Esce per il Saggiatore “Gladiatori” di Antonio Franchini

1918040_10207669032791343_6529785181622914643_nE anche Antonio Franchini, col suo Gladiatori, sbarca tra i tipi de Il Saggiatore. E’ uno dei migliori scrittori italiani contemporanei. E’ in libreria dal 14 gennaio 2016. Questa nella foto è la prima copia arrivata or ora in casa editrice.
Ho ritrovato proprio oggi per puro caso, all’interno in un archivio on line che fotografa il Web e i suoi contenuti e fa oggi da macchina del tempo, una assai impressionistica “recensione in forma di narrazione” a proposito di Gladiatori, che postai il 27 settembre 2005 su I Miserabili, un sito che gestivo ai tempi. La ripubblico qui, sotto il nostalgico screenshot.

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da I Miserabili, 27 settembre 200

In un anno che non ricordo più, un anno perduto nella melma dello scorso decennio, io vissi una delle serate più assurde e quindi interessanti della mia intera esistenza. Garantisco che, di serate assurde, ne ho vissute parecchie: ma questa che vi racconto…
Lavoravo presso Mondadori, facevo il web di Segrate. Internet (credo fosse il ’97) era in Italia un protocollo non precisamente di massa, a quei tempi; figuriamoci quant’era popolare all’interno di un’organizzazione industriale che percepiva la Rete come minaccia futura incombente sulle vendite del suo prodotto. Venivo pagato con un giustificativo patafisico: ero i viaggi inesistenti di un dirigente. Era un bel periodo. Mi piaceva stare ad ascoltare per ore, sorbendo pessima brodaglia alla macchinetta da Camera Cafè, gli aneddoti e le strategie di scrittori ed editor, quando non di editor-scrittori. In questo caso, la qualifica si riferiva essenzialmente a tre persone: il romanziere Ferruccio Parazzoli, il poeta Antonio Riccardi e il narratore Antonio Franchini. Erano tutti miei amici e lavorare con persone che ti stimano senza mai minimamente dubitare delle tue qualità è confortante. Mi sentivo accolto da un abbraccio. Era bello. E’ stato uno dei periodi più intensi della mia vita. Discutere le copertine, ragionare sui testi, immergersi in un brainstorming senza fine, sperimentare dall’interno il funzionamento della macchina: impagabile. Senza quei tre amici non avrei mai scritto una riga di prosa, avrei continuato con le mie poesiuole, precludendomi un’esperienza fondante (lasciamo perdere i risultati: sto occupandomi del vissuto interno).
Un giorno di quell’anno dimenticato, Antonio Franchini mi dice: “Sabato vieni a casa mia. Ti faccio fare un’esperienza eccezionale”.
Gli credetti, e feci un’esperienza eccezionale. Che, evidentemente, non si è ancora conclusa, se oggi, a distanza di quasi dieci anni, quell’esperienza eccezionale si prolunga in un oggetto narrativo eccezionale: Gladiatori, proprio di Antonio Franchini (Mondadori Strade Blu, 15 euro).
Prima di affrontare il libro, però, devo affrontare quell’esperienza. Del resto, non penso di andare fuori tema: trapassare dalla letteratura all’esperienza è in toto la poetica di Franchini.
Dunque un sabato canicolare (mi pare fosse maggio ’97 o ’98, un maggio da effetto serra) presi la mia moto Guzzi sgangheratissima e andai a casa di Antonio Franchini. Antonio Franchini non era ancora sposato e non aveva ancora figli. Viveva da solo, in un appartamentino minuscolo in un condominio dalle parti di Maciachini o giù di lì: comunque a nord di Milano. Zone oscure, per me: pericolose. Labirinti umidi. Le zone a nord equivalgono per me a paludi rischiose. Se uno supera Maciachini, penetrando verso la Bovisa e verso Affori e verso Comasina, si accorge che la temperatura, climatica e spirituale, subisce una brusca metamorfosi: tutto è umido, freddo, appiccicaticcio. Gli uomini sono cupamente assorti in una forma di renitenza assoluta. L’aria digrigna. Un’intera vasta comunità sadomaso, che pratica i suoi riti neri, alligna lì più o meno segretamente.
