In vita di Babsi Jones

babsi_jones_2Un proteiforme ma molto coerente creatore di nickname fosterwallaciani, che opera letterariamente da distanze non precisate non solo in Rete e che si stima anche attraverso negazioni, ha scritto una recensione a proposito dei racconti di Babsi Jones e di Esther G. inclusi nell’antologia minimum fax Tu sei lei. Sul sito della casa editrice ieri è stata pubblicata suddetta recensione. La riprendo non integralmente: riprendo solo la parte che concerne Babsi Jones (non me ne abbia Esther G., che comprenderà – almeno: spero).

Riprendo la recensione anzitutto per motivi affettivi. Da più di un anno io ricevo telefonate, mail, messaggi su Facebook o domande dal vivo riassumbili in questa formula, che considero oscena e morbosa: “Che fine ha fatto Babsi Jones?”. Mi è capitato perfino nei dintorni di Francoforte, nella più assurda delle situazioni, che questa domanda fosse posta. Pongono la domanda critici che volevano fare vincere premi letterari a Babsi Jones, scrittori che l’ammiravano fintamente o veracemente, fotografi, uffici stampa, editor, blogger. La natura delle funzioni di sopravvivenza e addirittura di vita che connota questi richiedenti è a mio parere estremamente significativa.

Babsi Jones era e quindi sarà sempre, in quanto è, una delle migliori scrittrici italiane di questo tempo. La sua scrittura è secondo me inarrivabile per il 98% degli autori che conosco. Questa pagina murale è ciò che rimane in Rete di una delle più straordinarie costruzioni web a cui io abbia mai avuto il privilegio di accedere: un’installazione in audio e testo e musica e recitazione che esplodeva dal capolavoro di cui è autrice Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue, a mio parere uno dei libri fondamentali di questi anni e, sempre a mio parere, opera che nessuno (e intendo: nessuno, a parte tre persone) ha compreso. Nessuno ha compreso a fondo quanta potenza di umano sprigionasse da quel libro, quale enorme innovazione linguistica, retorica, quale domanda di verità, quale sisma di immaginario, quale dramma dell’esistente, quale vocazione al futuro veicolassero quelle pagine. E’ un esempio di libro miscompreso. La miscomprensione dà legittimamente nausea – e non è il misinterprete ad avere i conati.
Per dirne una: William Burroughs è tuttora miscompreso e ha vissuto con un perenne senso di nausea. Per dirne un’altra: Babsi Jones è la Burroughs italiana – letteralmente, è allo stesso livello.

Imporre la cecità all’altro è possibile soltanto varcando la soglia della cecità.

Prima di trascendersi è tutto nero.
E’ invece molto chiaro quando si desidera trascendere: non se stessi, ma un certo mondo, certe modalità di mondo.

Dice Krishna ad Arjuna nella Bhagavad Gita: “Il Sé che dimora dentro, eternamente immutabile, indeperibile e illimitato, considera questi abiti corporei come aventi un termine. Perciò combatti”. E poi gli dice: “Quando il tuo intelletto andrà oltre l’oscurità dell’illusione, allora realizzerai lo stato d’indifferenza riguardo le cose udite in passato e le cose da udire in futuro”.

L’altro giorno mi sono trovato in una casa estranea, dove è entrato, a un certo punto, un uomo fascinoso e corrucciato, che mi ha chiesto di Babsi Jones. Si trattava di uno dei molti maestri perduti di Babsi Jones.
Io sapevo cosa rispondere e non sapevo cosa dire.

Ecco la recensione che riprendo dal sito minimum fax.

