Dal romanzo Hitler: l’installazione APOCALISSE CON FIGURE

hitlercovermedia.jpgCome già annunciato, tutto il romanzo Hitler ruota attorno a una crepa, a una rottura, i cui lembi sono due pagine nere: si tratta del kaddish personale Apocalisse con figure (un titolo mutuato da Grotowski), il cui testo è stato anticipato inedito da l’Unità e letto a Officina Italia a Milano, in una versione ridotta e differente rispetto alla sezione interna al libro. Potete leggere una delle versioni qui e qui ascoltarne la lettura, mentre qui è acquistabile il libretto cartaceo della versione integrale stampato su Lulu.com.
Prima della chiusura per ferie invernali, su questo sito ho deciso di tentare la traduzione in slideshow di Apocalisse con figure: si tratta ovviamente di un analogon, che cerca di rispettare il comandamento poetico ed etico che viene conferito da Claude Lanzmann a qualunque tentativo di intrudersi storicamente o, peggio, esteticamente, nella questione della Shoah. Non ho dunque creato un’installazione come quelle già realizzate – qui non esiste alcun intento artistico, bensì il tentativo di abolire la vista a favore di quella che Lanzmann chiama “trasmissione” e Celan “testimonianza”.
Non è dunque un’installazione: come il romanzo Hitler è un romanzo, così questa è una installazione.
Al solito: essa è scaricabile e visionabile in versione html per Mac e Pc, oppure solo per Pc in file eseguibile (per vedere a schermo intero, cliccare sulla freccina obliqua arancione in basso, una volta downloadato il file e fattolo partire). Dato il peso, che si aggira intorno ai 5 megabyte, si consiglia il download a chi disponga di adsl o banda larga.
Apocalisse con figure – slide – versione html (4.9M)

Avvicinamenti al romanzo HITLER: Paolin su Littell

hitlercovermedia.jpg1. Avvicinamenti al romanzo: Wu Ming 1 e Piperno su Littell
2. Avvicinamenti al romanzo: Claude Lanzmann
3. Avvicinamenti al romanzo: Paolin sulla recensione a Littell di Piperno
4. Avvicinamenti al romanzo: Solinas e la conferma dell’errore di Littell
5. Avvicinamenti al romanzo: io, Littell e Leopardi
6. Avvicinamenti al romanzo: le bozze
7. Avvicinamenti al romanzo: audio – Levi Della Torre e Mengaldo
8. Avvicinamenti al romanzo: da Autet su Littell
9. Avvicinamenti al romanzo: la rappresentazione del Male
10. Avvicinamenti al romanzo: rappresentare le vittime del Male, rappresentare chi fa il Male
11. Avvicinamenti al romanzo: Giglioli su Littell
12. Avvicinamenti al romanzo: Sebald e Austerlitz


Demetrio Paolin era già intervenuto, a proposito della nozione di “Zona Grigia”, nel dibattito su Littell e il suo Le Benevole. Sulla splendida biblioteca di Babele recensoria che è Bottega di lettura, ha adesso pubblicato un articolo, che condivido in ogni sua sillaba, circa la struttura poetica e immediatamente morale del romanzo di Littell, soffermandosi tuttavia anche sulle implicazioni strutturali e stilistiche, e proponendo un paragone che, ai critici letterari, può apparire scabroso, ma che di fatto non lo è, in quanto è emblematico della leggerezza etica che implica l’atteggiamento poetico di Littell. Ripresento qui di seguito l’articolo di Paolin, che rimane una panoramica penetrante, poiché fa riflettere su temi centrali, che sono poi ancora più centrali per uno scrittore che ha tentato di affrontare la rappresentabilità non del nazismo, bensì di Hitler stesso.