Quando giunsi nell’appartamento di Antonio Franchini restai talmente impressionato che, dopo qualche mese, lo descrissi inAssalto a un tempo devastato e vile, trasformando Franchini in un sottoproletario extracomunitario, il pugile Gadal. Franchini, al culmine del pomeriggio, di sabato, stava incantato davanti allo schermo della tv, a guardarsi un film di Bruce Lee. Le due stanze erano un disastro che, da single già allora inveterato, conoscevo bene. Il sentore di biancheria smessa, l’arruffamento ubiquo di tessuti e vesti indossate giorni prima, il letto sfatto, i residui di cibo sul tavolo, il lavabo della cucina strapieno: ecco il crisma del solitario metropolitano. Accanto a questi segni di banale comunanza, una variabile che aveva per me, a dire poco, dell’esotico: un sacco da pugile, foto libri e vhs di marziani lottatori, boxatori alieni, leggende sconosciute delle arti marziali.
Franchini, infatti, e da sempre, ha una passione che più hemingwaiana non si può: è un adepto delle palestre di combattimento, degli spogliatoi e di ogni tipo di ring, della violenza controllata e regolata (ma non per questo meno primaria) che si combatte in oasi dove la modernità non entra e dove si realizza la fusione tra l’atavismo della specie e la sua contemporaneità culturalizzata. Il mondo di Antonio Franchini è spaccato in due emisferi nettamente distinti, che sono tuttavia in continua osmosi: la letteratura e la lotta. L’osmosi permette a Franchini di rendere letteraria la lotta (sperando che la lotta persista a essere letterale: uno scacco a priori) e di fare della letteratura un ring (altro scacco a priori). Questi due emisferi raggiungono in Franchini l’apice di un culto. Culto complesso: da un lato, non conosco persona più cinica, disillusa, nichilista, scettica e voltairiana di Franchini; d’altro canto, in realtà, non conosco persona più entusiasta e vitalista del medesimo Franchini. E’ l’adepto di un culto post-nietzschano: egli si entusiasma alla possibilità che esista un dio, sapendo che dio o è morto o non c’è. Franchini, e lo scrittore e l’uomo (e, immagino, il combattente), è sempre in bilico tra agonismo e agonia.
Dunque quella presera Franchini mi prende, mi carica sulla sua (mi pare) Tipo blu, mi porta al PalaTrussardi, che allora era noto come PalaVobis: un angosciante luogo per concerti e grandi eventi che, a oggi, si chiama PalaMazda, in una sorta di strabismo onomastico tra la sponsorship e l’eco di religioni d’epoca zoroastriana (in Gladiatori, di cui non sembra che qui si parli ma di cui invece si sta parlando, Franchini intercetta questo strabismo). Al PalaTrussardi, non epico residuo di grandeur socialista meneghina, si tiene Oktagon. E’ una manifestazione incredibile: poteva essere uscita da un romanzo di DeLillo (ebbi quella sensazione perché erano i giorni in cui scoprivo DeLillo, inculcatomi a forza da un altro editor e amico di Mondadori, Edoardo Brugnatelli: quello che oggi è il responsabile di Strade Blu, la collana in cui esce l’oggetto narrativo Gladiatori). Si trattava di un mischione fetente e anabolizzato (così pensavo) del wrestling della mia pubertà: quello con Antoni Hinochi e l’Uomo Tigre, commentato su Italia 7 da Diego Fusaro. Le mie aspettative vennero presto non deluse, ma illuse con tanto di mantenimento della promessa. Le star convocate a scontrarsi, con tecniche diverse e tutte autenticamente violente, provenivano dagli otto angoli del pianeta. Tuttavia l’attrazione principale era un italiano: Di Clemente. Sulla Tipo, Franchini mi aveva raccontato di questo Di Clemente: colossale mastino napoletano, egli era violentissimo, faceva parte di un giro di incontri clandestini in Brasile dove si poteva morire, aveva cicatrici da coltello e proiettile ovunque. Era certo: avrebbe trionfato all’Oktagon. Un pubblico davvero immenso (vidi) era venuto entusiasta ad assistere a questo trionfo. Ma c’era un problema.
