Aldo Nove: ‘La più grande balena morta della Lombardia’

[Pubblicato in origine su Web lunedì 12 Aprile 2004]

Antonello Satta Centanin, in arte Aldo Nove, è il massimo talento linguistico della generazione italiana tra i 30 e i 40. Il che non significa che sa scrivere bene. C’è molta gente, oggi, che sa scrivere bene. La fede assoluta nella lingua, vissuta con una naturalezza sconcertante, priva totalmente dello sforzo o della fatica a cui è costretto lo scrittore che parte da un rapporto estrinseco con la lingua: ecco, piuttosto, il segno del talento. Il talento linguistico filtra qualunque esperienza attraverso un atto di parola che è identico al respiro: non esiste coscienza del respiro, esso eviene come automatismo virtuoso – e consente la vita. Non è un caso nel caso di Aldo Nove: essendo uno dei migliori poeti della sua generazione, esercita la lingua come respiro metrico. Ma è quando affronta la prosa, attraverso la misura del racconto impossibile e sospeso, che Aldo Nove fa erompere con potenza il suo talento. E questa nuova raccolta di racconti, probabilmente il primo autentico romanzo di Aldo Nove, La più grande balena morta della Lombardia, conferma la grandezza della scrittura dell’autore di Woobinda – qui si inventa un nuovo genere, neosettecentesco e fantascientifico, cahier de doléance et de joie, raccolta di sutra teologici e saggio postfreudiano, intervento politico e prosa poetica. Ovvero: il libro dell’occhio che scruta il presente stupendo e terribile, attraverso il trauma del passato in cui già, quall’occhio, scrutava stupito.

C’è una superficiale linea di continuità che lega la Balena ai precedenti lavori di Nove – ed è la simbologia del consumismo, l’esasperazione di materia da acquistare e divorare che ha fatto (e sta disfacendo) una cultura. E’ pura apparenza, poiché la prospettiva di Aldo Nove supera il feticismo che energeticamente lega mente e oggetto, spalanca sia la mente sia l’oggetto, permette di penetrare contemporaneamente (qui è il miracolo del talento linguistico) e nella mente e nel soggetto. In quest’opera esplorativa (e mai colonizzatrice – altro miracolo del talento linguistico) della dissociazione tra mente e mondo, Aldo Nove proietta se stesso e chi legge in un pardès di stupore edenico ma non inerme, in una sorta di limbo selvaggio in cui l’infante regale (anzi, divino) è il soggetto assoluto, assolutamente potente eppure non demiurgico, poiché è l’unico soggetto dello stupore che può variare a suo piacere secondo i morfemi del gioco, sebbene egli non possa incidere minimamente su una realtà data, storica, che lo colpisce e in cui egli è gettato. Prendiamo uno dei molteplici vertici di questa narrazione esplosa – il pezzo di bravura su L’omino Bialetti:

“Quando facevo la cacca dopo le dieci appariva l’omino Bialetti, immenso come una vetrina piena di giocattoli, spaventoso come il rombo di un aereo.
[…] Inutile gridare quando un pupazzo che non esiste forma parole con nere successioni di lettere sulla bocca […]
Perché l’omino Bialetti vende prodotti per la casa sullo schermo ma ha una doppia vita come il dottor Jekyll, ogni notte uccide i bambini che restano in bagno da soli più di nove minuti, li spaventa per mesi e infine li uccide.
A Viggiù, nel solo marzo del ’71, ne sono stati trovati morti undici.”

E’ un microracconto che comprime, nello spazio di neanche una pagina, una mole impressionante di nuclei e stilemi, e che richiede uno sguardo esasperatanente attento, impegnato con altissima fatica a decrittare ogni svolta e ogni piega di una prosa straordinaria – finché l’esasperazione diviene troppo esasperante e si compie il balzo verso il nonpensiero, verso lo stupore che Aldo Nove coagula nelle sue infinite distorsioni linguistiche (una sostanza linguistica e alinguistica che, secondo Agamben, configura lo stato paradisiaco del parlante, in presenza della lingua morta). Ecco una non definitiva lista di nuclei, temi e variazioni ritmiche che Aldo Nove condensa in questo brano:

– Il superamento dell’ideologia psicoanalitica come etichetta unica da apporre sul mistero dell’infanzia (la fase anale);
– Il mantenimento dell’equazione sporco/mistero (la cacca e il pericolo, il momento misterioso che aggredisce, fa vibrare di paura);
– L’enunciazione dell’esperienza infantile come assenza di dualità e compresenza di opposti (la vetrina dei giocattoli è immensa e il rombo dell’aereo è spaventoso, quindi il principio di piacere e quello di dispiacere convivono nel medesimo universo esperienziale; lo stesso omino Bialetti, che fa ridere, fa anche terrore – e, pur essendo piccolo, è enorme);
– La percezione dell’icona via etere come fantasma (il bambino è in bagno e spunta il personaggio televisivo dell’omino Bialetti), con tutte le conseguenze sociofilosofiche del caso (edificazione di una cultura fantastica tramite condizionamento; e, di contro, risposta formulata in termini di sopravvivenza psichica, attraverso la fantasmizzazione di ciò che è dato dalla cultura dell’etere e dal momento sociale – diciamo dall’inconscio collettivo);
– Intensificazione dell’esperienza soggettiva come avvenimento teologico, che struttura un universo parallelo, paradisiaco o infernale (qui è il caso di sottolineare la prossimità del “pupazzo che non esiste” e che agisce, trattenendo in bocca e poi espellendo gli elementi seminali di ogni linguaggio, lettere che fondano la lingua ma non significano nulla, esattamente come il Nyarlathotep di Lovecraft, “il dio idiota che gorgoglia al centro dell’universo”);
– La percezione paranoide come protocollo di interpretazione dell’interazione tra individuale e collettivo, interiore e sociale (è, sotto certo riguardo, il nucleo paranoide interpretato come poetica del complotto da Pynchon o da DeLillo, almeno fino alla metà degli anni Novanta. Qui è dato dal racconto della doppia vita dell’omino Bialetti, pubblicità sullo schermo tv e serial killer fuori dallo schermo);
– La sovradeterminazione ironica: da un lato raggiunta attraverso lo straniamento linguistico, dall’altro ottenuta con la mimesi distorta di registri altri (per esempio, la cronaca giornalistica impazzita del ritrovamento degli undici bambini uccisi a Viggiù nel ’71);
– La profonda valenza politica del testo, con quel riferimento, al di là dell’anagrafe dell’icona pubblicitaria, al 1971: qui viene a sovrapporsi, agli usuali sguardi storici su un periodo tragico della storia italiana, un’altra specie di percezione, sia storica sia sovrastorica. Non è lo sguardo innocente nel senso emotivo che riconduce tutto l’evento al bene, al bel sentire. E’ invece, lo sguardo testimoniale, che include probabilità e assurdità, di chi è innocente perché agisce colpa ed esclusione dalla colpa, non avendo sperimentato alcuna morale eretta sulle categorie di male e bene. E’ la storia di un trauma, l’invenzione attraverso la distorsione del ricordo, la creazione di una forma di resistenza anarchica e creativa a fronte dell’inimmaginabile imporsi di una storia. Questa capacità di creazione totale (linguistica, immaginativa e strutturale) fa rivivere il trauma senza che evapori la storia stessa che l’ha prodotto. E’ il culmine della terapia storica.