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Il romanzo HITLER: fare ed evitare La caduta

hitlercovermedia.jpgUno dei protocolli rappresentativi che potevano interessarmi, nel rappresentare in forma di romanzo quel buco nero che è Hitler, non è letterario, poiché non avevo alle spalle letteratura che mi sostenesse: è un protocollo rappresentativo cinematografico. Si tratta del film La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler, del regista Oliver Hirschbiegel, dove Hitler è interpretato da uno strepitoso Bruno Ganz. Ciò che mi interessava erano i momenti che potevano risultare (ma non erano) documentaristici, mentre rigettavo tutto ciò che di collaterale e inventato veniva inserito. Il film fu realizzato con la consulenza di Joachim Fest, sulla traccia della testimonianza resa dalla segretaria personale del Führer, Traudl Junge (testimonianza peraltro contestata). Soltanto un hitlerologo può comprendere un’operazione come quella che Hirschbiegel compie a tratti – e sono i tratti per me decisivi: è dagli ultimi filmati in cui si scorge Hitler e dalle foto finali che partono alcune delle sue scene, le quali, sviluppandosi, si attengono al dettato di Fest (per esempio, il momento in cui Hitler esce coi gerarchi dal bunker, per premiare i bambini della Hitlerjugend che difendono Berlino: un calco dell’ultimo filmato originale che riprende in vita il dittatore). Lo storico si chiudeva nel camerino con Ganz per due ore, prima che una scena venisse girata. A risultato concluso, Joachim Fest ritirò la firma della consulenza. Perché? Non si conoscono i motivi, anche se si sospetta che coincidano con le ragioni che spinsero Wenders a contestare duramente la pellicola: ne veniva fuori un Hitler troppo umano. Ed è vero: per cui, La caduta si pone come possibile modello rappresentativo e anche come il suo opposto – cioè ciò che non si deve fare, la concessione empatica a Hitler. Questa empatia viene soprattutto enfatizzata dal soffermarsi della cinepresa sul tremito parkinsoniano della mano che Hitler nasconde dietro la schiena. La si vede troppe volte, è un segno che Hitler è umano ed è il corrispettivo dell’appello dell’SS Max Aue, in incipit delle Benevole di Littell: “Fratelli umani”. Nego questa fratellanza. Questa fratellanza va negata. L’impostazione della Caduta diviene, tramite empatia, il dramma di un uomo, aspirando a rappresentarne la tragedia. Non riesce a rappresentarne la tragedia perché il tragico è altra cosa, ma riesce a rappresentarne il dramma, che presuppone una continuità tra Hitler e l’umano che, per lo stesso Hitler, non esisteva (Hitler stesso disse all’ambasciatore spagnolo, Espinosa: “Sono un uomo, ma di altra specie” – si deve partire di qui, a mia detta).
Il problema di rappresentazione di Hitler, a mio parere, può attenersi soltanto al movimento di dilatazione oculare circa ciò che è accaduto, affinché sia mostrato il vuoto che Hitler incarna. Questo vuoto è non-essere, negazione dell’empatia e apertura della faglia e della ferita tra umano e umano. Si tratta di qualcosa di estremamente contagioso, che funziona per metastasi, e a cui soprattutto l’artista deve opporsi. Non però con i mezzi dell’umanesimo occidentale che figlia Hitler, realizzandosi nell’opposto di se stesso: nell’antiumanesimo. C’è da ragionare circa il perché Hitler appare in Occidente: io non credo nella determinazione da parte della tecnologia, nella destinalità della tecnologia che figlia Hitler (la questione dei campi come possibilità tecnologica che, prima di Hitler, non era data: non è questo il cuore del problema, per me – e non soltanto per me). L’umanesimo occidentale accumula nubi per secoli, finché le nubi non scaricano sulla terra un fulmine – qualcosa di elettrico, impulsato, che lascia sentore di ozono dove cade, dove cade brucia tutto e lo annichila, separando anziché unire il cielo e la terra: è, insomma, qualcosa di totalmente altro dall’umano.
A ciò si aggiunga una difficoltà ulteriore: rappresentando Hitler nel modo in cui vado dicendo, sfumerebbe la possibilità di dire che nessuno è immune dall’essere nazista. Io non credo a questa celebre massima: è la linea di discrimine in cui l’umanità si trova sempre. Alla prova dei fatti, quando era possibile diventare nazisti, molti non lo diventarono e pagarono con enormi, o insuperabili sul piano ontologico, sofferenze e orrori la propria scelta – a riprova che bisogna rovesciare questo ulteriore truismo in una verità meditata: ciascuno è libero di scegliere di non diventare nazista, conoscendo ciò che comporterà per lui tale scelta che ribadisce l’umano e la libertà autentica.
Infine, un’altra distanza dalla Caduta. Il film si erge come LA pellicola definitiva sulla fine di Hitler. Questo sogno di unicità è esattamente l’umanismo rovesciato, è un sogno artistico demiurgico che esprime la retorica precisa con cui Hitler appare e si impone. Quindi, il romanzo Hitler ha predisposte in sé le difese, tutte annidate nel testo, per evitare tale retorica: lo Hitler che ho scritto non è il romanzo finale su Hitler, anche e soprattutto perché è il primo a essere scritto.
Riproduco una sintetica ma puntualissima recensione cinematografica a La caduta, pubblicata su Cinemavvenire, a firma Guido Vitiello: concordo su ogni punto evidenziato dal critico, a parte il giudizio dato sulla biografia hitleriana di Fest, che definirebbe il Führer come figura “eroica e plutarchiana”: tutt’altro, se è vero che il lungo capitolo centrale è una rigorosissima meditazione su Hitler come “Non-Persona”, e non esiste altra biografia che testimoni della vuotaggine e dell’abulia idiota di Hitler lungo tutta la sua esistenza.

