Dal e del capolavoro di Babsi Jones

Lo ho già detto, scritto, ripetutamente urlato nei modi enfatici che le retoriche mi consentono, in questo tempo che ha reso ogni retorica un bicchiere di cartonplastica per cocacola al cinema: Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones [qui la sommaria descrizione di ciò che racconterebbe il libro e qui qui l’intervento su Carmilla dello scomparso Sbancor, a cui questo sito è dedicato] è per me uno dei libri di letteratura italiana più belli negli ultimi venti anni, tra i più veri e intensi, tra i più formalmente all’avanguardia, veicolatore di verità povere e vuote, offerte come un cibo consunto e scaduto a profughi ormai privi dei recettori per provare amore e odio, avendo provato tutto e troppo. L’assenza improvvisa, eppure comprensibile, che Babsi Jones ha imposto alla comunità (?) editoriale, ma anche ai propri amici, è indifferentemente uno j’accuse che ha indeterminato il complemento oggetto: che sia nous o vous o moi, fatto sta che si tratta di un rifiuto dello spettacolo, il che è lo stesso che il commercio generalizzato. Sappiano le mie parole di sangue, in forma digitale, dovrebbe essere pronto da fare girare ovunque, poiché l’editoria che, una volta, e a torto, si sarebbe detta tradizionale non ha fatto nulla per dare risalto all’unico lembo di verità che resta da offrire agli scrittori autentici: la preghiera per la pietà, la visione completa e mai conclusa dell’umano fenomeno. In ciò, e va detto poiché le cose vanno dette interamente, l’editore Rizzoli vanta colpe notevolissime nei confronti dell’autrice, del libro, dei lettori potenziali, di quelli effettivi e insultati con una copertina di una volgarità che richiederebbe il pogrom dell’estetica marchettara: l’idea della figa per vendere l’autentica letteratura, la morbosità e il maledettismo patinato per fingere Christiane F. e lo zoo di via Mecenate. Le vicende editoriali che hanno accompagnato premesse ed esiti di questa abbacinante folgorazione a nome Babsi Jones: io le ho viste e vissute, saranno raccontate per la loro vergognosa esemplarità di anni che, non si creda altrimenti, hanno iscritti i nomi dei responsabili nella fronte meditabonda dell’intelligenza che dura.
Ecco parte di un capitolo di Sappiano le mie parole di sangue:

Sabato. Tempo reale, notturno.
Una stanza piu piccola del condominio Yu Prog, Mitrovica Nord.
Oggetto: Ogni volta che tocco il fondo

Tutte le volte che tocco il fondo, Direttore, tutte le notti di cui tocco il fondo, scopro che c’è una crosta rugosa, sotto la quale si muove qualcosa di primordiale e repellente. Io gratto, indecisa se rompere la crosta e affondarvici, o strisciare per risalire ed evitarla: ogni notte, qui, mi e sembrata un pozzo in cui non potevo non precipitare.
A ogni caduta mi accorgo che non risalgo mai intera. Qualcosa viene trattenuto dal fondale, pago un pedaggio; qualcosa viene fagocitato e risucchiato. Si puo morire così: una notte alla volta, convinti di essere forti a sufficienza per risalire lungo le pareti del buco, verso lo spiraglio dell’alba.
Se avessi un vero specchio, in questa notturna arrampicata, mi vedrei: una catastrofe aggrumata in un corpo umano, una cosa disgraziata e ottusa.
Un’infelice che riemerge con le unghie unte di morchia e pretende, davanti al sole tiepido dell’inverno, di trovare una buona ragione, la sua impossibile ragione.

