Avvicinamenti al romanzo HITLER: Paolin su Littell

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Demetrio Paolin era già intervenuto, a proposito della nozione di “Zona Grigia”, nel dibattito su Littell e il suo Le Benevole. Sulla splendida biblioteca di Babele recensoria che è Bottega di lettura, ha adesso pubblicato un articolo, che condivido in ogni sua sillaba, circa la struttura poetica e immediatamente morale del romanzo di Littell, soffermandosi tuttavia anche sulle implicazioni strutturali e stilistiche, e proponendo un paragone che, ai critici letterari, può apparire scabroso, ma che di fatto non lo è, in quanto è emblematico della leggerezza etica che implica l’atteggiamento poetico di Littell. Ripresento qui di seguito l’articolo di Paolin, che rimane una panoramica penetrante, poiché fa riflettere su temi centrali, che sono poi ancora più centrali per uno scrittore che ha tentato di affrontare la rappresentabilità non del nazismo, bensì di Hitler stesso.

Littell, Le Benevole (Einaudi)

di DEMETRIO PAOLIN

benevole.jpgHo finito di leggere da un po’ di tempo Le Benevole di Jonathan Littell (Einaudi, 2007) e sono giorni che penso a come scrivere una lettura di questo libro mastodontico, oltre 950 pagine, che è stato da alcuni definito un vero capolavoro e da altri pesantemente criticato.
Il romanzo, devo dire, non mi ha convinto. Le sensazioni dominanti sono state di noia e di fastidio. Ma detto semplicemente così, non credo possa servire a qualcosa. Allora proverò ad argomentare i perché di questa delusione.

Le prime 25 pagine

La parte più interessante del libro, che narra le vicissitudini di Max Aue una SS tedesca, sopravvissuta in maniera molto rocambolesca al conflitto mondiale, sono appunto le prime 25 pagine. In quelle Littell sigla il patto con il lettore e pone le basi della sua narrazione.

Il testo si configura come un memoriale scritto in prima persona. Il protagonista dichiara che i motivi che l’hanno spinto a scrivere sono strettamente privati, egli desidera vederci chiaro: “Se mi sono deciso a scrivere, dopo tutti questi anni, è per mettere in chiaro le cose per me stesso, non per voi.” (p.5).

Questo capitolo dal titolo Toccata, però, si basa su un errore, Max è convinto che i lettori siano suoi “fratelli umani” (p.5) ovvero suoi simili, solo in questo modo infatti può dire che la storia che andrà a raccontare “riguarda” (p.5) ognuno di noi.
Il protagonista, chi dice Io nel testo, quindi postula una prossimità tra lui e i lettori, una vicinanza che è dettata da una semplice constatazione: Max non si sente né si descrive diverso da chi legge le sue pagine.

a cosa pensate, voi, durante la giornata? A pochissime cose in realtà. Stilare una classificazione ragionata dei vostri pensieri abituali sarebbe facile: pensieri pratici o meccanici, pianificazioni dei gesti e del tempo (…); preoccupazioni di lavoro; noie finanziarie; problemi domestici; fantasie sessuali. A cena contemplate il volto più sfiorito di vostra moglie, tanto meno eccitante della vostra amante, eppure ammodo sotto tutti i punti di vista, che fare, è la vita, quindi parlate dell’ultima crisi di governo. (pp.8-9)

Aue sembra dire siamo simili, viviamo vite borghesi e tranquille, ciò che sono io lo siete anche voi. Il male, che lui ha compiuto, è dovuto essenzialmente a motivi storici, ma nel profondo – suggerisce – siamo medesimi, medesimamente portati al male, ecco perché siamo umani e, quindi, fratelli.

Il capitolo è giocato su un’abile strategia retorica. Il protagonista s’incolpa, non nasconde, quasi si compiace dei propri misfatti. Aue si lancia in un calcolo matematico, neppure difficile in verità, per giungere a stabilire il rapporto di “morti al minuto” nella seconda guerra: 1,47 morti/minuto per i Tedeschi, 2,5 per gli ebrei, 9,8 per i sovietici.