Sono soltanto alcuni nuclei desumibili, con minimo esercizio di attenzione percettiva al testo, da un pezzo di La più grande balena morta della Lombardia. L’atteggiamento che Aldo Nove richiede al lettore è pressoché identico a quello che esige il poeta da chi si accosti ai suoi versi, a un suo testo. Però, qui, c’è qualcosa di più. C’è che Aldo Nove (e questa è la differenza che maggiormente salta all’occhio rispetto alla raccolta di racconti Woobinda) riesce a ottenere un’unità dei racconti. Attraverso una tramatura che si intuisce nel progredire della lettura, è molto chiaro che Aldo Nove riesce laddove certi bolsi critici non gli perdonavano di riuscire in precedenza: fa un romanzo.
Che cosa unisce un verso poetico al verso successivo? Come è possibile che il testo poetico, a un certo punto, tolleri e permetta di tollerare una sospensione totale, che ha il suo rappresentante sintattico nell’andare a capo? Come è possibile che la lingua, a un certo punto, si stoppi, si immerga nel bianco, e ne riesca successivamente, su un altro livello, mantenendo in un certo senso una corenza che non hanno, per esempio, le lettere che cadono dalla bocca dell’omino Bialetti? Qualcosa passa attraverso quel bianco dell’andare a capo. E cosa permette di sopportare lo stacco da scena a scena in un romanzo? Come avviene che sia naturale per un lettore l’abisso tra un capitolo e l’altro, l’interruzione di un racconto e la ripresa da un altro punto dello spaziotempo narrativo? Noi che leggiamo siamo disponibili ad attraversare quel silenzio e a ricongiungerci alla lingua quando essa decida, la riga o il capitolo dopo, di riemergere da quel nulla sensibile che sospende la lingua stessa. Questa capacità di attesa da parte nostra, questa nostra accettazione della suspence, fa perno su un’unità a priori, di senso e di lingua stessa, che è precisamente l’umano: l’unità dell’intenzione, di qualunque intenzione, anche la più diffranta ed esplosa, è l’unità dell’esperienza umana, la sua tollerabilità, la sua naturalezza. Unica esperienza che ci affratella allo scrittore. Questo è il perno dell’epica: un riconoscimento dell’altro in quanto è fratello, in quanto è umano, in quanto è uno di noi.
E’ per questo motivo che la configurazione del libro di Aldo Nove è epica. Sono storie orali, non semplicemente psicologiche, che nascono dall’appertenenza all’umano messa in relazione con la storia di almeno un decennio. La deflagrante potenza politica del racconto di Aldo Nove (di cui il pezzo su Toni Negri, orchizzato, mostruosizzato, fantasmizzato, è uno dei momenti più alti) si avverte nella capacità di rendere totale lo stupore di un uomo che guarda agli uomini, di un uomo che guarda al proprio tempo, ma dopo averlo vissuto. Ogni racconto de La più grande balena morta di Lombardia è, così, una tessera di un puzzle che non sarà mai completo né coerente, ma in cui tutto comunque si tiene. Non è il disegno corretto di un tempo che deve affiorare, bensì l’esperienza totale di uno sguardo lanciato su un tempo. Forzatamente, in questo senso, si avverte l’epica: che è sempre un assommarsi di storie, infinite storie dentro le storie, luminosi reperti orali che si fanno scritti, versioni strabiche del medesimo evento, voci molteplici che tracimano dall’unicità in cui tenta di recluderle la scrittura con opera disperatissima e sempre fallimentare. L’epica è, di fatto, all’origine e nel suo esito, ciò che esonda oltre la letteratura. L’epica annulla la letteratura, perché permette di compiere l’esperienza psichica che causa la letteratura, che viene prima della letteratura. La narrazione, nell’epica, è l’ultimo degli obbiettivi, poiché la digressione (o meglio: la retorica dell’uscire dalla letteratura) è l’occhio del ciclone a cui l’intera epica ruota attorno.
Nella filatura di molte storie a cui ha assistito un unico, sconfinato, stupitissimo sguardo, Aldo Nove va a tessere una nuova porzione dell’immensa tela epica a cui sta lavorando la letteratura italiana contemporanea, e che renderà il nostro tempo letteralmente memorabile, rammemorato.

Aldo Nove – La più grande balena morta della Lombardia – Einaudi – 12.50 euro 

***

Bella prova del Nove

di MARCO BELPOLITI | L’Espresso, 12.4.04

Rare sono le apparizioni dei romanzi d’infanzia nella nostra letteratura. Non dei romanzi che raccontano quell’età della vita, ma proprio dei racconti che usano le parole dell’infanzia per narrarla. La più grande balena morta della Lombardia è un libro sentimentale e insieme estremamente costruito. È uno di quei racconti che sembrano sgorgare dal cuore e al tempo stesso sono il risultato di un calibratissimo lavoro di cesello: spontaneità e artificio. Forse l’unico antecedente sono i libri di Gianni Celati, la trilogia degli anni Settanta, La banda dei sospiri, ovvero i libri che hanno fondato la letteratura giovanile in Italia, ma anche i racconti laconici dei Narratori delle pianure. Con La più grande balena morta della Lombardia è un po’ come se il cerchio si fosse chiuso, un’altra stagione dello sperimentalismo segna la sua fine, quella dei ‘cannibali’. Aldo Nove, autore di Puerto Plata Market, svela con questo libro di frammenti narrativi la sua vera natura di scrittore della sentimentalità, ovvero del sentimento che osserva se stesso, che riflette su di sé. Il libro di Nove è un caleidoscopio di racconti d’infanzia e di adolescenza, composto di tante piccole storie che hanno il loro baricentro a Viggiù, il paese lombardo in cui abita il piccolo Anto, alterego dell’autore. Sono storie malinconiche e ossessive, strane e ordinarie; storie che mostrano un terribile stato di angoscia, un incerto bilico d’ansia, in cui sembra vivere il protagonista. Sono piccole vicende fatte di niente, a volte poco più che elenchi o litanie personali, altre volte assurde o ridicole. Eppure ogni racconto aggiunge qualcosa di fondamentale e insieme di essenziale alla descrizione di quel microcosmo. Ma quello che conta è il modo con cui sono raccontate, il linguaggio usato, la punteggiatura (quasi assente), il fiato che hanno le frasi estratte da un parlato infantile ricostruito con raffinatezza (l’ampio uso della deissi: qui, ora, questo, quello). C’è spontaneità e insieme riflessione. Il linguaggio funziona come uno specchio attraverso cui il narratore riesce a dire il suo mondo, superando l’ostacolo del sentimento, trasformandolo, appunto, in sentimentalità. È come in certi racconti di malattie mentali: il malato parla di se stesso quasi fosse un altro. Lo fa usando il linguaggio come una superficie riflettente. Così è anche questo libro: racconta quella malattia da cui alcuni non riescono più a guarire: l’infanzia. Aldo Nove ha scritto un libro bellissimo e commovente.

Video: anticipazione da “Fine Impero”, il mio ‘liber niger’.

Giovedì 24 maggio, alle 18.30, presso il Centro artistico Alik Cavaliere(qui il sito) a Milano in via De Amicis 17 (qui la mappa), in collaborazione con NABA (Nuova Accademia Belle Arti – qui il sito), nell’àmbito della manifestazione“Parole immaginate” – reading d’autore e performance, organizzata da Alessandro Bertante e Margherita Palli, il sottoscritto ha affrontato, con il Bertante in persona, anticipazioni dal suo prossimo romanzoFINE IMPERO (annunciato per maggio da Einaudi Stile Libero) e le sue derive testuali collaterali.

Qui sotto, il video che è stato realizzato da un Anonimo Culturale con un device Nokia (voce e ritmo sono lievemente distorti): ringrazio profondamente il rersponsabile del documento filmato. Di seguito, quindi, uno stralcio di testo in anticipazione del misterioso “liber niger” del sottoscritto (qui invece altre occorrenze circa e da Fine Impero su questo sito).

“L’invidia allunga il laccio di malizia che tende alla gente e festeggia scandalizzando gli altri.”