Basta una notte, per prendere misure precise alla paura, per acquisire la cognizione del terrore. Il presentimento del male che ti consumera, del rasoio che ti ferirà a morte, dell’insetto immondo che risalirà i tuoi polpacci, della ragnatela serica che ti imprigionerà i capelli. Il presentimento asfissiante della grandine che schianterà le finestre colpendoti, del terremoto che scartoccerà il suolo lasciandoti sospesa sul baratro. Presentimento: perché nulla di tutto questo accade, Direttore. Sarà soltanto buio pesto riempito da rumori vaghi: qualcosa che stride, qualcosa che ronza, qualcosa che sgocciola, qualcosa che sciaborda, che ticchetta, che spinge, che gratta il muro, che sopra il muro lascia impronte impercettibili, qualcosa che si strappa come carta velina. Rumori; il resto non è che la paura, la mia, amplificata.
Sono tornata in solitudine, nel condominio. E’ sabato. Ultima notte, conto alla rovescia. Poteva andare peggio. Potevano sottrarmi carta e matita e queste sigarette: per cui ho pagato cifre spropositate, per cui ho rubato, mercanteggiato, supplicato soldati e sacerdoti.

(Una mattina, riverso sulle scale, un uomo giovane, disarticolato: una fucilata lo aveva colto in pieno petto. Nella tasca interna del giubbotto, zuppo di sangue fresco, cento o piu sigarette avvolte in un tubo di carta ruvida, come può capitare che le forniscano ai mercenari di trincea. Riempite da un tabacco così amaro da darmi l’impressione di star aspirando vapori di cianuro. Erano intrise di siero insanguinato: gliele ho sottratte. Sono asciugate lentamente, appiccicandosi l’un l’altra. Ho durato fatica a separarle, badando di non rovinarle. Ad accenderle, si risentiva il sapore terreo di quel costato perforato dai proiettili. La sua emorragia fatale, sul filtro stretto fra le mie labbra sporche.)

Ho già avuto paura, Direttore. Ne ho già avuta così tanta e così a lungo.
Ho gia analizzato la paura in tutte le sue declinazioni.
Le sette fotografie che avrei potuto scattare con la digitale che mi hai regalato, condannate a essere descritte: gli scarafaggi, capaci di riprodursi fino a quattrocento volte in un anno, depositando larve nelle fessure; gli scarafaggi che erediteranno la terra, poiché capaci di uscire indenni da un’esplosione atomica; la peste, coi suoi deliri febbrili e i suoi suppuranti bubboni; gli irsuti aracnidi tropicali che possiedono otto sguardi e sei zampe, simili ad artigli; il cancro, che riproduce pazzoidi cellule e divora i tessuti molli, e le ossa; la carestia e il razionamento; il fuoco che incendia e riduce in cenere; i rimorsi.
Ho imparato a sedare queste paure deglutendo o iniettandomi farmaci capaci di ottundere, di ovattare le percezioni. Con essi ho spento ogni emozione: l’indignazione, l’innamoramento, lo stupore, la pietà. Forse, soltanto l’odio è immutato: ha una struttura razionale, l’odio, ha attinenza con la contrarietà, l’intolleranza, l’opposizione. Con la vendetta. I sentimenti sfumano, si sciolgono le impressioni. L’odio e semplice e puro come lo e l’acciaio al tungsteno. Io odio questi nuovi uomini, tronfi di illusioni barbare, che attendono il sorgere del sole per venire a vincere.

Fine dell’ultima notte. Avrei voluto un padre, un angelo custode, un guerrigliero in veglia al mio capezzale; invece, mentre le donne dormono altrove, a questo appuntamento con la fine io vado sola. Ho scritto tanto, Direttore, che la mia pelle ormai è carta. Ho inchiostro nelle vene, emboli di grafite. Immaginavo tutto diversamente. Mi immaginavo forte e non lo sono. Mi immaginavo calma e invece trattengo l’urlo nella bocca, che la riempie fino a soffocarmi: un urlo di pane molle, di pasta lievitata, di argilla che indurisce. Mi immaginavo, lo sai, già morta mille volte: invece il mio respiro regge e tiene il tempo.
Domenica. Sono viva. E’ domenica e io sono viva.
Mi immaginavo piena, e sono svuotata: ogni parola, anche la più banale, mi rimbomba dentro, si accomoda; c’e spazio per smarrirsi. Una maldestra profezia mi ha segnata, Direttore: non ho vissuto in questo pogrom, ho scritto; ho pianto avverbi, ho masticato punti e virgole. E ogni giorno, con l’illusione di cambiare qualcosa, qualsiasi cosa, ho afferrato una matita e ho scritto:

