.jpgLe bestie à la Dürer del Profitto domestico, su tutte il Cane e il Cinghiale, sono impiegate nel folto della selva a Cattabiano in una lotta cosmica, il cui potere allegorico esprime strati di senso secondo un geomorfismo decifrabile: la lotta delle passioni contro la ragione, del principio creatore contro quello distruttore, della conservazione contro il deturpamento, degli opposti invischiati nel tempo, dell’uomo contro la macchina, dell’operaio contro il padronato, della natura brada contro la città – sono soltanto alcuni dei quadri, dinamici e statici al tempo stesso, che scintillano dalla fucina vulcanica in cui il poeta ha elaborato la materia dei suoi versi.
Materia, peraltro, porosa, opaca, minerale. Credo che si possa ben prevedere quale percorso intraprenderà coi suoi libri successivi Riccardi. Qui siamo nel regno minerale: scena della coscienza dormiente e non conscia di sé, primo stadio dell’opera alchemica. Verranno poi i fluidi, i vegetali, gli animali, l’umano, l’angelico, l’inqualificato. Non che questi elementi manchino nel Profitto domestico: anzi, ci sono già tutti, ma varierà l’accento, secondo una progressione verso il risveglio che il laico Riccardi sa interpretare senza deflessioni spiritualistiche. Cambierà l’accento: da porsi via via, dopo questa iniziale nigredo (che, però, ancora non è terminata), sull’albedo e sulla rubedo che guidano ogni “Poema Divino”.
Poiché è la struttura e la declinazione del Divino (cioè: dell’Umano) che Riccardi ispeziona e imita (vale a dire: inventa) in questa prima parte della sua opera, che già esprime il senso di una potenza che avremo presente (ma soltanto i più acuti tra noi) quando l’arco dell’Opera sarà compiuto, leggibile nella sua interezza e illeggibile se non con gli occhi di una mente non soltanto educata, ma addirittura predisposta a sopravvivere alle alte gravità di una simile galassia letteraria.
Intervista ad Antonio Riccardi sul Profitto domestico

Avvicinatevi al Profitto domestico come se fosse il libro del nostro tempo: ogni tempo passato e ogni tempo futuro corrono nei suoi versi per fare emergere il disegno del nostro mondo.
Maurizio Cucchi osserva che siamo di fronte al “primo libro importante della nuova generazione […], non una promessa, ma già un’acquisizione certa per la nostra poesia”. Eppure qualcosa deborda oltre questo giudizio: da molti anni non ci si trovava davanti a un libro che contenesse tanto sapere, un sapere complesso come il mondo.
C’è un solo modo di stare di fronte al Profitto domestico: prepararsi ad ascoltare una profezia che investe ogni tempo. Tenersi pronti a sfogliare l’atlante di un mondo antichissimo e dimenticato, la mappa in pergamena di un continente perduto, la sfera armillare di un universo che ci contiene da sempre. Il profitto domestico è la guida per l’Atlantide del sapere.
“E’ un lavoro di scavo che bisogna compiere. Uno scavo di tradizione dentro la tradizione. E’ necessario recuperare la poesia nella sua dimensione comunicativa e sapienziale. Non lo scordiamo: nella poesia si elabora un sapere che nessuna scienza o dottrina è in grado di riprodurre”.
Di quale sapere si tratta? E’ una forma nuova, eppure sempre uguale, di allegoria: bestiari fantastici, esplorazioni che giungono a toccare il polo magnetico del mito, forme ambigue di vita che ne rappresentano altre. Ma soprattutto è la storia degli avi. Un paese infinitesimale, una storia oscura di colpe, malattie sacre, guerre lontane, sparizioni imminenti. E’ una narrazione, una storia, che parla di molte altre storie, dell’uomo, dell’amore, della morte, del dolore, della colpa.
“Cattabiano è il luogo dell’esperienza e della misura dell’esperienza. Ogni gesto e ogni parola portano a maturazione un raccolto, che traccia le loro coordinate nel mondo: tra il male e il bene, tra un uomo e un altro. Tutto ciò origina una catena di debiti, di consunzioni e calcoli che misteriosamente riemergono, pretendono la loro paga”.