L’invidia allunga il laccio di malizia che tende alla gente e festeggia scandalizzando gli altri.
La mente funziona in questo modo, il corpo inciampa su quel laccio.
Per colei e colui che hanno esaminato a questo modo la mente e il corpo, esiste la possibilità che avere perduto tutto o perdere tutto sia, se non un sollievo, l’approdo a una certa indifferenza verso il mondo.
Così pensavo mentre in taxi ondeggiavo con le donne che non smettevano di parlare, trasbordando al luogo delle sfilate. Vorticavano le loro chiacchiere cattive.
“Una perfezionista sa che può sempre migliorare”, “Quando arriva, a Parigi, urlano Voiçi l’italienne!”, “Quando compare nei backstage!”, “La stessa esclamazione che Coco Chanel utilizzava per Elsa Schiaparelli!”, “Ha rischiato di perdere il dono della voce”.
I doni sono trappole: rischiano infatti di essere goduti e quindi di esaurirsi, oppure di essere perduti e quindi nemmeno goduti. Sono attaccamenti che si esigono dalla vita.
“La televisione lo esige”.
C’era una vespa imprigionata al di qua del vetro del lunotto termico posteriore dentro il taxi. Il ronzio di quella vespa assunse le proporzioni di un strepito, ne avevo l’impressione. Un altro ronzio mi giungeva sempre più distante, le donne come vespe sembravano insistere battendo contro i vetri dei finestrini da di fuori.
Ero preoccupato, la nuca, il collo, la vespa, dietro, dove era?
Il taxista sedeva indifferente, guidava senza subire la distrazione.
Erede di glorie, inconsistente bambino di polvere, immortale inerme, insetto infinito.
Quale prerogativa ha l’ora umana?
[…]

Dall’incantamento mi riscosse la frenata dolce del taxi, in corrispondenza dell’entrata in un edificio cubico nero. Era il luogo della moda. Qui ha luogo la sfilata.
Festeggia scandalizzando gli altri.
Mi sollevo con il capo puntato verso lo zenit, i piedi al nadir, le anitre selvagge volano radenti le paludi etrusche, feci aruspicinii ascoltando lo schiocco delle viscere di un animale, forse una grande scolopendra, ne avevo l’impressione.

© Giuseppe Genna – Ogni pubblicazione priva di consenso dell’autore è da ritenersi illegale e passibile di denuncia.

Sul prossimo romanzo: l’icona vuota

Ho deciso di proporre all’Editore un romanzo che ha un soggetto certamente storico e puntuale nel senso della topicità assoluta: tale soggetto è detto comunemente essere un’icona e tale icona è per me un cattivo vuoto (un po’ come una volta, in tempi post-hegeliani, ancora si rievocava la “cattiva infinità”). E’ la storia di un parto in cui l’Occidente è attualmente immerso: due decenni ne figliano un terzo, svuotato da elementi tipici del fenomeno umano.
E’ dunque un’autentica icona quella su cui il romanzo farà perno? Certamente non nel senso in cui Pavel Florenskij affronta la profondità del tema iconico; diciamo, piuttosto, come parodia di quanto afferma Florenskij stesso in un celebre passo:

L’icona è un’immagine del mondo venturo; essa (e del come non ci occuperemo) consente di saltare sopra il tempo e di vedere, sia pure vacillanti le immagini – «come in enigmi nello specchio» – del mondo venturo. Queste immagini sono del tutto concrete e parlare dell’accidentalità di alcune delle loro parti significa assolutamente fraintenderne la natura simbolica. E perfino se si ammette che è accidentale questo o quel tipo di particolari, ciò non porta affatto a fare altrettanto con altri tipi di particolari…

Questa parodia intenderà risultare discreta rispetto alla questione metafisica che è quintessenziale a proposito della questione iconica. A tal fine suppongo di operare una mutazione stilistica rispetto alle ultime mie pubblicazioni (Italia De Profundis, Le teste, Assalto a un tempo devastato e vile 3.0), che sono libri dove l’idea di piana leggibilità è scartata, complicata e slogata intenzionalmente, tentando di giungere alla narrazione spalancando il perimetro del racconto. La piana leggibilità, desiderata dal mercato, è un protocollo stilistico che è essenzialmente lessicale e sintattico. Esso è mimetico rispetto allo slacciamento tra il fenomeno umano e il piano emotivo: un risultato storicamente conseguito nel ventennio di cui vorrei trattare, per condurre al presente occidentale odierno, che giudico extraemotivo o pseudoemotivo nella sua espressione di sentimenti. L’icona vuota altro non mi sembra che un’eiezione di questo processo: la lacrima che pare vera ed è finta, il perdurare nella memoria di cui non interessa a nessuno, la luce che non è tale. La rappresentazione di un simile vuoto è assai simile al mandarinato burattino di Alasdair Gray: è in diretto rapporto col potere e con l’idea stessa di storia, di rottura del legame storico, della pressione su una comunità resa anonima.

Risultati del Miserabile Sondaggio sull’editore ideale per il Miserabile Scrittore

A quasi 900 voti, si è creata una situazione di certezza matematica per i risultati del podio relativo al sondaggio (http://poll.pollcode.com/y7Q9) su quale ideale editore dovrebbe pubblicare i libri del Miserabile sottoscritto.
Secondo il 38% dei Miserabili Lettori che hanno partecipato al sondaggio, l’editore più qualificato presso cui pubblicare è minimum fax.
Con il 16%, a pari merito, Einaudi Stile Libero e la soluzione ibrida (per certi libri un editore di stazza, per altri libri un editore più piccolo).
Rivelo la mia preferenza (non ho partecipato al voto): è per la soluzione ibrida, che a questo punto dovrebbe essere minimum fax & Einaudi Stile Libero.
Comunico tutto ciò al mio agente Piergiorgio Nicolazzini. Non credo gli sarà utile in alcun modo, poiché trattasi di un gioco. Però è un dato, visto che ha votato circa il 10% dei lettori effettivi dei miei libri, a parte alcune eccezioni di titolo.
PS. Da questo sondaggio è stata esclusa una possibilità (oltre a certi errori: mancano Adelphi e altre sigle, per distrazione mia). Mi riferisco alla possibilità di un editore unicamente digitale, wired. Esclusa dal sondaggio, tale possibilità non lo è dal futuro prossimo. Anzi.

Si sta per chiudere il Miserabile Sondaggio sull’editore ideale per il Miserabile Scrittore!

E’ con allibimento che annuncio che, entro poche ore, se le votazioni proseguono al ritmo attuale, si chiuderà il sondaggio su quale sarebbe l’editore ideale per i libri scritti dal Miserabile Sottoscritto (http://poll.pollcode.com/y7Q9). E’ possibile votare una volta unica, a meno che non cambiate ip. Si è prossimi agli 800 voti, che sono davvero tanti. A 1.000 voti, il sondaggio si chiude e io trarrò qualche conclusione. Votate e fate votare. O, come si dice oggi: viralizzate. Tanto è un gioco. Qui sotto: l’elenco degli editori da votare.

Secondo te, quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore?
Einaudi
Einaudi Stile Libero
Guanda
Longanesi
Feltrinelli
Bompiani
Rizzoli
Marsilio
Baldini Castoldi Dalai
minimum fax
Un editore grosso per certi romanzi, un editore piccolo per altri
          
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Il Miserabile Sondaggio su ‘Pagina 3’ di Radio Rai3 (e si continua a votare)

Nicola Lagioia, uno dei due conduttori della trasmissione cultuale mattutina Pagina 3 (in onda su Rai Radio3; insieme a Lagioia conduce Elena Stancanelli), ha dedicato una parte della trasmissione al Miserabile Sondaggio e alle questioni che il gioco solleva: potete ascoltare cliccando qui e andando al minuto 23’55”.
Prosegue intanto il voto, che si chiuderà quando 1.000 persone avranno espresso il loro giudizio. Al momento il podio dell’editore idealmente Miserabile è così composto: minimum fax con quasi il 40%, l’opzione mista (certi romanzi con editore grande e altri con piccolo) ed Einaudi Stile Libero più indietro.
Qui sotto, la tabella per votare. Diffondete a lettori interessati, eventualmente!