In questa stanza, Direttore…

Audiofile – Babsi Jones da “Mercoledì delle ceneri” di Eliot: ‘La parola perduta’

Di Babsi Jones [in posa autentica qui a destra], tra i migliori artisti della parola, ho detto qui e qui e altrove.
L’interpretazione del brano dalla celebre poesia di T.S. Eliot va contestualizzato all’interno dell’immane iniziativa multimediale che Babsi Jones allestì e pubblicò su Web, facendo esplodere Sappiano le mie parole di sangue (Rizzoli), il suo quasiromanzo.
Sotto il link per ascoltare la voce recitante di Babsi Jones, il testo eliotiano.

Il file audio: LA PAROLA PERDUTA – Babsi Jones da Mercoledì delle ceneri di Eliot [1.2M, file ram]

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Babsi Jones: da SAPPIANO LE MIE PAROLE DI SANGUE

babsi_jones_bn_dxHo una personale convinzione, che ho deciso di esporre reiteratamente e indifferentemente dalle reazioni dei frequentatori di questo sito. La convinzione concerne Babsi Jones, di cui già ho trattato qui. La convinzione è la seguente: si tratta del massimo scrittore italiano contemporaneo. Ciò sia detto senza alcuna implicazione nei confronti dei colleghi che maggiormente stimo e che sanno benissimo in quale senso io compio l’affermazione intorno a Babsi Jones.
Il quasi-romanzo Sappiano le mie parole di sangue è un grido di amore, odio, innocenza e colpa, un vortice di umanesimo totale, un’esplorazione di stile e poetiche e strutture e sguardi che, a me, a tutt’oggi lascia attonito.
Poiché è impossibile e ingiusto salvaguardare l’oscena presenza spettacolare (anche microspettacolare) del cosiddetto autore (sia declinato in genere neutro, questo abominevole sostantivo), è sul testo che io lettore spettacolare posso intervenire. E voglio intervenire. Senza alcuna enfasi o ermeneutica, perché questo testo non ne necessita un grammo, né di enfasi né di ermeneutica. E’ per me l’oggetto narrativo che più mi ha spostato in questo decennio; è la scrittura che più mi ha abbattuto perché mi ha reso invidioso e mi ha fatto sentire incapace di raggiungere livelli di lingua e sguardo di questa intensità; è il libro più politico che incontro da quando l’ho fatta finita con la filosofia; è la prosa indistinta dalla poesia e, in quanto tale, è un coacervo di storie che si intrecciano come trame di un canto (textum, appunto), e dunque è il trapassato remoto e il futuro remoto della letteratura.
Propongo un brano iniziale da Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones, edito in maniera sciagurata da Rizzoli – questione di non poco conto, quell’avverbio, nell’economia esistenziale della persona che da fuori hanno creduto coincidere con l’autore. Qui non siamo al male della letteratura: siamo al male della lettura. Mi auguro che sia buona, per quanto segue.

BABSI JONES
da SAPPIANO LE MIE PAROLE DI SANGUE (Rizzoli)