Come nella sezione su Bòttego, l’esploratore che fòra il cuore del mondo da un’Africa di sogno e da un Antartide d’incubo, a cui fa da contrappeso, come in un bilanciere fantastico che regge il mondo, il possidente Odet Riccardi, l’uomo che è sempre rimasto a Cattabiano.
Ombre, oscuri tentativi di inabissarsi al fondo, per riemergere carichi di quello che si deve sapere: tutto converge nel centro del mondo,
“… Cattabiano, il luogo dello scavo. E’ un’ossessione che porta a concentrarsi su un luogo preciso, in un tempo dilatato. Soltanto così ci si può sentire capaci di affrontare un mondo che ci investe con uno sperpero di molte possibilità, in modo sfacciato, dissipativo. Il mondo non è mai debole. Ci si ammala per troppa ricchezza sprecata. E’ un giacimento corrosivo di opportunità, a cui si fa fronte con un movimento di concentrazione, di continua attenzione, di esclusività”.
E’ come una mistica, un esercizio meditativo che insegna a ognuno il proprio luogo del mondo. La veglia interna, quella vista spirituale che affonda nella tradizione occidentale, guida a distinguere una per una le figure gigantesche evocate da Riccardi.
“C’è un pericolo a cui la poesia deve opporre un’esperienza salvifica: rispetto alla complessità del reale, alla dispersione, al rischio di rimanere frastornati, annullati, attoniti. L’esperienza profetica del mondo compiuta nella poesia, la sua disponibilità a fare da antenna spirituale, a discernere tra le nebbie, ad aprire all’uomo le porte di una nuova comunità: ecco l’antidoto alla catastrofe in cui siamo immersi”.
C’è una frase di Kafka a Max Brod che gela il sangue all’umanità e scolpisce in quel ghiaccio l’uomo di ieri: Max Brod chiede a Kafka: “Insomma: non c’è speranza nell’universo?”. Kafka sorride e risponde: “Oh sì, infinita. Ma non per noi”.
E se si chiede a Riccardi se c’è speranza, cosa risponde?
“Sì, c’è speranza. Infinita”.
Guido Mazzoni su Il profitto domestico di Antonio Riccardi
di GUIDO MAZZONI (ottobre 1996)

Il profitto domestico di Antonio Riccardi (Milano, Mondadori, 1996) si distingue dalla maggior parte delle raccolte poetiche contemporanee perché non si compone di momenti lirici isolati, ma è costruito come un’opera unitaria, nella quale i testi sono subordinati ad un progetto formale organico, ad una narrazione che si sviluppa attraverso il montaggio delle singole poesie e sezioni. Il tema del libro è il rapporto fra la vita dell’io lirico e un intero che la trascende: la storia familiare. La catena delle generazioni è rappresentata secondo due campi metaforici: quello biologico e quello economico. La famiglia è sia corpo vivente (come nella sezione Le foglie della casa), sia eredità materiale, connotata da metafore monetarie (profitto, utile, misura).
Essa sembra acquistare un significato etico vincolante per l’io proprio perché è tangibile e concreta, organica e quantificabile. In molti testi i due campi si fondono:
Chiamo queste vite in una storia.
In un cono d’erba dai rami
vengono per restare sempre d’oro
come le mosche nell’ambra.
Sento il tempo comune alla specie
come profitto domestico. (p. 12);
Posso stare nel profitto
dei morti, nella loro casa
a Cattabiano e salire nell’ala
delle piante fiducioso
ad un cuore vegetale. (p. 83).