Secondo te, quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore?
Einaudi
Einaudi Stile Libero
Guanda
Longanesi
Feltrinelli
Bompiani
Rizzoli
Marsilio
Baldini Castoldi Dalai
minimum fax
Un editore grosso per certi romanzi, un editore piccolo per altri
          
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Miserabile Sondaggio (che continua): intervista su Affaritaliani.it e ripresa su RadioRai

VOTA IL MISERABILE SONDAGGIO! QUAL E’ L’EDITORE IDEALE PER PUBBLICARE I LIBRI DEL MISERABILE SCRITTORE? Puoi scegliere qui: http://svel.to/ox

Dopo il pezzo su Affaritaliani.it e quello sul Corriere della Sera, Antonio Prudenzano, già autore di un pezzo circa il sondaggio con cui i Miserabili lettori stanno decidendo per gioco (si fa per dire…) l’editore ideale del Miserabile Scrittore, mi ha intervistato sempre su Affaritaliani.it (qui la versione integrale). Oggi ne ha parlato a RadioRai Nicola LaGioia, che conduce Pagina 3: domani, il podcast. Sotto la citazione, il Miserabile Sondaggio: in due giorni, 500 voti – a 1.000 ci si ferma. Votate, votate, votate.

Giuseppe Genna racconta il suo rapporto con Facebook ad Affaritaliani.it e parla del sondaggio che ha lanciato sul suo sito…
di ANTONIO PRUDENZANO
“In un momento di transizione, vista la fine del mio contratto con la Mondadori, ho sentito il bisogno di sapere cosa ne pensano i miei lettori. Ecco perché ho lanciato un sondaggio per chiedere loro qual è il mio editore ideale…”. Giuseppe Genna spiega ad Affaritaliani.it la sua ultima trovata ‘virtuale’, e racconta il suo rapporto con internet (cominciato già nel 1995) e con Facebook in particolare…

Secondo te, quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore?
Einaudi
Einaudi Stile Libero
Guanda
Longanesi
Feltrinelli
Bompiani
Rizzoli
Marsilio
Baldini Castoldi Dalai
minimum fax
Un editore grosso per certi romanzi, un editore piccolo per altri
          
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Sul Corriere della Sera: il Miserabile Sondaggio sull’editore ideale

Insieme ad Affaritaliani, il gioco del sondaggio editoriale sui libri del Miserabile Scrittore è finito anche sul Corriere della Sera. Sotto l’immagine del breve ma sigificativo articolo, il Miserabile Sondaggio, a cui siete tutt* invitat* a partecipare: smetto di proporlo quando si arriva ai 1.000 voti.

Secondo te, quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore?
Einaudi
Einaudi Stile Libero
Guanda
Longanesi
Feltrinelli
Bompiani
Rizzoli
Marsilio
Baldini Castoldi Dalai
minimum fax
Un editore grosso per certi romanzi, un editore piccolo per altri
          
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Su Affaritaliani.it: il Miserabile Sondaggio sull’editore ideale. Che va avanti

Non immaginavo che il sondaggio ludico per sapere dai Miserabili Lettori qual è l’editore ideale dei libri del Miserabile sottoscritto sortisse votazioni intense e sconcertanti. Anzitutto i numeri: chi conosce l’audience web sa che sono tanti, se vengono da un blog (un conto sono le visite di lettura, un conto le azioni che si compiono). Poi i risultati: ai Miserabili Lettori non frega nulla né dell’anticipo né dell’eventuale prestigio che un editore di grossa stazza può concedere ai libri del sottoscritto – il quale, secondo ben più che 1/3 dei votanti, ha il suo editore ideale in minimum fax. Qui sotto, replico il sondaggio, che è ancora aperto. Vi invito a votare. Finché non sono raggiunti le 1.000 preferenze, continuo a proporre questo sondaggio. Che, tra le altre cose, ha attirato l’attenzione della redazione di Affaritaliani, la quale gli ha dedicato un articolo.

Secondo te, quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore?
Einaudi
Einaudi Stile Libero
Guanda
Longanesi
Feltrinelli
Bompiani
Rizzoli
Marsilio
Baldini Castoldi Dalai
minimum fax
Un editore grosso per certi romanzi, un editore piccolo per altri
          
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Richiesta a sondaggio ai Miserabili Lettori: quale editore eventualmente per il Miserabile Scrittore?

Detto che non è affatto detto che i libri del sottoscritto interessino ad alcuno degli editori qui sotto elencati, avendo terminato il medesimo sottoscritto il suo contratto con Mondadori, si chiede ai Miserabili Lettori quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore. E’ un gioco, null’altro. Va tenuto presente che, dall’anno prossimo, torno in possesso di tutti i libri attualmente in Mondadori, tra cui Nel nome di Ishmael e gli altri thriller, che bisogna valutare se pubblicare presso collane economiche oppure sul Web.

Secondo te, quale sarebbe l’editore ideale per i libri del Miserabile Scrittore?
Einaudi
Einaudi Stile Libero
Guanda
Longanesi
Feltrinelli
Bompiani
Rizzoli
Marsilio
Baldini Castoldi Dalai
minimum fax
Un editore grosso per certi romanzi, un editore piccolo per altri
          
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Conversazione con Wu Ming 4: su Stella del mattino

stelladelmattino_wuming4.jpgLeggi la recensione a Stella del mattino
Parte di ciò che penso del romanzo “solista” di Wu Ming 4, Stella del mattino, è leggibile qui, dove cerco di dimostrare, secondo i canoni di uno scrittore e non di un critico, come questo libro faccia emergere elementi decisivi per la nostra letteratura contemporanea, e in particolare la fusione dell’elemento epico con quello psicologico attraverso l’allestimento di un’autentica tragedia, senza perdere in nulla la carica narrativa che permette di leggere in maniera piana e appassionante le sue pagine: o, come afferma Monica Mazzitelli, di divorarle.
A parte la mia personale interpretazione di Stella del mattino, ho chiesto a Wu Ming 4 la sua disponibilità a una discussione tra colleghi, più che a un’intervista. Disponibilità che WM4 ha concesso e di cui lo ringrazio. Questa chiacchierata si inscrive automaticamente nell’orizzonte delle interviste e degli interventi che l’autore di Stella del mattino ha rilasciato e pubblicato sul blog ufficiale del libro. (gg)