slmpds_coverPer i vivi, per i morti

Per i vivi, per i morti. Per i vivi verso il cielo, per i morti sottoterra. Vivi e morti oggi sono restati senza luce: dalle chiese ho trafugato le candele, che sciogliendosi ci lasciano sui tavoli corte scie da lumache, e bruciando si curvano. Sono andata io a prenderle; mi hanno indicato il sagrato, mi hanno lasciata da sola. Non conviene più intrupparsi coi cristiani, perché il nome di Allah si è composto e si è imposto come maggioritario: i vincenti hanno un dio differente.
Quegli stecchi di sego, li ho presi a casaccio da dov’erano conficcati: c’è ancora qualcuno che osa, di soppiatto e di notte, e ne accende, nelle nicchie bislunghe scavate nel muro. Grassi rivoli di cera sono colati fuori dagli anfratti di pietra: sono smunti come dita tranciate. Per i vivi e per i morti: su livelli diversi e distinti, nell’attesa che il cerchio dell’assedio e del pogrom si rompa e ci mostri quanto sopravvissuti e cadaveri in realtà si somiglino.
Nella kafana si attende: io di restare, tutti loro di andarsene. Prima l’acqua (i rubinetti seccati, Direttore, e un gran tanfo di sudore, di mestruo e di merda), quindi ci hanno tagliato la luce. Il popolo dei caduti in battaglia e in errore conta i giorni che mancano alla fine dello stato di guerriglia: qui comincia lo stato di fuga. Si organizzano in questa taverna che sembra una stalla, e non promette neanche celestiali consolanti Madonne, né comete con codazzo di Re Magi eleganti. Non c’è oro, incenso né mirra: solo cloridrato di morfina e DF118 che nascondo nello zaino, e coperte di lana pulciosa sul bancone. I soldati dell’ONU fanno ingresso per strillare in tre idiomi imperfetti un appello di viventi lì lì per morire o svanire: censimento dei perdenti migranti. É la fine, e alla fine si scappa: sui trattori, a piedi e in branco, nuove tenie nel colon
d’Europa. Si abbandonano trapunte e centrini di pizzo, lo scopino del cesso, e tovaglie, e lenzuola, cassettiere, scarpiere, stendipanni e sussidiari di figli rachitici.

/ s u s s i d i a r i

Crepa, visto che non puoi fare altro. Muori consumandoti da dentro, sfaldati,
lasciati colare in pozze di umori densi e secrezioni, crepa senza che io a assista a
questo scempio, senza le mie parole a stendere la cronaca del tuo mistero
grossolano, della banalità del tuo male. Crepa, fallo da solo così come è previsto
per tutti e per ognuno: io non proseguo oltre.
Questo gli avrei urlato, perché lo odiavo: nel suo cancro c’era il disordine del
caso, l’assenza di struttura che mi sfinisce da quando ho una ragione; che cosa
accade: niente, soltanto crepa, si spegne come succede alle candele, alle falene,
sfiorisce come i fiori dentro i vasi, con l’acqua che ristagna e quel lezzo di distacco,
di disincanto e camposanto; muore disilluso e senza sacramenti, privo di intuizioni,
di verità, di senso: come tutti, con la pretesa di aver vissuto quanto basta, con la
pretesa che io resti lì a guardare.
Non gli ho lasciato neppure una parola: sapeva che partivo per la guerra. Non
gli ho lasciato libri e non ne ho scritti: soltanto il sussidiario, che ha tenuto in
serbo trattandolo come si tratta una reliquia.
Io sono nata in una casa senza libri, e in quella casa lui docilmente muore. Io
sono nata il giorno di capodanno, al terzo piano di una casa popolare: c’era l’odore
solido del DDT, c’era, al secondo piano, quello di minestra di verdure in cui
abbondano sedano e cipolle, e al primo di naftalina e mandorle. Io sono nata in un
bilocale freddo: i caloriferi a venire; gli eritemi di muffa sulle pareti, vicino agli
stipiti di porte e di finestre perennemente chiuse.
Nelle due stanze c’erano i quadretti caserecci che lui, un fattorino, dipingeva
sui rettangoli di cartone ricavati dalle scatole di scarpe. Aveva ricalcato le
illustrazioni di Intimità per la Famiglia: il settimanale che mia madre sfogliava per
contemplare gli abiti alla moda, e solo per guardare: perché era analfabeta.
Lui muore in quella casa: coi muri rigati dai pochi mobili, spesso in movimento.
Senza scaffali, come quando sono venuta al mondo, perché non si sarebbe trovato
nulla con cui riempirli: mio padre non ha mai letto libri, io non ne ho scritti. Il
primo che ha fatto ingresso nell’appartamento è stato un sussidiario: il mio, di cui
ricordo solo la sopraccoperta cavata fuori da una busta del supermercato. Il primo
libro e l’ultimo. Adesso è suo. Mentre agonizza, prova a faticare per leggere
qualche /