Il problema era che gli organizzatori non avevano capito niente. Gli organizzatori di Oktagon erano essenzialmente una persona: uno che aveva fatto il portaborse di Giorgio La Malfa e che aveva una palestra in via Melzo a Milano. Egli era osteggiato da molta della comunità italiana dedita alle arti marziali. Come in un’emulazione fallita di un film di Frank Capra, costui, che identificai immediatamente come “il Cattivo”, si era fidanzato con una ragazza bellissima che era pure campionessa di una qualche specialità, mi pare kickboxing. Era in effetti una strafiga, penso che si chiamasse Chantal. Bionda, apparentemente una di quelle crocerossine afflitte e pallidissime che sono il mio archetipo sessuale, però anche una potenziale modella (il che non rientra tra i miei archetipi sessuali). Non era affatto né una modella né una crocerossina: menava fendenti pazzeschi. Tuttavia non era una campionessa. Lo era solo grazie alle manovre del Cattivo, che le faceva vincere titoli su titoli. Questo Cattivo, organizzando l’Oktagon, forse essendo distratto da Chantal, aveva piazzato nel medesimo hotel di Milano il maciste Di Clemente e un olandese che era il suo nemico giurato, un bulldog umano che mi ricordava il biondo dei Kim & The Cadillac con molti muscoli. Ne era nata una rissa in albergo che aveva fatto strage degli arredi e della lounge hall di questo hotel. Di Clemente aveva rimediato, nella rissa, una tumefazione allucinante all’occhio (mi pare il sinistro). Non poteva combattere: il Cattivo, plenipotenziario dell’Oktagon, glielo impediva. Era uno scandalo.
Io e Franchini ci accomodammo sugli spalti. Franchini era mesto. Aveva intervistato Di Clemente due giorni prima, era allora entusiasta. Si sentiva suo amico. Di colpo, gli avevano tolto l’acme dello spettacolo. Io, Franchini e le migliaia di intervenuti al PalaVobis assistemmo a una farsa di incontro tra Chantal e un’altra: vinse Chantal…
Di colpo, irruppe qualcosa.
Era davvero qualcosa. Non era umano. Era Di Clemente.
Circondato dallo staff napoletano, questo massiccio montuoso di carne e miofibrille si dirigeva verso il ring. Gli era interdetto. Cercava il prolungamento della rissa. Voleva strozzare il Cattivo con le sue mani, perché costui, con mossa maliziosa e pavida, gli aveva interdetto il PalaVobis. Franchini scattò dagli spalti, trascinandomi nell’occhio del ciclone. Un nugolo di carabinieri, peraltro individualmente spaventatissimi, cercava di contenere il twister Di Clemente. Il Cattivo era scappato, letteralmente si era dato alla fuga. L’aria era ozono e tensione: una tensione fisica, una cosa che spaventava. Tra spintoni e diplomazie da Scampia, Di Clemente e lo staff vennero allontanati dal ring. Fu sulle scale fuori dallo spazio del PalaVobis che Franchini, per il mio stupore, parlò a Di Clemente e quello gli rispose. I carabinieri volevano allontanare Franchini, pensavano fosse un provocatore, e Di Clemente, per giustificarne la presenza e la legittimità, esclamò un’invocazione che suonava assurda sulle sue labbra di divoratore di astici e carne umana: “Lasciatelo stare, è uno scrittore!”.
In quel momento sperimentai la memorabilità.
Poi qualcuno disse che arrivava il clan dell’olandese, ci fu una baraonda…

Non è finita. Continua. L’esperienza e il racconto dell’esperienza, giunti all’acme, continuano.