Le sezioni del Profitto domestico rievocano, alternando il racconto in terza persona ad un monologo drammatico frammentario, la vita dei familiari dell’autore: quelli che sono rimasti radicati al proprio destino, alla casa e alla proprietà, ai loro doveri precisi e limitati (magari soffrendo, rassegnandosi e ricevendo in cambio ciò che l’autore chiama la veglia interna, la capacità di vedere se stessi dall’esterno, di uscire contemplativamente dal proprio confine esistenziale), e quelli che, per scelta o per necessità, si sono allontanati dal ruolo sociale o dal luogo geografico in cui erano nati: l’epilettico Dositeo, l’esploratore Vittorio Bòttego (nella foto), compagno di Odet Riccardi al collegio, Antonio Riccardi, omonimo dell’autore e soldato durante la prima guerra mondiale . Tutti i personaggi del libro, compreso l’io lirico, sono chiamati a decidere fra l’accettazione del proprio destino, la veglia interna e l’ingresso (o la fuga) nel mondo esterno. Quest’ultimo appare come avventuroso, pericoloso e, alla fine, inautentico e inessenziale, segnato dal tempo e dalla dispersione, dallo spreco. L’azione che l’io lirico riserva a se stesso è quella opposta: l’andare indietro nell’ombra, il ritirarsi nello spazio privato. E’ Cattabiano, il paese dell’Appennino parmigiano da cui viene la famiglia dell’autore, che prevale sul luogo dove Riccardi vive adesso, Sesto San Giovanni, e non viceversa, come si può facilmente dedurre dallo stile del Profitto domestico e dalla sezione Vulcano e la preda(dove Vulcano, come Concordia, è il nome di un altiforno della Falck, a Sesto San Giovanni), il cui testo iniziale è quasi programmatico:
Coperta di cenere la città
di Vulcano e di Concordia,
la mia caccia è stata in casa
nel bosco tra le reliquie
secondo l’ombra che si figura
a Cattabiano. (p. 93)
L’ethos del libro prevede il radicamento, la custodia delle memorie, piuttosto che l’inquietudine, la fuga o l’ansia di nuove esperienze.
La poesia di Riccardi discende dalla tradizione post-simbolista lombarda. I suoi precursori principali sembrano essere Sereni e Cucchi: il modo in cui Sereni urbanizza l’ermetismo in Frontiera e nel Diario d’Algeria, e il modo in cui Cucchi urbanizza il neoermetismo degli anni Settanta e Ottanta in Donna del gioco e nei libri successivi. Gli stilemi di origine simbolista non servono per creare un linguaggio autoreferenziale, un sopramondo poetico, ma per rappresentare in forma straniata una realtà che rimane sensibile e narrabile.
Di ermetico e simbolista, nella poesia di Riccardi, troviamo alcune tipiche forme metaforiche fondate sull’inversione di determinante e determinato:
il fondo stellare dell’aria (p. 18)
nel giusto di miseria per chi rimane (p. 35);
al nuovo di ogni trascorso (p. 105);
il valore metaforico e ‘animistico’ che viene dato ai verbi:
prima che il pericolo s’incavi nel bosco (p. 21);
Sulla campagna batteva il transito dei metalli
e la prima sfera del sole chiedeva il sale
del sacrificio, secondo la misura del patto (p. 35);
Nel finire il bosco ci dora (p. 88);
l’uso anomalo delle preposizioni:
S’incendia nel dorso serale del bosco
questo inverno che fiorisce in giudizio (p. 18);
Ogni giorno in pena di foglia (p. 86);
Dio conosce ogni cifra in radice (p. 106);
Abbiamo salito le reti negli assalti
ai pozzi in luce aperta… (p. 133);
la tendenza a sostantivare gli aggettivi rendendoli metaforici o vagamente emblematici:
di radici che salgono al chiaro (p. 19);
ha portato una noce d’oro
che rade il freddo della stagione (p. 67);
il tentativo di rendere assoluti e astratti i nomi eliminando gli articoli:
Scaviamo il merito delle cose
per averne statuto e tranquillità (p. 20);
E’ nato per segno stellare (p. 37).
La sintassi è scarna, fondata su brevi proposizioni principali, di contenuto descrittivo o gnomico, e su poche subordinate elementari. Nella struttura della frase troviamo altri tratti di origine ermetica, come l’uso del futuro con valore di profezia o di supposizione sicura:
Avremo giudizio di soglia in soglia
saremo animati (p. 18);
Avrà ricordato l’ultima corsa
sulla neve d’aprile al Madone
sorpreso da una breve felicità (p. 98).
Il mondo rappresentato nel Profitto domestico è essenziale e definitivo. Lo si vede ad esempio nelle sezioni dedicate alla vita degli antenati, dei quali si rievoca in forma sintetica e lapidaria, ‘dantesca’, i momenti che ne hanno deciso il destino. Lo stile di origine simbolista intende conferire un’aura di assolutezza al paesaggio e alla vita quotidiana, evitando però ogni forma di enfasi patetica e, in senso lato, post-romantica. Lo straniamento metaforico ed emblematico non vuole nobilitare o sovraccaricare di passione la realtà, quanto coglierne il nucleo, eliminando le connotazioni superflue.