Le strade hanno già nuovi nomi, nuovi busti di eroi le segmentano. Si scappa, aggrappati a decine di pacchi legati con lo spago che taglia le dita. I nonni trascinati per la manica, lavatrici, fornelli e le ruote di scorta caricati sui carri, si scappa; dalle Notti dei Cristalli di Mitrovica, dalle botte che spezzano le ossa delle gambe: tra Oriente e Occidente ogni punto è frattura, si sa.
Sparpagliati, congestionati, senza aiuto: a meno che tu, Direttore, non voglia tener conto della spumosa pietà dei predicatori umanitari, che dei Balcani hanno fatto una cosca mafiosa: cosa loro, dall’innovativa planimetria dei terreni espropriati al monumento sepolcrale per Madre Teresa, destinato a essere eretto sopra un colle: un sacro belvedere sulla valle di lacrime.
Illuminati dalle candele rubate, partono tutti tranne me. I loro sguardi si coagulano sulla linea di un orizzonte che non spiega dove, il mio si ipnotizza sul foglio: e che sappiano le mie parole di sangue, o non siano più niente.

Ha un cappello a tesa larga, ha un cucchiaio nella tasca. É un cucchiaio da zuppa, che gli sporge dalla giacca: gli cadrebbe, perché il manico è rivolto verso il basso; gli cadrebbe, ma la giacca che lo strizza è incollata alle sue fasce muscolari neanche fosse una guaina ortopedica. É un completo da undicenne che si cresima. Dalle maniche fuoriescono i polsi tozzi, e un lembo di avambraccio la cui pelle si aggrinzisce. Sulle mani, molte macchie di vecchiaia gli disegnano un bizzarro mappamondo; sono ampie, spesse e fulve; quella lunga gli attraversa il dorso in due, e a me sembra il continente americano dall’Alaska a Punta Arenas. Molte altre, più sfumate, si direbbero arcipelaghi sommersi. Sulle nocche di anulare, medio e indice si distende un’Asia di ocra, e il contorno sfiora la perizia cartografica.
Mette avanti le due mani, o le appoggia contro i tavoli e le sedie fra cui passa: forse manca di diottrie o di equilibrio. Delle rughe malleabili, due ditate nell’argilla, gli solcano le guance e gli piegano le labbra in una smorfia di disgusto involontaria.
Mi domanda se io sono la straniera, e mi indica sua moglie: sta seduta in un cantuccio che divide con un nucleo famigliare strepitante. Ai suoi piedi, parallele, due valigie di similpelle marrone, e tre scatole da scarpe sovrapposte e sigillate con il nastro adesivo che riproduce il logo NATO NATO NATO NATO NATO.
Mi domanda nuovamente se io sono la straniera che è venuta per parlare al mondo intero delle cose sconvolgenti di cui è stata testimone.
Ha il sospetto che io non parli la sua lingua. Siete soli? Dove andrete dopo Mitrovica?, chiedo per sfoggiare il mio glossario slavo. Il quesito non può avere una risposta, tutti fuggono e nient’altro, ma il sorriso soddisfatto mi conferma la natura del suo dubbio: cerca quella che è venuta per udire e che può udire, cerca quella che maneggia l’alfabeto degli autoctoni. Apro a caso il taccuino, le mie pagine a matita e in cirillico: lui si siede compiaciuto, e la bocca gli si tende in un ovale di sorpresa fanciullesca, il sorriso di chi ha perso tutti i denti. “Non so bene dove andremo”, mi risponde mentre fruga nella giacca; tira fuori un fazzoletto lindo, e un astuccio lungo e stretto. Me lo porge. “Dica tutto quel che visto e che ha sentito, non dimentichi mai niente”, mi bisbiglia: sopra il mai cade un accento furibondo, una specie di comando, e quel tutto ha una forma di bestemmia. “Dica tutto del Kanun, dei raggiri del Serpente, delle bombe umanitarie, della Drenica, dei postriboli, delle biblioteche in fiamme.”