Uno dei primi nuclei fondanti (il primo pilastro della saggezza di Stella del mattino) mi sembra l’incontro tra Tolkien e il “goblin” Lawrence, che è descritto in maniera sorprendente perché chi ha recepito l’“icona Lawrence” non si attende una simile descrizione fisica. Siamo nella stanza degli anelli. Si discute degli anelli come emblema del potere e del patto, promessa di cui gli umani non sono sempre stati all’altezza. C’è una prefigurazione del Signore degli anelli, ma c’è anche qualcos’altro: una riflessione sulle cose materiali che, emblematizzate, si caricano di magia. Questa riflessione vale, mi pare, anche per le Storie e le parole stesse – cioè per tutta la letteratura. E’ una delle tue intenzioni? Stella del mattino è una riflessione sulla storia effettiva e sulle parole che la raccontano deviandone l’impossibile oggettività?
WM4: Sì, certo, è anche questo. I tre detective che nel romanzo indagano sul conto di Lawrence approdano a tre verità distinte, ovvero a tre versioni discordanti della sua storia. Graves lo vede come una specie di Che Guevara ante litteram, una figura ispiratrice. Lewis lo vede invece come un antieroe, un cacciaballe che si è inventato una fama e una reputazione per darla a bere al grande pubblico ed essere glorificato. Tolkien lo vede come una figura ambigua e tutto sommato patetica, schiacciata dalla propria stessa velleità romantica. Poi c’è lo stesso Lawrence, che scrivendo una versione epica della rivolta araba cerca di esaltare il proprio ruolo e quello degli arabi durante il conflitto, cioè usa la letteratura, le parole scritte, e la propria reputazione eroica, per influire sulla storia.
Questo ci dice che i racconti non sono tutti uguali e ogni particolare interpretazione dei fatti porta con sé delle conseguenze pratiche. Insomma, sì, una delle chiavi di lettura di Stella del mattino è senz’altro il rapporto tra fatto e racconto, tra “fare” e “mito”. Del resto proprio in una delle scene iniziali si assiste a una lezione universitaria del celebre grecista Gilbert Murray sull’incipit della Poetica di Aristotele, dove si parla di questo.
Precisamente: si traduce la parola greca poiesis con fare, ed è una traduzione letterale rivoluzionaria, a cui uno dei tre “investigatori” di Lawrence, cioè Lewis, reagisce non comprendendo che cosa abbia a che vedere la storia col racconto. Tuttavia Lewis subisce una trasformazione e, almeno per quanto ho compreso io, anche gli altri tre (Graves, Tolkien, lo stesso Lawrence). Stella del mattino include nella vocazione epica una forte componente emotiva ed esistenziale. I personaggi evolvono. E’ un libro fatto di psiche in movimento, di sguardi, in cui ognuno vede e interpreta l’altro e se stesso. Come hai lavorato alla fusione tra questo elemento esistenziale e gli schemi epici, che di solito riducono la psicologia a gesti simbolici?
WM4: Fin dall’inizio ho deciso di scrivere un romanzo in cui la maggior parte degli eventi si sarebbe svolta dentro la testa dei personaggi. Innanzi tutto perché i protagonisti sono uomini che hanno subito il trauma della guerra e della perdita e stanno cercando di elaborarlo. Scegliendo quei personaggi storici in quel particolare momento delle loro vite non poteva che essere così. Gli stessi flash-back di Lawrence in Arabia si presentano come degli squarci onirici, momenti proiettati sullo sfondo, che raccontano la sua impresa per tappe simboliche. Allo stesso tempo volevo riuscire a mettere ognuno dei protagonisti davanti a scelte esistenziali importanti e appassionanti, che in un modo o nell’altro avessero a che fare con la scrittura, con la narrazione. Quindi credo che Stella del mattino non sia tanto un romanzo epico in senso stretto, quanto piuttosto un romanzo sull’epica, che racconta quanto l’epica c’entri con la nostra vita. I protagonisti del romanzo ne erano profondamente convinti e tutta la loro produzione letteraria lo dimostra. In sostanza si è trattato di far collidere due piani, quello della chanson de geste con i suoi canoni eterni, appunto, e quello della coscienza moderna. Non dimentichiamoci che in quegli stessi anni James Joyce si apprestava a riscrivere l’Odissea spostandosi nella testa di un Ulisse contemporaneo. In più, i personaggi storici che ho usato come protagonisti del mio romanzo erano stati anche guerrieri, avevano vissuto la Grande Guerra sulla propria pelle, si erano addentrati nella tragedia cantata da Omero. Insomma si trovavano nella situazione particolare di essere protagonisti viventi e cantori di un evento epocale, il crollo delle grandi illusioni moderne. Una posizione scomoda e privilegiata allo stesso tempo, che a mio avviso ha determinato la grandezza indiscutibile di alcune delle cose che hanno scritto.
La fusione tra questi elementi biografici, storici, letterari, ha prodotto una narrazione di “psiche in movimento”, come la chiami tu, rendendo possibile che nella trama accadano piccole grandi cose in un’unità di tempo, luogo e azione apparentemente ristretta.
Il che non fa epica: sono le regole aristoteliche della tragedia classica. Nelle tue pagine dov’è il momento tragico? Te lo chiedo avanzando un’ipotesi da scrittore e non da critico. La tragedia rappresenta un’universalità umana e lo fa riuscendo a mantenere indistinguibili l’ambiguità e la realtà. Ognuno dei tuoi personaggi è ambiguo, nonostante abbia una traiettoria precisa nel romanzo. Lawrence, ovviamente, è il più ambiguo di tutti. Ciò fa di Stella del mattino un romanzo allegorico in senso molto alto, perché ciò che vale per il racconto vale anche per il passato, per il presente e per il futuro. Qui è in gioco una possibile totalità dell’umano, come mi sembra dimostrare Nancy, la moglie di Graves. Finora, nelle interviste rilasciate, hai dato una connotazione di Nancy che è esplicita nel romanzo: non è una moglie, è una donna. Secondo me è di più: è il polo femminile (Graves se ne occupò ne La Dea Bianca, edito in Italia da Adelphi). Sei d’accordo sull’idea di Stella del mattino come tragedia di nuova specie? E cosa davvero è il personaggio Nancy Graves?
WM4: Se la chiami Nancy Graves non le fai onore… lei ci teneva a mantenere il cognome da nubile, Nicholson. Ma andiamo per gradi, partiamo dall’elemento tragico.
E’ proprio l’unità aristotelica che fa di Stella del mattino un’opera “teatrale”. Non è un caso che nel 2006 il drammaturgo canadese Stephen Massicotte abbia messo in scena una piece teatrale tratta dalla stessa vicenda e che ha per protagonisti Lawrence, Graves e Nancy Nicholson (The Oxford Roof Climber’s Rebellion). Io l’ho scoperto mentre già stavo scrivendo il romanzo, ma la cosa mi ha aiutato a capire proprio questo. I protagonisti di Stella del mattino sono “dramaticae personae” e Oxford non è altro che un palcoscenico a vari gradi di profondità. Se provi ad analizzare i personaggi ti accorgi facilmente che sono tutti portatori di contraddizioni topiche.
Lawrence è l’eroe tragico per antonomasia, con l’aggiunta di una personalità moderna, conflittuale, problematica e la necessità di trasformarsi in cantore di se stesso, di sostenere il peso del ruolo senza averne il physique. In lui risuona la figura leggendaria di Beowulf, nella rilettura del personaggio che hanno dato Neil Gaiman e Roger Avary sceneggiando il film di Zemeckis tratto dal poema. Non è un caso che il campione dei Geati venga continuamente chiamato in causa tra le pagine del libro.
Tolkien secondo me rappresenta la fede sfidata dalla storia, è un cattolico che anela al quieto vivere, ma deve fare i conti con l’inconscio, con l’erompere di Psiche nella propria vita. Per lui i miti sono modelli etici e contengono un nucleo di verità, ma appunto dovrà essere capace di accettarne anche la dimensione “freudiana” o se si preferisce “campbelliana”, e ridurli a sé, al proprio particolare, per capire cosa deve fare, qual è la strada da percorrere.
Lewis è lo scettico razionalista, frazeriano, a sua volta soverchiato dall’irrazionale, dal rancore, dall’omoerotismo represso. E’ il personaggio più controverso, forse anche più dello stesso Lawrence, portatore di una rabbia profonda che va al di là del tradimento generazionale rappresentato dalla guerra. E’ la frustrazione di chi non vuole accettare un piano irrazionale dell’esistenza, di chi nega legittimità all’analisi del mito come psicoanalisi della civiltà. La sua è la spocchia tardo-illuminista, liberale, positivista. Quella che nega legittimità al marxismo e alla psicoanalisi perché li considera sistemi “chiusi”, autoreferenziali. Se non è un transfert quello che instaura con Lawrence allora non so cosa lo sia.