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Avvicinamenti al romanzo HITLER: Sebald e Austerlitz

hitlercovermedia.jpgTre sono le dedicatarie del romanzo Hitler. Una è Helena Janeczeck, che ha messo in moto, con il suo “romanzo” Lezioni di tenebra, nove anni orsono, il progetto necessarissimo (per me, ovviamente) di osservare letterariamente Hitler: questo volto a cui gli scrittori si sono appoggiati senza guardarlo in faccia, senza scoprire che questo volto (iconizzato, reclamizzato, mitologizzato) è un volto bianco, vuoto, privo di caratteristiche – come ribadito ossessivamente, il volto che non è, il volto di una bolla di non- essere, il volto della non-persona. Un’altra delle deicatarie è Babsi Jones, l’autrice di Sappiano le mie parole di sangue. La spinta meditativa che mi ha fornito, nel momento in cui, dopo anni di studio, mi accingevo tra mille incertezze a scrivere, è stata fondamentale. Così come quella, ancora più decisiva, poiché mi è stata allestita una fucina teorica e pratica su forma e struttura e poetica, che Donata Feroldi, la terza dedicataria del libro, mi ha dato con una generosità da lasciare allibiti. Babsi Jones, tuttavia, e proprio in linea con la poetica dello sguardo da un tempo assoluto, che è il qui e ora, è riuscita retroattivamente a imporre uno sguardo confermativo e ulteriore sul <del<romanzo Hitler.
sebald_austerlitz.jpgQuesta estate, in condizioni personali assai penose, in un luogo indicibile (che sarà tra l’altro il soggetto, lo sfondo e la sostanza del “romanzo” che verrà pubblicato presso Mondadori dopo Hitler, prevedibilmente a fine 2009 o inizio 2010…), mi ero portato molti libri da leggere. Tra questi, Austerlitz di W.G. Sebald. Non riuscivo a sfondare la lettura, mi respingeva. Storia naturale della distruzione lo lessi in un giorno. Austerlitz mi opponeva come un muro. Raffinato, warburghiano – eppure spaventoso, in qualche modo – in qualche modo ne avevo paura. Tornato a Milano, ne parlai con Babsi che mi spronò, dicendo che era fondamentale per me leggerlo. Lo feci. Era fondamentale.
A cominciare da qui: “Tutti questi oggetti inerti che mi circondano – penso – sono l’unica traccia della storia individuale delle persone imprigionate e uccise ad Auschwitz”.

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Avvicinamenti al romanzo: rappresentare le vittime del Male, rappresentare chi fa il Male