Del Kanun io so davvero l’essenziale: chi ha provato a indagare ha rischiato oltre il limite. Ligj mbi Ligjet, la Legge più Potente di Ogni Legge: è la denominazione schipetara dell’antico codice d’onore degli Illiri, transitato invariabile fra le pieghe della Storia; è applicato con rigore ogni volta che è richiesto, Direttore. Il più illustre dei suoi libri, detto Codice di Sangue, stabilisce che chi ha ucciso sarà ucciso: di occhio in occhio, di incisivo in incisivo, ogni epoca ha le sue faide e rappresaglie, e non solo nei Balcani.
“Siamo in pieno Medioevo…”
Non reagisce. Squadra torvo il cartello di metallo che ammonisce gli avventori:
É PROIBITO BESTEMMIARE
E SPUTARE
E PARLARE DI POLITICA.
“…Ma lei sa che cosa intendo. Li ha mai visti, i bambini zafferano?”
É difficile anche scorgerli. Sono gli eredi di chi ha commesso un crimine: centinaia, nelle zone montagnose di Tropoja. Chiusi in casa dalla nascita, ingialliscono in silenzio: se venissero condotti all’aperto, pagherebbero col sangue il delitto perpetrato da un fratello o da un padre latitante.
Nell’involucro che mi ha offerto c’è una stilografica dorata.
“É il regalo più prezioso che io abbia ricevuto nella vita. Sono stato professore. Credo sia il momento adatto per donare questa penna a chi è libero di scrivere tutta questa verità.”
Rabbrividisco; ogni nervo nella schiena si indurisce: cosa è vero e cosa è falso, in questa baraonda di milizie, di masnadieri e di affaristi; cosa ho visto veramente, chiusa dentro questo assedio? Cosa scrivo? Una prova di trasmissione frammentaria, che interrompo di continuo per permettere a ogni incanto e a ogni squarcio di sbocciare, farsi fiore e poi ammalarsi, decomporsi; ho sentito voci vaghe, voci monche, messe in circolo; ho osservato fotogrammi marginali, se ho potuto.
Guarda, il vecchio, nei miei occhi; sente male. Per tentare di appigliarsi al reticolo di suoni, di iniettarselo nella testa dove tornerà a riconquistare un senso oltre il ritmo ovattato, si sbilancia in avanti. Sulle valigie che costringono i piedi della moglie a star fermi, c’è un cognome tracciato con il gesso: ?????????. Basterebbe una manica strofinata da un passante, basterebbe uno sputo di scherno per sbattezzare i due vecchi, toglier loro tutto quello che hanno salvato – un cognome – e consegnarli al MISSING PERSONS &
DETAINEES BUREAU allestito oltre il fiume.
Mi alzo, decisa ad andarmene; un principio di barrito nasce già esausto, una frase amputata; l’essenziale in caso di terremoti, trombe d’aria e colpi di stato; il riassunto ululato e ululante del timore furioso e del panico: ricordate, implora la vecchia. Ricordatevi di noi.

In vita di Babsi Jones

babsi_jones_2Un proteiforme ma molto coerente creatore di nickname fosterwallaciani, che opera letterariamente da distanze non precisate non solo in Rete e che si stima anche attraverso negazioni, ha scritto una recensione a proposito dei racconti di Babsi Jones e di Esther G. inclusi nell’antologia minimum fax Tu sei lei. Sul sito della casa editrice ieri è stata pubblicata suddetta recensione. La riprendo non integralmente: riprendo solo la parte che concerne Babsi Jones (non me ne abbia Esther G., che comprenderà – almeno: spero).

Riprendo la recensione anzitutto per motivi affettivi. Da più di un anno io ricevo telefonate, mail, messaggi su Facebook o domande dal vivo riassumbili in questa formula, che considero oscena e morbosa: “Che fine ha fatto Babsi Jones?”. Mi è capitato perfino nei dintorni di Francoforte, nella più assurda delle situazioni, che questa domanda fosse posta. Pongono la domanda critici che volevano fare vincere premi letterari a Babsi Jones, scrittori che l’ammiravano fintamente o veracemente, fotografi, uffici stampa, editor, blogger. La natura delle funzioni di sopravvivenza e addirittura di vita che connota questi richiedenti è a mio parere estremamente significativa.