Il libro di Riccardi, una delle opere prime più interessanti uscite negli ultimi anni, colpisce il lettore per la qualità peculiare della melanconia che comunica, e insieme per la pietas, la responsabilità e la dignità con cui l’io lirico contempla la fragilità del proprio mondo. Il segreto di una famiglia in cui egli si inoltra per cercare una salvezza (come si legge inVado all’indietro all’ombra, p. 13) prolunga in realtà la solitudine individuale. Contribuire al profitto domestico significa anche rassegnarsi, eticamente, ad essere ciò che si è:
Ognuno è il modo che il mondo gli concede
Ogni cosa mi rimane come decisa
ad annos plurimos da altri […] (p. 32).
In questo incipit spinoziano è racchiusa una parte della verità del libro. Il profitto domestico può essere letto anche guardando il suo negativo: non come il documento di una salvezza privata, ma come testimonianza di solitudine, di sfiducia in una vita sociale che non sia il prolungamento dell’io. Il lato meno rassicurante di quest’opera è forse anche il più significativo.
Poesie da Il profitto domestico
Chiamo queste vite in una storia.
In un cono d’erba dai rami
vengono per restare sempre d’oro
come le mosche nell’ambra.
Sento il tempo comune alla specie
come profitto domestico.
LA RELIQUIA
per Dositeo Riccardi (1859-1878), epilettico
La fortuna si misura in soldi,
altre volte con le reliquie.
Della rovina dei miei io non ho colpa
ma ne conservo la misura e la scena.
A primavera si era visto
un segno stellare sulla casamatta,
poi una nascita sfortunata.
L’anno, il 1859.
Il figlio del primo figlio
riceverà il centuplo con la paura
e avrà in premio la veglia interna.
Ha tenuto una chiave sotto la lingua
per guarigione.
Il giorno di cobalto andava sotto
nel punto più basso dell’orbita.
Hanno sentito entrare qualcuno
dalla parte della loggia per le scale,
coperto d’erba medica e di cardi
ha lasciato un segno sulle scale,
nelle stanze di mezzo.
Nessuno ha mai saputo di certo
né la madre s’è mai rassegnata.
Vedrete che Dio vi darà
il mio sangue da bere.
In questa casa cresce ogni cosa
anche il veleno, anche l’oro.
Rimarranno tre
Odet Sesto l’Artemisia
a tenere il segreto del segno e della colpa
e nessuno saprà di un altro quarto,
mai più nessuno di noi.
Ogni sua cosa perduta col nome.
Tengo del ferro sotto la lingua
per guarire ma guarisco se mi amate.
Abitiamo la stessa casa
né corpo né cose né ricordi
senza sapere.
Il giorno va sotto. Sale l’inferno
di questa casa, se esiste o se è vuoto
non si può dire.
Non accusatemi, non accusate
chi è stato devoto a questa casa,
ma la fede è un bastone
a due teste di pecora
e io ucciderò mio papà
come un ladro.
Di questa misura sarò misurato
e qui sarò sepolto, in questa casa
come dentro una macchina,
con le scarpe di ferro.
Conosco il fondo di questa famiglia,
vedo le azioni che il mondo vede
e tengo la vita in pari al beneficio
come fossi solo al mondo.
VULCANO E LA PREDA
Coperta di cenere la città
di Vulcano e di Concordia,
la mia caccia è stata in casa
nel bosco tra le reliquie
secondo l’ombra che si figura
a Cattabiano.
Qui la nostra vita non si fora
e siamo felici. Ma una mattina
stando nell’erba d’oro opaco
abbiamo sentito un fruscìo
cupo o un lamento o cosa.
A lungo dal più fondo del bosco
sentendo come da un luogo chiuso
qualcosa in un fondo, perduto
se non segnate le rive e i sentieri,
premendo, ma non capiamo dove
sentiamo il bosco bruciare…
Sentiamo l’aria bruciare da sotto
e ancora mi pena adesso
aver sentito nel bosco e risentire
due voci miste in una sola
e cupa, bruciata e di metallo.