1. Avvicinamenti al romanzo: Wu Ming 1 e Piperno su Littell
2. Avvicinamenti al romanzo: Claude Lanzmann
3. Avvicinamenti al romanzo: Paolin sulla recensione a Littell di Piperno
4. Avvicinamenti al romanzo: Solinas e la conferma dell’errore di Littell
5. Avvicinamenti al romanzo: io, Littell e Leopardi
6. Avvicinamenti al romanzo: le bozze
7. Avvicinamenti al romanzo: audio – Levi Della Torre e Mengaldo
8. Avvicinamenti al romanzo: da Autet su Littell
9. Avvicinamenti al romanzo: la rappresentazione del Male
Su suggerimento di Antonio Scurati, a proposito del romanzo, di cui qui si possono visionare i materiali di riflessione che hanno condotto alla stesura, ho visionato un testo fondamentale del filosofo e semiologo Hubert Didi-Huberman, Immagini malgrado tutto, uscito per i tipi Cortina. didi_huberman.jpgE’ a partire dalle sequenze di immagini scattate all’interno del campo di sterminio di Auschwitz (nel ’44, da un deportato noto col nome di Alex) che il filosofo francese, evitando la feticizzazione dell’immagine stessa, tenta di avvicinarsi alla possibile rappresentazione dell’orrore. La rappresentabilità degli esiti del Male Assoluto è qui in questione. Qualcuno ricorda un monito di Agamben: se non fosse possibile immaginare quel Male, si darebbe ragione ai nazisti, che sostengono: “La storia dei lager la detteremo noi”.
Fatto sta che la storia dei lager non l’hanno dettata i nazisti e nessuno ha impedito a nessuno di immaginare cosa successe ad Auschwitz. E’ piuttosto nella disgiunzione tra il sentire metafisico e l’immaginarsi Auschwitz che avviene la sconfitta di tutto il protocollo umanistico occidentale – o, meglio, il suo inveramento, che è Auschwitz stessa. Poiché l’immaginare viene pensato dall’Occidente come connesso eventualmente all’emotivo, e l’emotivo non è il piano dell’ontologico, dove risiedono gli effetti del Male Assoluto. Quando scrivo “piano ontologico” non intendo qualcosa di differente rispetto alla storia umana. Se però la storia umana non è sacra in forza della pietas e dell’empatia, o se l’empatia e la pietas non giungono alla percezione dell’assolutezza del gesto umano, l’emozione e l’immaginazione e tutta la cultura divengono un campo di coltura delle premesse che giungono a una conclusione inevitabile, inevitabilmente voluta: il disgiungimento assoluto tra umano e umano. Quando Adorno sentenzia che “è impossibile scrivere dopo Auschwitz”, ha ragione – poiché ormai conosce bene il potere delle immagini, sganciate dal sacro e dal metafisico. E’ questo lo snodo fondamentale: se si perde la sacralità dell’empatia, l’umanesimo si rovescia nel suo opposto, l’antiumanesimo.
Non è perciò data, almeno per me, alcuna rappresentabilità degli esiti del Male Assoluto: non immagino, cioè non invento, l’orrore abissale avvenuto in quella breccia della storia umana che fu il campo di sterminio nazista. Se lo immaginassi, la storia dei lager verrebbe dettata dai nazisti. La rappresentazione del Male Assoluto è possibile soltanto quando la rappresentabilità stessa è nella sacralità, è nella metafisica: soltanto chi ha vissuto la storia del campo di sterminio può rappresentare. E’ questo a conferire l’unicità della Shoah. Altrimenti, all’unicità dello sterminio ebraico corrisponderebbe l’unicità di chi lo ha perpetrato – e questa è una vittoria postuma che non si può concedere ai nazisti.
A noi tocca creare all’interno di un cerchio ristretto di rappresentabilità: si esige una potente, lunga e ponderatissima meditazione sulla rappresentazione di chi ha commesso il Male, non del Male commesso. Questa rappresentazione esige lo sforzo di adoperarsi per una forma che annulli il primato ontologico di chi esercita il Male, per disgiungerlo dall’unicità dello sterminio. Se non fosse così, l’unicità della Shoah manterrebbe in vita il ricordo di chi praticò quel Male, mitologizzando. Di ritorno, l’unicità della Shoah rischierebbe di essere considerata alla stregua di un mito: ed è proprio il movimento che compie chi secerne vergognose tesi revisioniste. Bisogna andare al di là della nozione di persona, a proposito di chi compie il Male. Se è un unicum, si tratta di un unicum che non esiste, che non è, che non ha statuto di essere: bisogna sottrarre statuto di essere a colui che compie il Male assoluto. Questo zero, questa Non-Persona è una discontinuità nella storia umana: appare come umano e non è un umano. Quale forma di rappresentazione, dunque, utilizzare?

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