L’altro giorno sono alla Bovisa, sto andando a fare dance therapy.Dance therapy è tutto tranne ciò che il nome evoca. Non è nulla di new age e nulla di ballerino. E’ una disciplina neopsichiatrica rigorosissima, che mira a scavalcare ogni protocollo terapeutico verbale, una delle molte porte strette attraverso cui passerà la psicologia dopo la seconda morte di Freud. Io sperimento questa cosa e lo faccio in un posto che sta ad Affori. Non ho più la Guzzi, devo andarci in motorino. Passo sempre vicino alla casa che fu di Antonio Franchini, ogni settimana, è lontanissimo ed esasperante per me, piove sempre quando devo andare lì. Ad altezza Maciachini, penso sempre in maniera esasperante a quella serata vissuta con Franchini. A dance therapy funziona così: nessuno ti dà istruzioni, devi muovere il corpo. Muovi il corpo senza musica. E’ allucinante. Il corpo automaticamente assume posture che, dopo un anno di pratica, ho ricostruito essere asana di hatha-yoga o posizioni base del tai-chi. E’, rinnovata e lontana dalle ossessioni di Franchini, l’esperienza a cui Franchini mi fece assistere.
Dunque, l’altro giorno esco dal lab dove faccio dance therapy, in piena Affori, prendo il motorino e a un certo punto vengo speronato da un’auto. E’ guidata da tarri. E’ colpa loro, danno la colpa a me, non posso nemmeno discutere, scendono due tarri enormi, alla Di Clemente, e senza che io abbia il tempo di pronunciare una sillaba mi prendono a schiaffi. Sono choccato, devo scappare, è l’unica cosa che si può fare. Scappo, quelli mi inseguono con l’auto per speronarmi ancora e buttarmi giù, li stacco, e dopo la paura, ecco il vecchio corredo, l’antico, il risaputo: la rabbia, la frustrazione, il senso di colpa per la vigliaccheria.
Io, a quel punto, ho compreso Antonio Franchini.

Se prendete Antonio Franchini e gli dite che ha scritto un bel libro, sotto i vostri occhi prenderà forma una manifestazione di inspiegabile diniego. Silenzio, la curvatura della spalla destra aumenta a scapito di quella della sinistra: il pugile che si mette in guardia. Gli fate un complimento e sembra che gli abbiate tirato un jab. C’è un’inermità a priori, un senso di colpa a priori, che fa l’uomo e lo scrittore. In quei momenti si ha l’impressione che lo scrittore si senta in colpa: verso la vita. Si sente colpevole di non essere dentro la vita. Insanabile ferita. La vita sarebbe altrove: sarebbe la Vita. La Vita si manifesterebbe nello scrittore solo grazie a due attività cognitive ed emotive: l’assistere, da fuori della Vita, alla Vita (e, quindi, scriverne); l’emergere di una delicatezza colpevole rispetto a questa attività non infamante, ma certamente infame. Non è cosa di Franchini soltanto: è di moltissimi. Una fitta al cuore che prende se arriva uno e ti dice: fai lo scrittore, lavorare in miniera è altro, lavorare in miniera è la Realtà. Mettiamoci poi nei panni di uno scrittore il cui giudizio è eventualmente una mannaia per gli altri scrittori, oppure un autobus per il paradiso: Franchini è responsabile della narrativa italiana della più grande casa editrice nella nazione. E’, dunque, sovraesposto a uno tsunami di narcisismi, pietismi, furberie patetiche, angoscianti tentativi di attracco – ciò che fa lo scrittore, non la letteratura. Da questa fluviale invasione di umanaio, si ricava un cinismo devastante.