Robert Graves è il rivoluzionario romantico, per il quale i miti sono una risorsa vitale, perché ci raccontano un’altra versione del mondo, aprono lo specchio delle possibilità. I miti giacciono in un passato arcano e rimosso e devono essere scavati fuori come un tesoro antico e fatti riverberare sul presente, rideclinati senza nostalgie e tradizionalismi. Ecco perché non riesce a spingersi fino in fondo nella decostruzione dell’eroe e non accetta che tradisca le aspettative. E certo la sua ammirazione per Lawrence cozza pesantemente con il controcanto di Nancy, che a mio avviso è uno dei personaggi più importanti del romanzo, anche se rimane in seconda linea. Il femminismo di Nancy è (ed era) in buona parte velleitario e anacronistico, ma coglie le contraddizioni dei reduci senza sconti di sorta. Nancy è appunto il femminino che si insinua e rompe le uova nel paniere dei reduci guerrieri. E lo fa senza stucchevole saggezza, senza “maternalismo”, bensì con arroganza ideologica, con cattiveria. E tuttavia sarà in grado di ispirare un percorso determinante per la vita e la carriera di Robert Graves.
Se quindi in Stella del mattino c’è una briciola di universalità e di forza tragica ciò è dovuto proprio allo spessore delle personalità trattate e che ho cercato di riprodurre sulla pagina.
In un intervento del 2004, scrivevi: “Lawrence ha prodotto una delle teorie della guerriglia più originali di tutto il pensiero occidentale. Teoria che può essere nata solo da un’esperienza sul campo, a prescindere dall’importanza del ruolo storico dell’autore. Lawrence ipotizzò una guerra senza battaglie, senza spargimenti di sangue, basata sull’invisibilità e sulla negazione dei bersagli al nemico. Una guerra senza morti, senza disciplina, senza eserciti. Una guerra priva della dialettica della guerra. Non si accontentò di ribadire la differenza tra guerra regolare, fondata sull’idea di linea, da attaccare o difendere, e guerriglia, basata sulla discontinuità, sull’attraversamento delle linee per sabotarne il tracciato. Disse qualcos’altro: la vittoria, secondo lui, si doveva piuttosto a un’azione intellettiva che militare, a un cambiamento di prospettiva, che non impegnava la forza del nemico, ma la aggirava e la vanificava. Non si trattava di espugnare i capisaldi nevralgici tenuti dall’avversario, ma di modificare la strategia complessiva per renderli di secondaria importanza. Rifiutare lo scontro e spostarsi altrove, lasciando il nemico a difesa di un luogo divenuto inservibile. Incidere di continuo le vie di rifornimento per rendere l’apparato militare avversario sempre più oneroso da mantenere, fino al collasso”. Quanto ha a che vedere questa rivoluzione militare con una possibile rivoluzione narrativa? Mi sembra una perfetta descrizione di quanto sta accadendo oggi in Italia. E, in aggiunta, è per questo motivo che i momenti storici in cui Lawrence è protagonista hanno una forte carica onirica, cioè narrativa?
WM4: I flash-back “arabi” sono onirici perché vengono rivissuti ex post, dalla prospettiva di un altrove assoluto che è l’idillio accademico di Oxford. E’ stata una delle chiavi di volta del romanzo fin da quando l’ho concepito. Perché appunto non avevo intenzione di riscrivere la vicenda di Lawrence, l’hanno già fatto biografi di tutti i tipi, e c’è solo l’imbarazzo della scelta tra i saggi sulla guerra nel deserto.
Per quanto riguarda la teoria della guerriglia di Lawrence e le assonanze con quanto accade oggi nel panorama culturale italiano, il discorso è più complesso. Credo che mentre il Paese sprofonda, decade, marcisce, esista un pezzo di società che va in tutt’altra direzione. A questa parte sana va ascritta quella produzione letteraria che si muove verso un’assunzione di responsabilità narrativa (se mi passi il termine). Esistono romanzi che pretendono ancora di raccontare il mondo, di tenere alta l’attenzione del lettore, di scavare nel passato o nel presente per restituire alle narrazioni un afflato collettivo. La narrativa nasce rivolta alla collettività, è per questo che si pubblica, cioè si rende pubblico ciò che si scrive, perché si presume che altri possano rispecchiarsi in quello che scriviamo, che ne vengano coinvolti. Come dice Mario Tronti, la scrittura è sempre un corpo a corpo con la storia, oppure, aggiungo io, non è niente. Questo perché la storia è ciò in cui siamo immersi, è il luogo dove viviamo. Quindi, come dicevo, non è mai indifferente cosa si racconta e come lo si racconta.
Per venire a Lawrence, la considerazione potrebbe essere questa. La letteratura ha sempre avuto questa capacità magica di farci immedesimare in altre persone e viaggiare in altri luoghi, ovvero di farci uscire da noi stessi per vedere le cose con occhi diversi. Il sabotaggio dei segni dominanti passa attraverso storie che allargano gli orizzonti di senso e scavano gallerie sotto le macerie del Paese che ci crolla addosso. Essere altrove, per Lawrence come per noi, significa trovarsi là dove non si è attesi, scartare, battere nuove piste, con coraggio, riuscendo a fare in pochi il lavoro di molti. Prendere coscienza del proprio percorso condiviso senza bisogno di farsi compagine, lobby, mafia, esercito. E’ solo così che la parte sana del Paese può sperare di uscire dal pantano, conducendo una guerriglia culturale per “bande”, aprendo vie di fuga, creando prerequisiti di futuro possibile. In mezzo al caos calmo che ci circonda non ci sono rendite di posizione da mantenere, non se si conserva un briciolo di onestà intellettuale. Il deserto può essere attraversato, mappato, percorso in molte direzioni. Per parte loro, i narratori devono dimostrare, prima di tutto a se stessi, di essere in grado di farlo.
Parto dall’ultima asserzione, “i narratori devono dimostrare, prima di tutto a se stessi”. La domanda è scontata almeno quanto sono profonde le sue implicazioni. Dalle interviste che hai rilasciato, sappiamo che, anche nel caso di un libro “solista”, l’intervento del collettivo è importante. Tuttavia vorrei chiederti cosa significa scrivere da soli un intero romanzo, che cosa hai esperito di specifico nella stesura solista di Stella del mattino, al di là del fatto che, tra studi e condivisioni mentre il romanzo si fa, esso è sempre un’opera che presuppone collettività.
WM4: E’ evidente che in Stella del mattino si trova una riflessione sulla mitopoiesi che rispecchia il discorso sviluppato dal collettivo Wu Ming nell’arco di tutta la sua storia. In questo senso è stato detto che è il romanzo più collettivo tra i nostri romanzi solisti, perché affronta temi che ci coinvolgono tutti e non solo una particolare passione/ossessione del singolo. Per quanto riguarda le ricerche e la stesura, se si escludono uno scambio di mail con la figlia di Edmund Blunden e le lunghe discussioni con la mia compagna sulla trama, posso dire di aver dialogato essenzialmente con libri, film e documentari. Al lato pratico è stato un lavoro abbastanza solipsistico e questo mi è pesato, visto che non l’avevo mai fatto prima. Quindi è servito anche a dimostrare a me stesso che potevo scrivere un romanzo con un capo e una coda anche da solo. Questa è stata la prima cosa che ho esperito. La seconda cosa che ho scoperto è che scrivere da solo è molto più noioso che farlo in gruppo. La terza più che una scoperta è stata una conferma: senza un buon editing nessun testo riesce a esprimere il massimo delle proprie potenzialità. Il feed-back che ho ricevuto dal collettivo e dall’editore è stato essenziale per dare al romanzo la forma definitiva.
Detto questo c’è forse un discorso più ampio da fare sul rapporto tra i due modi di lavorare. E’ chiaro che la scrittura collettiva è sempre anche scrittura solista. Si scrive da soli e si rielabora in gruppo. Quello che cambia è invece nell’ideazione della trama e nello studio dei personaggi. Scrivendo da soli si ha l’opportunità di sentirli tutti quanti, uno a uno, di farne vibrare le voci, con una visione d’insieme assolutamente stringente, uniforme. E certo occorre fare uno sforzo per differenziare i timbri e imitarli tutti, dare a ciascun personaggio la propria voce/personalità. In questo senso scrivendo in gruppo si può contare su attitudini diverse, quindi si può osare di più, perché l’alchimia ricombinatoria a cinque – nel nostro caso – produce una gamma di soluzioni infinita. In questo modo però ci si espone sempre anche al rischio di sentire meno un personaggio, quindi di delegarne lo sviluppo ai meccanismi di svolgimento della trama. Questa cosa prima di scrivere Stella del mattino non mi era così chiara, come invece lo è adesso. Lo considero il quarto punto esperito dalla scrittura solista e vorrei farne tesoro per i futuri lavori collettivi. Come dire che se finora siamo stati pignoli con noi stessi, credo che dovremo imparare a essere intransigenti.