Babsi Jones era e quindi sarà sempre, in quanto è, una delle migliori scrittrici italiane di questo tempo. La sua scrittura è secondo me inarrivabile per il 98% degli autori che conosco. Questa pagina murale è ciò che rimane in Rete di una delle più straordinarie costruzioni web a cui io abbia mai avuto il privilegio di accedere: un’installazione in audio e testo e musica e recitazione che esplodeva dal capolavoro di cui è autrice Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue, a mio parere uno dei libri fondamentali di questi anni e, sempre a mio parere, opera che nessuno (e intendo: nessuno, a parte tre persone) ha compreso. Nessuno ha compreso a fondo quanta potenza di umano sprigionasse da quel libro, quale enorme innovazione linguistica, retorica, quale domanda di verità, quale sisma di immaginario, quale dramma dell’esistente, quale vocazione al futuro veicolassero quelle pagine. E’ un esempio di libro miscompreso. La miscomprensione dà legittimamente nausea – e non è il misinterprete ad avere i conati.
Per dirne una: William Burroughs è tuttora miscompreso e ha vissuto con un perenne senso di nausea. Per dirne un’altra: Babsi Jones è la Burroughs italiana – letteralmente, è allo stesso livello.

Imporre la cecità all’altro è possibile soltanto varcando la soglia della cecità.

Prima di trascendersi è tutto nero.
E’ invece molto chiaro quando si desidera trascendere: non se stessi, ma un certo mondo, certe modalità di mondo.

Dice Krishna ad Arjuna nella Bhagavad Gita: “Il Sé che dimora dentro, eternamente immutabile, indeperibile e illimitato, considera questi abiti corporei come aventi un termine. Perciò combatti”. E poi gli dice: “Quando il tuo intelletto andrà oltre l’oscurità dell’illusione, allora realizzerai lo stato d’indifferenza riguardo le cose udite in passato e le cose da udire in futuro”.

L’altro giorno mi sono trovato in una casa estranea, dove è entrato, a un certo punto, un uomo fascinoso e corrucciato, che mi ha chiesto di Babsi Jones. Si trattava di uno dei molti maestri perduti di Babsi Jones.
Io sapevo cosa rispondere e non sapevo cosa dire.

Ecco la recensione che riprendo dal sito minimum fax.
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Avvicinamenti al romanzo HITLER: Sebald e Austerlitz

hitlercovermedia.jpgTre sono le dedicatarie del romanzo Hitler. Una è Helena Janeczeck, che ha messo in moto, con il suo “romanzo” Lezioni di tenebra, nove anni orsono, il progetto necessarissimo (per me, ovviamente) di osservare letterariamente Hitler: questo volto a cui gli scrittori si sono appoggiati senza guardarlo in faccia, senza scoprire che questo volto (iconizzato, reclamizzato, mitologizzato) è un volto bianco, vuoto, privo di caratteristiche – come ribadito ossessivamente, il volto che non è, il volto di una bolla di non- essere, il volto della non-persona. Un’altra delle deicatarie è Babsi Jones, l’autrice di Sappiano le mie parole di sangue. La spinta meditativa che mi ha fornito, nel momento in cui, dopo anni di studio, mi accingevo tra mille incertezze a scrivere, è stata fondamentale. Così come quella, ancora più decisiva, poiché mi è stata allestita una fucina teorica e pratica su forma e struttura e poetica, che Donata Feroldi, la terza dedicataria del libro, mi ha dato con una generosità da lasciare allibiti. Babsi Jones, tuttavia, e proprio in linea con la poetica dello sguardo da un tempo assoluto, che è il qui e ora, è riuscita retroattivamente a imporre uno sguardo confermativo e ulteriore sul <del<romanzo Hitler.
sebald_austerlitz.jpgQuesta estate, in condizioni personali assai penose, in un luogo indicibile (che sarà tra l’altro il soggetto, lo sfondo e la sostanza del “romanzo” che verrà pubblicato presso Mondadori dopo Hitler, prevedibilmente a fine 2009 o inizio 2010…), mi ero portato molti libri da leggere. Tra questi, Austerlitz di W.G. Sebald. Non riuscivo a sfondare la lettura, mi respingeva. Storia naturale della distruzione lo lessi in un giorno. Austerlitz mi opponeva come un muro. Raffinato, warburghiano – eppure spaventoso, in qualche modo – in qualche modo ne avevo paura. Tornato a Milano, ne parlai con Babsi che mi spronò, dicendo che era fondamentale per me leggerlo. Lo feci. Era fondamentale.
A cominciare da qui: “Tutti questi oggetti inerti che mi circondano – penso – sono l’unica traccia della storia individuale delle persone imprigionate e uccise ad Auschwitz”.