Di colpo tutte le vite diventano un numero, l’unica logica è il mero calcolo; ogni morte è in realtà una semplice cessazione, come un saldo di attivi e passivi in un bilancio. Aue non parla di esseri umani, ma di pezzi. Senza accorgercene entriamo nell’orizzonte di riferimento dello sterminio, nel quale gli uomini sono pezzi e come tali potevano essere contabilizzati alla stregua di qualsiasi altro oggetto.

Ora, finalmente, può arrivare la stoccata finale, ovvero la riflessione sul fatto che ognuno di noi ha un parte di male e che quindi ciò che ha fatto Max avrebbe potuto farlo chiunque. La colpevolezza di Aue è storica (era da quella parte e ha fatto determinate scelte), ma dal punto di vista ontologico, dell’essere, ognuno di noi potrebbe essere colpevole come lui.

Ancora una volta siamo chiari: non cerco di dire che non sono colpevole di questo o di quel fatto. Io sono colpevole, voi non lo siete, mi sta bene. Ma dovreste comunque essere capaci di dire a voi stessi che ciò che ho fatto io, l’avreste fatto anche voi. (p.21)

Max Aue ci dice siamo uguali, siamo medesimi, facendo un ragionamento, che a me sembra una aberrazione. Se penso al personaggio per eccellenza che incarna il male, Stavrogin, nei Demoni, mi pare chiaro che Aue fa una scelta di continuità, mentre il personaggio dostoevskiano di discontinuità. Stavrogin segna una demarcazione tra sé e gli altri uomini, è fiero di non essere come gli altri uomini. Sa che lui è un’altra specie, vocata al male. Max Aue, invece, presuppone questa contiguità: siamo esseri umani tutti votati al male.
Non c’è libra scelta, una possibilità di dire No.
Nell’orizzonte del protagonista de Le Benevole non c’è opzione se non obbedire a Hitler. A questa riflessione s’aggiunge come corollario che chiunque di noi, vivente nell’epoca tra il 1939 e il 1945 in territorio tedesco, avrebbe compiuto le medesime azioni.
Per dirla con Camus

Il mondo resta nelle mani di chi cerca il potere, e alla fine, è retto dal terrore non più diviso in giusti e ingiusti; ma in padroni e schiavi. Ha ragione chi domina. E’ l’ufficiale tedesco che ordina la tortura e quello che la esegue, e le SS trasformate in becchini, sono gli uomini ragionevoli di questo mondo.

Il ritratto dello scrittore francese anticipa le riflessioni che Littell mette in bocca al suo personaggio. Leggendo, però, queste prime 25 pagine ho sentito un desiderio profondo di negare ogni affermazione di Aue. Mi veniva da dire: “Che no, che io non sono così, che non è detto si debba essere così, che è possibile anche non sentirsi fratelli, pur sapendo che tutti siamo accomunati da un male intimo e profondo, di assassino”.
Insomma che è possibile tenere a bada il male e dirgli no. Sempre Camus

Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia: è anche un uomo che dice sì, dal suo primo movimento. Dimostra con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa che “vale la pena di…”, che chiede se ne prenda cura.

Un videogame su carta

Leggendo Le Benevole ho pensato a certi video giochi per consolle o per pc, simili in alcune caratteristiche al romanzo. Mi limito a segnalarne due:

1. in queste avventure tu puoi vestire anche i panni dei nazisti. Il più delle volte questi sono giochi in prima persona, proprio come il libro che abbiamo letto, e questo rende più forte l’immedesimazione.

2. affinché l’immedesimazione sia totale, però, ci vuole una precisione maniacale nei dettagli. La ricostruzione degli scenari, degli armamenti, delle zone di guerra è fedelissima, così anche nel testo di Littel.