Wu Ming 4: Stella del mattino

stelladelmattino_wuming4.jpgLeggi la conversazione con Wu Ming 4 su Stella del mattino
Come promesso in sede di anticipazione del libro, qualche considerazione personale su Stella del Mattino, esordio “solista” di Wu Ming 4, uscito per i tipi Einaudi Stile Libero (euro 16.80 – qui acquistabile con sconto di 5 euro).
Chi voglia conoscere i termini generali della trama (che è una vicenda corale), può leggerne i tratti qui. Farò riferimento a personaggi che presumono una conoscenza superficiale della materia del libro.
Stella del Mattino presenta anzitutto un soprendente switch-point rispetto a quanto il romanzo storico ha fatto finora in Italia, nell’arco temporale che un collega di collettivo di Wu Ming 4, e cioè Wu Ming 1, ha esplicitato nel suo memorandum sul New Italian Epic, ormai entrato a pieno titolo tra gli elementi stabili dell’odierno dibattito serio sulla letteratura.
La particolarità del romanzo di WM4 è duplice. E’ sicuramente una narrazione multilivello: c’è il piano storico, c’è il piano della distorsione narrativa della vicenda storica, c’è il piano della meditazione su cosa sia la letteratura e c’è il livello più profondamente esistenziale, che è l’universale, il senso dell’essere al mondo, ciò che è morale e storico. Già a pagina 61 esiste un avviso che allerta: “Le parole dànno significato alle cose. Era quella la chiave. Servivano parole inaudite. Non bastava un eroe, serviva un poeta. Cosa sarebbe stato Achille senza Omero?”. La vocazione epica è dunque consapevole, ma non solo – è consapevolmente da rivivificare, come testimonia l’accenno alle “parole inaudite”, poiché Omero lo abbiamo già udito. Questa consapevolezza viene svolta da Wu Ming 4 con una realizzazione letteraria che rifà un gesto arcaico. Viene cioè messa in osmosi l’epica con quello che doveva essere il romanzo psicologico di formazione, tradizione che invece ha creato un proprio spettro, esaurito il compito di creare l’immaginario e il mondo interiore della borghesia occidentale a inizio Novecento. Stella del mattino realizza dunque un doppio passo, come il dribbling che era tipico di Zidane: da un lato c’è l’intera tradizione a cui attingere (dall’epica fino al romanzo psicologico), e dall’altro c’è da creare una forma che, tenendo presente quella tradizione, emetta “parole inaudite”, fornisca gli elementi leggendari di una resurrezione del corpo di gloria del romanzo. Questo tentativo è pienamente riuscito, il che colloca il libro di Wu Ming 4 tra i più importanti del decennio, in una schiera che è ormai ben nutrita.
Come è stato già sottolineato altrove, la consapevolezza di quanto l’autore attua in Stella del mattino è data da una scena interessante: nel corso di una lezione sulla Poetica di Aristotele, il celebre passo sull’essenza e la funzione della poesia viene tradotto in maniera letterale, spostando tutto il significato del brano, per cui poiesis diviene fare – cioè creare artisticamente ma anche artigianalmente, e soprattutto agire, ottenere degli effetti (anche l’illusionista ottiene degli effetti, sia chiaro). E’ nella Poetica che Aristotele osserva come la tragedia derivi dall’epica, ed è sempre nella Poetica che enuncia le regole della tragedia classica, le celeberrime unità di azione, tempo e luogo. Stella del mattino rispetta tali regole: tutto si svolge a Oxford, in un arco temporale definito. Ovviamente non tutto: per fare sentire queste unità, bisogna violarle parzialmente. Ecco che dunque partono alcune diversioni significative: scene emblematiche della misteriosa vicenda di Lawrence in Arabia, che gli è valsa la fama di eroe. Queste scene sono caricate, conservando un’appassionante leggibilità, di potenza onirica, cioè di valore narrativo allo stato puro. E il passaggio tra un capitolo e l’altro, ognuno dei quali ha un protagonista, mette in risalto il fatto che siamo in un cerchio di sguardi e di un numero limitato di personaggi (Lawrence, Graves, Tolkien, Lewis; sotto cui scorre, vena carsica narrativa che unisce e ribalta ogni volta le posizioni acclarate e cristallizzate, quell’incarnazione del femminino, che sintetizza sconvolgendo l’ordine delle cose, che è Nancy, la consorte di Graves: non una moglie, ma una donna, come sottolinea di continuo WM4, quasi usando un omerismo – ma, di ciò, più avanti). Riassumendo: ciò che appare psicologico in questo romanzo dove tutto si gioca sul ricordo e sulla percezione (che cos’è Lawrence per ognuno dei tre giovani scrittori e cosa sia Lawrence per se stesso, di fronte al coro immane del “pubblico planetario” verso cui è stata proiettata ad arte la sua icona), lo psicologico non è in realtà mutuato dal romanzo borghese, ma direttamente dalla tragedia classica, ed è per questo motivo che ci troviamo di fronte a esemplarità psichiche, esattamente come in Eschilo o in Sofocle. Ciò permette, proprio in linea con Aristotele, di connettere la psicologia all’andamento epico, elemento quest’ultimo che è indiscutibile (il mentore di Lawrence, iniziandolo a un viaggio in Medio oriente, conclude il capitolo con una battuta pesante: “Sorga un cavaliere!”). La psicologia tragica è un’evoluzione, uno sviluppo della piscologia bidimensionale e universale che ha luogo nell’epica. Il gesto psichico di Achille sul cadavere di Patroclo figlia direttamente le reazioni psichiche di Antigone, che fanno la tragedia. Lo sviluppo di questa psicologia avviene in estensione, ma viene mantenuta la profondità, che l’introspezione novecentesca farà evaporare, tranne che nella linea junghiana, la quale tiene presente la comunanza di un patrimonio archetipico a cui tutti noi umani attingiamo.
Stella del mattino è un’epica contemporanea condotta secondo apparenti canoni di romanzo storico, ma è anche una tragedia contemporanea che usa la storia come allegoria universale. Prima di individuare il nucleo tragico del romanzo, sarà utile ravvedere l’utilizzo di questa profonda allegoria in termini di personaggi, azioni e reazioni che accadono in quel cerchio magico che è Oxford dopo la Prima guerra mondiale.
Vorrei evidenziare qui alcuni punti:
– Ogni personaggio percepisce Lawrence in maniera diversa, a seconda di proprie declinazioni temperamentali. Lawrence diviene in pratica un contenitore proiettivo, che però è tale perché fornisce agganci storici e personali nel rapporto con ognuno dei tre personaggi maschili in questione (appunto Tolkien, Graves e Lewis). Tuttavia, qualcosa accomuna i tre personaggi e loro stessi a Lawrence: sono tutti reduci di guerra. Sono tutti traumatizzati, a vario modo, dalla condizione transitoria che hanno esperito e che vorrebbero dimenticare e recuperare al tempo stesso – cioè la condizione di guerrieri. Non basta. Ognuno di loro non ha padre: il padre è una figura svilita, disturbante, assente. Non sono aduso all’utilizzo di stilemi interpretativi di ordine psicanalitico, ma non trovo una metafora migliore per dirlo: è come se il complesso d’Edipo qui avvenisse in base a un formidabile spostamento di Laio, che è una autentica sostituzione – essendo Laio non più il vero padre, bensì la realtà di guerra e anche la realtà che segue dopo la fine della guerra. Ciò unisce i personaggi in una battaglia postuma e anticipatoria del futuro, e in molti casi rievoca un’altra situazione tragica, questa volta moderna, che è quella di Amleto di fronte allo spettro paterno. Lawrence, di volta in volta, assume i contorni di questo spettro gigantesco, in cui ogni possibilità è inclusa e dal cui riflesso proiettivo spesso nascono le azioni, che sembrano reazioni. Del resto, Lawrence è l’unico maschio dei quattro a non essere padre o a non svolgerne di fatto le funzioni (Lewis non è padre, ma è come se lo fosse, per una sua particolare situazione sentimentale).