Anno di Babsi J: Luci al Neon
di Anno di Glad

babsi_jones_presIN MORTE DI BABSI J di Babsi Jones, contenuta nell’antologia Tu sei lei di Minimum Fax è una pièce fragile e portentosa in due Atti, un testamento letterario, un’ultima preghiera recitata a se stessi con la mano destra sull’Amleto e un piede nella fossa prima di percorrere altri sentieri privi di giustizia popolare, altre strade, senz’altro impervie, come sempre sul lato esposto della montagna. “Ci troviamo in un’ampia stanza bianca. Luci al Neon”. Questa atmosfera spettrale accompagna la visione del corpo di Babsi J (il personaggio: la defunta), luci al neon destinate alla dipartita alternata che le contraddistingue illuminano Vera, la Madre e Stella. Vera indossa un cappotto, è finemente vestita, Vera è il bello, il fiore rivestito, l’ingannata, colei che insegue la felicità, la vera illusa, la vera raggirata. Stella è la sorella minore della defunta l’amica la mano che accompagna la bocca che difende il silenzio che comprende. Maria è la madre. “Il pubblico verrà fatto entrare a sipario già aperto”: nessuna spettacolarizzazione, la fine è la fine, la fine è finita, offre il fianco, f.i.n.e., silenzio. La declamazione è lucida, fiera, Babsi si dichiara ritta, morta, giacente sul capolinea. Ma “ogni fine è inizio”. E “La morte riduce il ciclo dell’azione – non lo estingue. Quante volte ero morto, io? Quante morirò?” (Italia De Profundis, Giuseppe Genna) Il suo corpo, parabola verticale, emette il suo verdetto. Il suo corpo non produce alcuna secrezione esterna, nessuna lacrima, nessuno spettacolo, nessun rito: “Non officiate riti, state lontani dalle celebrazioni: quello che accade non è sensazionale”. Il corpo mediatico si decompone, si accascia su se stesso, implode, marcisce, i vermi iniziano la loro via crucis di sopravvivenza, una simbiosi pagana. La dis/appartenenza è totale. Il freddo, la luce, sono un’universalità senza Sesso. Lo scrittore, anche. Il buio è lasciato a chi rimane, ai “vetusti e incancreniti critici”, ai “giovani ambiziosi letterati”, la morte è uno scrigno personale, destinato allo Scrittore: ancora nessun trucco “e nella morte non c’è trucco né declinazione. Solo il lutto è recitabile: il cadavere non è che una suppellettile di scena.” Un oggetto da smaltire. Ogni amministrazione è fallita. Ogni gestione è venuta meno. Ogni categoria in cui essere inquadrata, ingabbiata, lasciata moribonda è cancellata. Ogni periodicità falsa o vera che sia, negata. Ogni parola, sfumata, volatilizzata, in-celebrata. Nessuna felicità in ritardo, Nessun fiore inutile e fetido colorato di caramellose giocosità. L’apparenza è trapassata, vive il disgusto e nemmeno quello, il perverso lieto fine: trucidato in silenzio. Il diverso è quello da mettere a lato, il lebbroso da appartare, da guardare in lontananza, di sbieco, il cane alla catena sempre bastonabile, la non persona ingiustificabile, disprezzabile, da insultare, l’insetto da schiacciare, la cavia da torturare, il miserabile da esporre alla gogna sul tavolo chirurgico del circo mediatico. In scena l’ultimo atto di una lunga serie di lasciti vaganti. Un’autopsia. Ma il pubblico pagante chiude gli occhi, immagina prati, immagina il Bello. Non c’è spazio per la visione, c’è solo occlusione, il finto è adorabile, il vero esecrabile, l’Artista immolabile, sacrificabile sull’altare dell’insulto vergognoso. Il volgo distoglie lo sguardo, Il fallimento NON si perdona, Il fallimento è accecante, fulminante, senza colore, senza sesso, non-morale, abissale. Spazio ancora alle maschere tumefatte di rossetti sanguinanti, di urla disgreganti, iniettate di significanti. Vago, per il foglio, cambio argomenti, Nuovi argomenti. “Il ricordo non è che un atto morale” (Stella, come se leggesse). “Ne facciamo quel che ci sembra più conveniente.” Siamo vigliacchi in autobus senza freni d’emergenza da strattonare, senza supporti a portata di mano, leggiadri e ondeggianti, senza peso, senza sostanza, superficiali e comatosi come lastre plastificate luccicanti e vetri appiccicosi d’untuosi tocchi. Babsi J ora combatte un’altra guerra. La sua. Quella che è sempre stata, La sua. “Lasciatela”. Si sa che gli scrittori non hanno sesso ma nello stesso tempo ce l’hanno eccome perchè il corpo è tutto, è proiezione, immaginazione, vena, sangue morente.

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