La precisione delle ricostruzioni, infatti, arriva alla maniacalità. L’autore ha voluto che tutto fosse al proprio posto con una precisione che, però, contrariamente ai giochi in questione, invece di avvicinare allontana.
Le pagine de Le Benevole sono, molto di sovente, noiose. Pagine e pagine di descrizioni, che non aggiungono niente a ciò che noi già sappiamo. Anche la struttura di questi racconti procede secondo un canone fisso.

1. Il protagonista arriva in un luogo.
2. Prende contatto con altri.
3. Dai dialoghi si evince che il protagonista è diverso (per consapevolezza e sensibilità) dai suoi interlocutori.
4. Assistiamo a crimini tremendi, che anche il protagonista compie con un atteggiamento ben diverso (vd.3).
5. Segue un sogno finale, la partenza e l’arrivo in un altro luogo.

Sui sogni che costellano una parte dei racconti di Aue dobbiamo aggiungere che il più delle volte sono lapalissiani. Nel leggerli si presentano così facilmente interpretabili che risulta comico vedere il protagonista lambiccarsi sul significato più recondito di questa sua attività notturna, che pare alle lettura così cristallina.

Abbiamo detto che Le benevole è un ottimo videogame di carta. Cosa manca a questo libro? Manca la profondità letteraria, abbiamo un regesto catastale del Male assoluto ma nulla di più.
Cerchiamo di portare un esempio.
Uno dei topoi classici della letteratura concentrazionaria è l’arrivo nel lager; in particolare l’arrivo a Auschwitz. Ecco la descrizione di Littell.

Poi arrivò il treno e aprirono le porte dei vagoni merci. Mi aspettavo un’irruzione caotica: nonostante le grida e i latrati dei cani, le cose si svolsero invece in modo abbastanza ordinato. I nuovi arrivati visibilmente disorientati ed esausti, sbucavano dai vagoni in un terribile puzzo d’escrementi […]. Thilo separava quelli abili al lavoro dagli inabili, mandando le madri dalla stessa parte dei loro bambini verso dei camion che li aspettavano un po’ più lontano. (p.586)

Cosa aggiunge questa descrizione a ciò che già sappiamo? Niente.
Proviamo, ora, a leggere questo.

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo; la notte li inghiottì, puramente e semplicemente.

Primo Levi (Se questo è un uomo) descrive la medesima situazione. Quella di Littel è una normale descrizione, una corretta didascalia per una schermata da video gioco; in Levi la descrizione si fa letteratura grazie a quel finale “la notte li inghiottì, puramente e semplicemente”, in cui si cita Catullo “nox est perpetua una dormienda” (Carme V) e in cui gli avverbi finali posposti e separati dalla virgola danno alla frase un ritmo lento e cantilenante come di nenia.
C’è poi un errore di sguardo, di prospettive. Littell non si sofferma poi mai sul singolo, si muove sempre per grandi scenografie di massa; ciò rende arida la descrizione, semplice elencazione del male. Chiunque può scrivere, sciattamente, che i bambini vengono uccisi, ma pochi possono comporre pagine così

Così morì Emilia, che aveva tre anni. […]. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa, ambiziosa, allegra e intelligente; alla quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte.

Levi scrive cinque righe perfette di commovente epitaffio, in cui si citano I promessi Sposi, le pagine infernali della peste. La spia è nell’aggettivo “degenere” riferito al macchinista simile al “turpe”, con il quale il Manzoni definisce il monatto.

Concludendo

Mi pare che le mie riflessioni descrivano in pieno la debolezza del romanzo, che consegna nulla di nuovo alla nostra esperienza di lettori.
Se a tale vacuità s’aggiunge che il protagonista è un omosessuale, amante della musica classica (neanche del solito Wagner, ma di sconosciuti autori francesi) che ha avuto rapporti incestuosi con la sorella gemella culminati nella nascita di due gemelli ovvero i più triti luoghi comuni sulle SS e i tedeschi, si capisce bene che il libro con la sua voglia di dire e spiegare, in realtà, anestetizza e svuota, annoia e svilisce l’enorme tragedia della seconda guerra mondiale e dello sterminio.

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