– Allestendo questa scena tragica collettiva, che è retta da uno shangai di sguardi in progressione per tutto il libro, Stella del mattino allestisce una mappatura delle funzioni mentali tutte. Ogni personaggio è ciò che lo psicoanalista Franco Fornari (dopo Musatti, l’autentico genio della psicoanalisi italiana) chiamava “coinemi”: pattern interni che compongono una scena intima, variabile individualmente eppure sempreuguale, di ciò che viene definito “famiglia interna”. Il rapporto tra le competenze della mente (emblematizzata da questa comunità di personaggi tragici) e la realtà è di fatto tutto il libro.
– Sotto questa particolare lente di lettura, emerge gigantesca la figura di Nancy, che da sola incarna la componente femminile, la quale si riverbera nella femmineità di certi atteggiamenti maschili, e non nel senso di un’omosessualità latente: è precisamente la femmineità amletica. Nancy è, insieme a Lawrence il vero polo che fa la tragedia di Stella del mattino: la scena del loro incontro è semplicemente agghiacciante dal punto di vista emotivo. Nancy è un personaggio a tutto tondo, che allegorizza l’emancipazione femminile, anticipandola anche nel fallimento, ma è pure la figura musaica che il suo stesso consorte, anni avanti, fenomenologizzerà nel suo prodigioso saggio di antropologia mitico-letteraria, La Dea Bianca. Non si prescinde mai dalla potenza dello sguardo, che pare giudicante, di Nancy. Il radicamento di lei nelle cose e nel giudizio è il controcanto polarmente opposto al tremolio di Lawrence, un uomo che cerca se stesso, che non sa se automitizzarsi o meno, che comunque vuole sfuggire alla mitizzazione concresciutagli addosso dall’esterno come una falsa identità. Ma, soprattutto, Lawrence è un uomo che ha un atteggiamento ambiguo e conflittuale con la madre, così come l’ha con il fantasma della donna amata che doveva sostituire la madre e riparare le storture di un rapporto scaduto – e che è morta. Nancy è madre, ma non è semplicemente moglie. Nancy giganteggia anche in assenza. Nancy è la salvatrice essendo l’affossatrice, colei che conserva la vita ribaltando l’ordine dei saperi e delle conclamate certezze. La punta più avanzata dell’allegoria-Nancy è Gaia: il femminile che può salvare il pianeta devastato dal conflitto, dal trauma di una battaglia che sembra non avere fine. Nancy si spinge oltre il nostro futuro.
– Lawrence, infine, è l’attività di percezione del “se stesso”. Ogni volta che ragiona su se stesso ed è prigioniero della propria storia, tentenna, perché non sa in quale direzione e con quale struttura raccontare questa storia e principalmente raccontarsela. In questo, Lawrence è l’identità psicologica che si trova davanti alla sbalorditiva attività della coscienza, che non è psicologica. Lawrence emblematizza, tra le molte cose (la lettura che sto fornendo è assai parziale rispetto ai moltissimi elementi del libro), il tremolio dell'”io” davanti alla domanda “chi sono io?”. I momenti di svolta in cui Lawrence manifesta mutamenti pratici, effettivi, incisivi nel suo presente sono sempre spettacolari colpi di scena: provengono da una sua assenza, anche fisica, rispetto alla scena di Oxford. Inoltre, Lawrence è ricordato o ricorda secondo canoni onirici. Lawrence stesso allegorizza la totalità degli stati di coscienza dell’umano: la veglia (cioè il rapporto con la sua storia, la sua identità, con l’azione da compiersi), il sogno (la narrazione di squarci di ciò che è successo nel corso della guerra contro i Turchi) e il sonno profondo senza sogni (la zona buia dove Lawrence non c’è e da dove emerge di colpo in veglia, con soluzioni e decisioni già assunte e realizzate o da realizzarsi assolutamente).
E’ alla luce di questi elementi che è possibile osservare in quale senso Stella del mattino rinnova il tragico: il nucleo tragico del libro è l’ambiguità. Il “sì” e il “no” sono dati contemporaneamente. I cieli sono muti o, se parlano, parlano con il proprio emblema più ambiguo, cioè la “stella del mattino”, vale a dire Lucifero, l’apportatore di luce che è però consolidatamente la scimmia del divino. In questo ring tragico, è data ogni possibilità di divenire (questo romanzo potrebbe prendere qualunque direzione, in primis quello di saga infinita), poiché la tragedia è questo: ispira aristotelicamente il timore di spezzare la propria identità e la pietà naturale che coagula ogni comunità, poiché ognuno sulla scena è legato allo sguardo dell’altro e questo rimanda alla totalità delle possibili azioni da compiersi. Mi riconnetto alla recensione di Monica Mazzitelli, che traduce ciò che io chiamo “ambiguità” con il superamento dei generi, sessuali e letterari.
E, come ogni tragedia, Stella del mattino presenta elementi che nutrono una riflessione sotterranea circa il potere delle Storie e della narrazione. Dalle tattiche di guerra e guerriglia rivoluzionate da Lawrence alla sua incertezza sul racconto della propria storia, dalla germinazione delle fantasie letterarie di Tolkien, Graves e Lewis, fino alle prodigiose traduzioni rifatte da WM4 delle poesie citate (in particolare, l’exergo dei Sette pilastri), questo è un libro che costituisce una potente meditazione circa il potere delle parole, circa a relazione tra la lingua delle Storie e la storia (cioè la realtà), circa la tradizione che il Novecento ha cercato di non vedere (quella fantastica), circa l’emanazione politica e cioè comunitaria che irradiano le parole stesse. Tutto ciò è meticolosamente non occultato, ma reso istantaneo al racconto, in modo che è assolutamente impossibile leggere questo romanzo come un testo di metalivello letterario: qui il racconto stesso è automaticamente e senza sforzo meditazione sulla letteratura. Nessun francesismo, nessuna zavorra teoretica.
Tutto ciò conduce immancabilmente a una guerra e questa battaglia da Armageddon è il confronto tra la letteratura e lo Spettacolo modernamente inteso. Il conflitto tra Lawrence, che al tempo stesso è guerriero e icona mediatizzata (forse la prima della storia moderna spettacolare) e scrittore, incarna questa battaglia per una riscrittura del mito, per una riappropriazione del mito stesso quale variabile centrale ma apertissima (cioè positivamente ambigua) della comunità. E’ l’enunciazione del fondamento aristotelico dell’uomo come animale sociale, che è tale in quanto animale mitico, capace di mitologia.
Leggere Stella del mattino espone a un magnetismo bennoto ai lettori: non si può fare a meno di voltare pagina. Non ci si riesce a sottrarre dal leggere il capitolo che segue a quello che si è appena terminato. E’ qualcosa di più potente dell’effetto che producono certi serial televisivi, come 24: una puntata via l’altra, la necessità di vedere tutto nel minor tempo possibile. Solo che nel romanzo di Wu Ming 4 non è la suspence a imporre questo magnetismo o, se lo è, è una suspence particolare, assai simile a quella di certo King o di certo Lovecraft, che sono riferimenti letterari del tutto esogeni al libro in questione. Che si consiglia di leggere avidamente, in un tempo in cui la stella del mattino non si vede in cielo, a causa delle emissioni inquinanti industriali e mentali dell’uomo occidentale, che in questo romanzo epico e tragico ha un ritratto esaustivo, totale.