Altre volte ho pensato
alla vita di ferro che non si vede
ma segna improvvisa un dovere
per ognuno che vive e poi muore.
Qui non è stato il dovere degli animali
ma sgrava le due voci la natura.
In poco, in un punto d’aria e di luce
che adesso non sembra vero,
all’incrocio dell’ombra con il sole
della radura, vediamo brillare
le schiene di un cane e di un cinghiale
in poco, prima che scendano ancora.
Di sera il cinghiale è cenere e Vulcano.
Vulcano è notturno e scava
a morsi la terra sotto il fogliame
senza fine apparente, senza felicità.
Vulcano preda il cane nel ferro
nell’aria nera di costa al bosco
da un’ombra a un’ombra in un buco.
Ancora andava basso il sangue con la voce
scendendo la costa al Canapaio
e noi solo seguendo il suono nel piccolo dominio.
Quando a morsi la prima bestia
fora il cuore alla seconda che muore
il bosco è il nuovo centro del mondo
e noi vediamo le stelle più basse cadere a lato
e le più alte staccarsi e salire.
Avrà ricordato l’ultima corsa
sulla neve d’aprile al Madone
sorpreso da una breve felicità.
Non c’è più segno di lotta o rumore
né il bosco si muove ancora.
Ogni cosa ritorna a zero.
Dov’è il dorso più duro del bosco
Vulcano scava sotto le foglie
libera i fossili del mare, è vincitore.
Ora sentiamo finire l’estate.
Da un giorno in novembre che il sole
rade sul lato dell’ombra
portando in lungo le cose sopra la terra,
qualcuno dice dei resti di un cane
trovati nel bosco di Cattabiano
mangiato con furia ma non per fame.
Dal piombo sale al mattino questa città
in credito d’aria, sfiduciata
nella polvere del ferro.
Dovrò tornare dal bosco e scavare
nel bosco in rovina tra Unione e Vittoria
e vedere dall’alto salire la nuova città
e avere per centro un’altra natura.
La Cina era vicina
di MARCO ENRICO GIACOMELLI | da Exibart
Fa un certo effetto dire che questo romanzo risale a quasi dieci anni fa, ossia al 2003, l’epoca d’oro di quel che Federico Rampini ancora chiama “Cindia”, forse. L’arrembaggio è stato certo più soft di quanto alcuni paventavano, fra cui lo stesso Genna: “Tra dieci anni, il cuore del pianeta è Pechino. Pechino cresce al ritmo dei giorni. Sarà la nuova Parigi, sarà la nuova New York” (p. 146).
Ma, al di là di ciò, il romanzo di Giuseppe Genna, Non toccare la pelle del drago, resta un ottimo prodotto editoriale. E spiace che sia finito sostanzialmente fuori catalogo, perché di autori come Genna mica ne abbiamo tanti, nel suo “genere” e non solo.
Gente che scrive frasi del genere: “Fuori, è notte. Su Montecarlo sta scendendo una neve fina e leggera, e da nessuno visti vibrano al vento nelle tele i ragni” (p. 16).
E che, parlando d’arte contemporanea, mostra di essere bene informato. Tanto che il dottor Agrati, la cui moglie dà inizio alla catena di eventi, a pagina 72 risulta irreperibile perché si trova a Torino anziché nella natia Brianza, poiché è all'”inaugurazione di una pinacoteca della famiglia Agnelli” (il vernissage prosegue a pagina 87 e seguenti). E alle pagine 169-170 c’è una infilata di battute sul traffico clandestino di opere d’arte e di aneddoti più o meno scherzosi, come quello su Pomodoro, “uno che ha fatto gli accordi commerciali con una galleria importante, la galleria ha imposto a certe amministraizoni di metropoli di acquisire queste robe che ruotano su di sé quando si sposta il vento, ma il mercato gli è crollato quando una di queste ruote, in un giardino di Milano, ha stritolato tre bambini”. Genna continua ad andarci giù pesante, qualificando il Mamac di Nizza come “orripilante e provincialissimo” (p. 187).
Informato assai più della media dei suoi colleghi? Certo, al punto che Genna si occupa d’arte in maniera quasi professionale. Ultimo esempio, una bella intervista ad Anselm Kiefer pubblicata prima in Germania e poi sul suo blog.