Inermità, confronto con la Vita idealizzata e disillusione per sovraesposizione al lumpen letterario sono tra le correnti radianti che hanno fatto quello che finora è, a mio parere, il miglior libro di Franchini, cioè Cronaca della fine, laddove viene a incarnarsi una delle più potenti allegorie italiane della narrativa contemporanea – l’uomo nonuomo scrittore nonscrittore Dante Virgili. Stento ad affermare che quello fosse un romanzo perché sono convinto, da una decina e passa d’anni, che Franchini sia tra gli autori più avantpop di cui disponiamo. Ora Franchini non è più solo: con Pincio, i singoli dei Wu Ming, con Domanin, Mancassola, Colombati etc, quell’etichetta non ha più senso, e del resto era un nome di comodo per dire che gli scrittori passano, dal produrre romanzi algebrici, allo scrivere oggetti narrativi. E tuttavia, in tempi in cui l’oggetto narrativo che supera il romanzo algebrico stentava a farsi vedere, Franchini scriveva Quando vi ucciderete, maestro? – testo che considero fondamentale per una ricognizione poetica dell’ultimo quindicennio di narrativa italiana.
Il nuovo libro di Franchini, Gladiatori, quando lui me ne ha parlato, veniva definito così: “Ma è una cazzata, una cosa minore”. Per niente. Si tratta di un autogiudizio formulato in regime di colpa. Gladiatori è invece il recto di cui Cronaca della fine è il verso. Là il motore tematico e poetico era, in fondo, il rapporto tra la letteratura e la Vita. Qui il motore tematico è il rapporto tra la Vita e la letteratura. Là sembrava esplodere in continuazione una tempesta magnetica le cui particelle erano di carattere e identità letterari. Qua la tempesta è la Vita che costeggia la Verità e lo Spettacolo, inerendo con furibonda esplosione di forze a una letteratura scomparsa, una letteratura che nel ring in cui appaiono i Gladiatori non sembra entrare. Questione, come è ovvio, di apparenze. Uno apre Gladiatori e la prima cosa che si trova davanti è una lunghissima sconcertante citazione ciceroniana.
Con Gladiatori, Franchini completa il suo personale (non solo suo e ben più che personale) Tao. Metà bianco e metà nero, con la presenza dell’opposto sempre attiva in campo avverso. C’è da meditare profondamente quando Franchini affronta di petto questa consapevolezza, discettando su quella che si dice essere “la Nobile Arte”, cioè non la letteratura, ma il pugilato. Il suo vitalismo qui raggiunge le vette di un antivitalismo che avverte l’esistenza in entrambe le sue facies: l’oscura e la luminosa. Le tenebre orrorifiche, in cui Franchini procede in un diluvio di paillettes, sono a conti fatti il suo Stige. La riproposizione di un arcaico che si realizza effettivamente nel contemporaneo è identica a quanto accade in Metallo Urlante di Evangelisti. Queste profezie latine in epoca di cloni sono un modulo poetico che si sta trasformando, che sta trasformando la letteratura, dentro e fuori quelle categorie imbarazzanti che furono i “generi”. C’è del latino da Tacito del Germania, anzi, da inno a Mavors in epoca preimperiale, in queste incursioni profonde, che rasentano la fisicità non ultramondana di un orfismo ben noto alla tradizione letteraria. La presenza di foto (bellissime, opera di Piero Pompili) in Gladiatoricertifica una sensibilità secentesca (ma un Seicento non arcadico, non giocosamente barocco: un Seicento alla Taylor, elisabettiano). Un museo fisiognomico che si inscrive nel campo visivo del Benjamin delDramma barocco. Tra Piranesi e Lombroso: figurazione di un’ossessione che alimenta la scrittura di Franchini da sempre, e di cui lui mi pare solo parzialmente consapevole. Non più una scrittura, una visione: piuttosto, una potenza. Una potenza perturbante.
Questo libro è perturbante. I suoi Gladiatori sono anche gli scrittori morti che, come in un dramma di Kantor, lottano in un’immobilità esasperante, prossima alla calma perfetta degli atleti marziali che operano sul prana più che sul fisico denso. Ciò è, ancora una volta e per sempre, la letteratura.

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