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Babsi Jones: in libreria Sappiano le mie parole di sangue

babsicoverrcs.jpgE’ da oggi in tutte le librerie Sappiano le mie parole di sangue, il quasiromanzo di Babsi Jones, la cui officina durante la stesura e le fasi di produzione editoriale è rimasta aperta allo sguardo di tutti i lettori che, da mesi, attendevano l’uscita di questo straordinario oggetto narrativo. Non è questa la sede in cui mi sento di dare giudizi articolati sul libro (non articolati, invece, sì: è indispensabile, è di una potenza che da anni non si riscontrava nella letteratura italiana, è fondamentale da un punto di vista estetico e ancor più politico): ce ne saranno almeno due, atte a questo (come dice Babsi nella sua newsletter, tenete d’occhio Vanity Fair; e poi Carmilla, ovviamente…). Questa è invece la sede per dire due cose. La prima: leggetelo. La seconda: Babsi Jones ha interpenetrato il suo quasiromanzo con un ulteriore capolavoro, un’autentica opera d’arte Web. L’ingresso è il sito www.slmpds.net. Da qui si diparte un labirinto estremo, sono centinaia e centinaia di pagine, in modalità html oppure scrapbook (le immagini di taccuino sono mappate con link). Sì, c’è la sinossi e tutto quanto fa sito ufficiale. babsiprofilo.jpgE’ un inganno. Provate l’esperienza. E’ possibile vedere lo splendido booktrailer ufficiale del quasiromanzo, è possibile ascoltare la sconcertante audioteca con gli incredibili mp3 recitati dall’autrice stessa dal suo libro o a partire da Beckett, Celan e Duras mixati, Sartre e moltissimi altri, oltre a un’ipotetica colonna sonora del libro. Pervaso da una miriade di link, che rimandano a riflessioni, apparati, citazioni da Handke o da Koltés (due esempi tra centinaia…), questo sito esce dalle logiche di Rete e diventa la prima autentica opera d’arte on line, annunciata da altri tentativi collettivi di giungere a un simile risultato: entrando (esiste addirittura la possibilità di una navigazione random, da quanto è impressionante il numero di pagine messe in linea…), è impossibile uscirne, tante sono le suggestioni per immagini, suoni e parole, pensieri e scarti poetici. Sappiano le mie parole di sangue comincia già non essendo letteratura: accade qualcosa, accade una tragedia (l’ossessivo riferimento all’Amleto, con l’esplosione finale dell’Amletario è significativa), e questa tragedia è metabolizzata da una scrittrice, prima di finire su pagina; e, finita su pagina, questa esperienza deborda ben al di là del confine cartaceo di una confezione testuale. E’ questo il senso profondo di una confessione iperbolica, di un’esperienza umana totale dell’umano stesso.
La proposta di Babsi Jones è scandalosa per chi vive l’esistente come esistente, e ne è pacificato o, peggio, ipocritamente e non radicalmente schifato. E’ una proposta di totalità possibile, mai chiusa. Questa proposta richiede un’accettazione o un rifiuto: richiede cioè una risposta.
Sappiano le mie parole di sangue è messo in vendita da Rizzoli, con copertina ammiccantemente fuorviante, a € 16,50.